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Archives Maggio 2014

Divorzio all’italiana 40 anni dopo: lampo o non lampo?

Rosario PipoloIl cinema aiuta la memoria a non rifarsi la tinta ma a mantenere la propria capigliatura brizzolata. Non fa mai male riguardare un vecchio gioiello in bianco e nero come Divorzio all’italiana di Pietro Germi. E’ nitido il riflesso del Belpaese provinciale, dove il bello e il cattivo tempo lo facevano i feudatari della vecchia Democrazia Cristiana, rattoppata nello scudo crociato che in tanti oggi vedono cucito sulla vestaglia di Matteo Renzi.

Quando quaranta anni fa il referendum fece varcare al divorzio la soglia di legge, l’Italia annebiata dai fumogeni degli anni di Piombo visse l’illusione dell’emencipazione nel passaggio dal bigottismo alla laicità. Prima che il divorzio diventasse fenomeno del costume del BelPaese, facendo gola a tutta la ciurma di avvocati che ti spillava quattrini per mettere fine allo sfortunato matrimonio, fu il tempo della dolorosa discriminazione. Se eri un divorziato ti tiravano le pietre e se per giunta eri cattolico dovevi dire addio alla comunione con il benestare delle malelingue.

Oggi viviamo il rovescio della medaglia, tra divorziati e famiglie allargate, nell’Italia modernizzata che si avvia alla legge del divorzio lampo. Manca solo il semaforo verde del Senato e così impiegheremo più tempo a sposarci che per mandare tutto all’aria. Ops, dipende sempre dai punti di vista, perché in tanti casi mandare all’aria un matrimonio significa liberarsi degli orchi cattivi. La generazione dei miei nonni ne sa qualcosa.

Riguardare il film con Marcello Mastroianni e Stefania Sandrelli, prodotto dal lungimirante Franco Cristaldi, aiuterebbe anche i più scettici a fare un passo avanti: qui non si tratta di legge o non legge da “divorzio breve”. E’ semplicemente una questione di buon senso.

 

Laura non c’è: Io e quella scrivania vuota in un maledetto lunedì

Rosario PipoloLa scrivania di fronte alla mia è vuota. Il pc è spento. Le penne, un pennarello e un taglierino sono al solito posto. E’ lunedì e l’umore non è dei migliori. Oggi dalla finestra entra con invadenza più luce, perché la sagoma seduta a quella scrivania non c’è. Faccio finta di nente. Aspetto. Sono le 10.30 e penso: “Forse stamattina entrerà in ritardo”. Riavvolgo un flashback. Il mio arrivo in quest’ufficio cinque anni fa e lei lì a spiegarmi, passo dopo passo, l’utilizzo di un nuovo CMS, quegli aggeggio senza cui non potremmo inserire contenuti in rete.

E’ mezzogiorno. Mi guardo intorno. La scrivania è ancora vuota. Ripenso alle piccole confidenze condivise, quelle private, che andavano oltre la corteccia dell’essere colleghi di lavoro, e ai nostri caratteri diametralmente opposti: lei riservata, di poche parole; io chiassoso e chiacchierone. E’ ora di pranzo. Mi invitano a mangiare ed io rispondo alla sua maniera: “Oggi, salto”.  Dopo quaranta minuti cambio idea e scendo giù a mangiare un boccone. In fila al self-service, mi vengono in mente le volte che mi aiutava a scegliere i piatti giusti per la dieta. Tutta fatica inutile. Il weekend successivo sarei finito in bici nelle cempagne piacentine e non avrei resistito alle ghiottonerie della cucina emiliana.

Sono le tre passate. Mi frego di proposito tutte le penne dalla sua scrivania con la speranza che lei, al ritorno da una riunione, se ne accorga ed esclami: “Vorrei sapere perché in questo ufficio le mie biro fiiniscono sempre su un’altra scrivania!”. Tutto tace invece. Ripenso a quando mi regalò per i 40 anni una guida turistica sul Po. Sosteneva che era atipico per un napoletano amare il fiume che accarezzava la sua Piacenza, il territorio dove spesso fuggo alla ricerca di vecchie memorie legate alla pittura naif di Ligabue e ai castelli musicali di Verdi.

Sono quasi le sei. La scrivania è ancora vuota. Tiro fuori l’iPod, lascio scivolare via “Born to Run” che lei adorava. La voce di Bruce Springsteen, avendo tolto gli auricolari, affoga nel silenzio.
Sorrido al pensiero dei guru delle università di business e dei loro sermoni per il bene di ogni grande azienda che si rispetti: sul posto di lavoro vince la competizione sfrenata, contano i numeri, niente sentimentalismi e umanisti o filosofi dietro le scrivanie.
Io piuttosto resto dall’altra parte della barricata. Preferisco il volo degli aquiloni, che sanno muoversi anche a bassa quota, senza perdere di vista i dettagli. E’ l’unica scorciatoia per avvistare il valore di un legame vissuto su un posto di lavoro, per tornare ad essere più umani e autentici, liberandoci da quella prigionia del business che ci vorrebbe tutti omologati.

Manca un quarto alle sette. La scrivania è vuota perché Laura ha semplicemente cambiato lavoro. Rimetto le penne al suo posto. Spengo il mio pc e la luce. Per il resto lascio fare a Guccini con una canzone: Laura e l’Emilia-Romagna restano un pezzetto della mia vita.

Diario di viaggio: i lividi di Londra che il turista mai vedrà

Rosario PipoloTornare a Londra dopo un’assenza lunga di 15 anni mi ha lasciato una provocazione: i social network sono la piazza urlata dagli esperti di viaggio che, il più delle volte, non hanno nel proprio bagaglio quella “storicità da viaggiatore” che ti permette di fissare i cambiamenti di una città.

La mia Londra del 1988, quella che diede una sterzata alla mia adolescenza, non esiste più così come quella vissuta quasi senza interruzioni fino all’anno della laurea. Non è la scoperta dell’acqua calda, piuttosto l’amara consapevolezza che anche un melting point metropolitano fatto di aristocrazia, eleganza, anarchia può subire via via le minacce dell’omologazione.

La globalizzazione ha le sue colpe tanto che basta immischiarsi lungo OxFord Street tra le solite vetrine che troveremmo in qualsiasi altra città. Londra è ancora sorprendente per le contraddizioni, tra il folcloristico conservatorismo della presa di corrente all’inglese e l’agevolazione ad indossare l’abito che meglio sa esprimere la tua personalità; tra la sporcizia che ammanta le strade del centro e quel tanfo di disinfettante che respiri in una scarpinata notturna lungo Marylebone Road; tra il taglio colonialista di quella vecchia “baldracca” della Sterlina e il crocevia meticcio che la rende capitale europea della multietnicità.

Per la maggior parte degli italiani Londra è rimasta recintata tra Piccadily Circus e Coven Garden; per tanti turisti si è fatta infinocchiare nel covo del mercatino di Candem Town, svenduto agli asiatici; per i piazzisti dei social network la culla della nightlife europea che sa nascondere i propri lividi. I lividi restano e non mi convinse del contrario neanche la canzoncina di Paul McCartney, che nel 1988 trasformai in colonna sonora del mio viaggio metropolitano londinese.

Mi staccai dal gruppo all’insaputa dei miei, spezzai le gambe ai 15 anni di ragazzotto di provincia.  A Londra cominciai ad alzarmi in volo senza perdere di vista quei lividi.

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Gianna Chillà e Debby Lou, le “escluse” di The Voice of Italy senza “il cognome” alle spalle

Rosario PipoloCon la bomba ad orologeria del “televoto” a The Voice of Italy siamo entrati ufficialmente nell’inevitabile tunnel di malessere e malumore. A risollevarci dallo sconforto potevano essere “i coach” ma per fortuna le loro scelte “infelici” non sempre coincidono con quelle del popolo dei social network. Noemi manda a casa Gianna Chillà, l’indiavolata Janis Joplin romana, e J-Ax butta nelle fiamme Debby Lou per tenere stretto a sé la garbata Carolina Russi.

A questo punto, come direbbe un mio compaesano, “la domanda nasce spontanea”: Gianna e Debby, nella logica che mette in moto la miccia nel Belpaese, sarebbero andate avanti nel talent show musicale con “un cognome” diverso? Nel bel mezzo dell’ultima puntata di The Voice of Italy scopriamo con imbarazzo che Carolina è figlia di una mitica speaker radiofonica. Si tratta di Anna Pettinelli, che tra l’altro adoro, perché mi riporta ai tempi dell’infanzia con la pausa musicale di Discoring, all’interno del contenitore di Domenica In.

I dubbi restano così come l’amarezza che, all’avvicinarsi del “verdetto”, può fallire persino il coach dal pellicciotto di “anarchico” e “indipendente”, finendo tra le grinfie del condizionamento.
Mi torna in mente una bella intervista fatta ad Annie Lennox, in cui l’ex Eurythimics mi disse: “Non credo nei talent show. Sono solo uno stress emotivo inutile per tantissimi ragazzi”.

Sono convinto che se Gianna Chilla e Debby Lou organizzassero una settimana di vacanza insieme a Nashville, troverebbero la strada del meritato exploit. Negli USA i talent scout esistono per davvero e lì non serve “il grado di parentela” per salvarsi sull’orlo del precipizio. Ve le immaginate Gianna e Debby duettare in strada nella capitale del Tennessee con la loro grinta ed energia? Finirebbero subito in uno studio di registrazione.

Tornando a The Voice of Italy, Gianna Chillà si sarebbe salvata se avesse avuto come coach il compianto Rino Gaetano. Lui avrebbe riconosciuto in lei la sua “Gianna” che “non cercava il suo pigmalione e difendeva il suo salario dall’inflazione”.

Altri articoli:

TISCALI.IT – The Voice of Italy si scatena con suor Cristina e maledice il “televoto” per l’amara esclusione di Gianna Chillà

La coppa della vergogna di Fiorentina-Napoli: “un vincitore vale quanto un vinto”

Bastardi Dentro.it

Rosario PipoloSe un trofeo deve finire sotto il letame per la violenza che ha incorniciato la finale di Coppia Italia Fiorentina-Napoli dello scorso 3 maggio, allora tenetevelo pure. All’occorrenza i social network sanno come piegarsi per essere amplificatori di vergognose giustificazioni, perché il motto è il solito, anche se ci scappa il morto: The show must go on.  Godiamoci lo spettacolo, pappiamoci la coppa, calcoliamo gli incassi, il dopo si vedrà.

Facciamo una premessa una volta e per sempre: il gemellaggio violenza e stadio non riguarda la tifoseria napoletana. E’ un problema di tutta l’Italia. Se il J’accuse si fermasse all’ombra del Vusuvio, peccheremmo di miopia, alla maniera becera dell’anglosassone The Guardian, che ha liquidato sulle sue pagine “Napoli come roccaforte della Mafia”.

Mentre la rabbia ci fa rimpiangere le misure che replicherebbero le ombre del thatcherismo contro gli hooligans in Gran Bretagna, il pressapochismo all’italiana ci fa ripetere a denti stretti: “Tiriamo a campare” . E dovrebbe saperlo anche il nostro Premier Renzi, che era sugli spalti dell’Olimpico a Roma a supporto della sua Fiorentina. Se le rispettive tifoserie non hanno avuto la dignità di far sospendere la partita, lo avrebbero dovuto fare le società calcistiche. Non è successo niente di tutto questo e siamo punto e a capo. Il solito copione, le solite frasi fatte, i noiosi slogan in vista della prossime elezioni e l’indifferenza dei “tifosi onesti” a cui interessava ammortizzare con lo show il costo del biglietto.

E se chi ci governa non è in grado di dare una bella lezione ai delinquenti del calcio italiano, intervenga la Comunità Europea. Questa volta però non ci accontentiamo di una multa salata e neanche della “daspo a vita” annunciata dal Ministro Alfano. Vogliamo la resa dei conti e qualcuno che ci aiuti a capire perché “i controlli prima di accedere allo stadio” non sono uguali per tutti: le bombe di carta sono alla portata dei soliti all’occorrenza.

La trattativa con gli ultras va verificata ma sia immediata la rimozione dei vertici del calcio italiano che strizzano l’occhio a questo scempio. Rubo dai versi di una canzone di Dalla: “un vincitore vale quanto un vinto” dopo questa “coppa delle vergogna”. Restituire il trofeo non sarebbe una vigliaccata così come disertare spalti e tribune per ammaccare il controverso business delle carogne e l’oltraggio alla memoria dei Raciti di turno.

Diario di viaggio: Salerno, io e te vicini nonostante tutto…

Rosario PipoloMentre la settimana scorsa ero alla Feltrinelli di corso Vittorio Emanuele a Salerno per presentare il mio romanzo “L’ultima neve alla masseria”, osservavo la platea. Mi aveva colpito lo sguardo occhialuto di una ragazza che prendeva appunti. Serena, la cronista del quotidiano La Città, passata ad intervistarmi, aveva riflessa negli occhi la stessa luce che luccicava nei miei il giorno in cui il mio destino si legò a Salerno.

Nell’ottobre del 1992, sul palco del Capitol, cominciai sotto la guida di Ruggero Cappuccio il lento percorso che mi avrebbe trasformato in “uomo di teatro”. Perciò ho voluto che ad accompagnarmi in questa tappa fossero il regista Antonello De Rosa e i suoi meravigliosi attori di Scena Teatro Simona Fredella, Gina Ferri, Fiorenzo Pierro e Alessandro Tedesco. In fin dei conti Antonello assomiglia a Pietro, il protagonista del mio racconto: lotta in difesa dei sogni e indossa il mantello del teatro per raccontare con la sensibilità di un antropologo gli umori del territorio.

Cara Salerno, era tempo che avevo voglia di scriverti una lettera. Affacciandomi nella vetrina di La Feltrinelli e vedendo esposte le copie del mio romanzo, ho visto il riflesso del legame con te: le coccole delle compagne d’Accademia l’attrice Gina Ferri e la regista Nadia Baldi; le mattinate sul lungomare a mandar giù copioni; le chiacchierate con Ermanno Pastore che, attraverso i suoi dipinti, mi raccontava la Salerno del secondo dopoguerra; i sorrisi degli anziani, raccolti sui balconi del centro storico, come quelli di nonno Pasquale e nonna Lucia, che nel ’45 conclusero proprio qui la loro luna di miele.

Salerno, sono tornato per ringraziarti: in tutti questi anni hai custodito gelosamente i miei sogni, gli stessi che hanno appesi al cuore i miei personaggi, da Caporà a Silvio il guardastelle. Sono tornato a riprendermeli. Milano mi ha adottato senza riuscire a trasformarmi in un manager. Tu, Salerno, mi hai reso per sempre “uomo di teatro”, cucendo per me l’abito più bello, quello fatto dei sogni che aiutano “la memoria” a camminare con le proprie gambe, urlando sottovoce l’unico bisogno che ci rende liberi in questo mondo: manifestare attraverso il viaggio l’amore per ciò che ci circonda.
E l’ultimo sogno mio brilla negli occhi limpidi di Serena e della sua generazione, in una lunga rincorsa verso il futuro che fa del “nostro Sud” la prospettiva interiore dello sguardo sui dettagli.