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Archives 2017

Parliamone Sabato? Le donne dell’Est viste dal viaggiatore non sono quelle della Rai

Una decina d’anni fa, in occasione di un reportage di viaggio nei Paesi dell’Est Europa, mi feci accompagnare all’Università di Varsavia. Incrociai un gruppetto di studenti a cui raccontai questo episodio, chiedendo alla mia guida di tradurre.
Nella seconda metà degli anni ’80, alla periferia di Napoli dove vivevo, si erano trasferite molte donne polacche per lavorare come badanti e assistere gli anziani. In paese, nell’infelice pregiudizio retrogrado, circolava la voce che quelle femmine dell’Est fossero arpie perché stavano scippando i mariti alle mogli del posto.

Le ricordo il sabato mattina che si ritrovavano alla stazione per andare in gruppo a trascorrere il giorno libero nella vicina Napoli: condivisione dei giorni dalle nostre parti, sospiri nostalgici, mostravano le une alle altre le foto dei figli, dei mariti, dei loro cari.
Le ricordo con profonda commozione in fila all’ufficio postale a depositare i soldi guadagnati da mandare alle famiglie in Polonia. Salutai così gli universitari di Varsavia: “Siete una generazione sveglia, siete il cuore pulsante di questa Europa. Ringraziate e siate fieri delle vostre mamme venute in Italia a faticare per finanziare anche i vostri studi. Io le ho viste con i miei occhi”.

Chissà oggi cosa direbbero gli studenti di allora se sapessero dell’imperdonabile scivolata di Paola Perego e dei suoi autori che ha portato alla chiusura del programma televisivo Parliamone Sabato. Un colpo basso del Servizio Pubblico Televisivo, i cui vertici non si erano accorti dei “sei consigli” sul perché conviene scegliere una fidanzata dell’Est.
E pensare che proprio ieri un amico mi aveva parlato con entusiasmo del suo matrimonio a Bucarest di prossima data. Ora chi lo dice ad Alexandra, sua futura sposa e promettente psicologa over 30, che in Italia la Televisione di Stato è schiavizzata dal fetido maschilismo del bar sotto casa e dal populismo ad oltranza?

Forse il migliore modo per risarcire noi che paghiamo il canone RAI – finiamola con la solita tiritera che si tratta di una tassa sulla tv (se così fosse dovrebbe essere equamente distribuito a tutte le emittenti) – sarebbe sostituire lo spazio occupato dalla Perego, oggi capro espiatorio di tante altre zolle in cancrena del palinsesto, con una serie di ritratti delle donne dell’Est Europa nell’ultimo cinquantennio, affidati a firme autorevoli del giornalismo italiano. Sarebbe un’opportunità per affossare pregiudizi, curare il nostro strabismo.
La mia generazione ha dovuto aspettare la caduta del muro di Berlino per iniziare a dialogare e riconoscere da vicino la bellezza della gente dell’Est, vissuta nei miei on the road che mi hanno portato da Sarajevo a Belgrado, da Tirana a Bucarest, da Varsavia a Sofia.

Ci sono tanti modi per far violenza su una donna. La puntata di Parliamone Sabato è uno di questi. A viale Mazzini le mimose sono appassite da un bel pezzo.

Starsky e Hutch, si può essere amici per sempre?

Mi ha profondamente commosso uno scatto che da qualche giorno circola in Rete: un anziano signore dell’età di mio padre spinge la carrozzella dell’amico. Non sono due persone qualunque Paul Micheal Glaser e David Soul. La loro fama di attori è aver prestato il volto sul piccolo schermo a Starsky e Hutch, protagonisti della famosa serie televisiva dell’ABC che quelli della mia generazione aspettavano con trepidazione per continuare a sognare il primo viaggio negli USA.

Mentre i social network ci vomitano addosso scenette casalinghe di finti legami, pane per i denti del voyeurismo facebookiano, due vecchie glorie del cinema e della televisione americana sanno darci una bella lezione: le amicizie vere e durature possono nascere anche sul posto di lavoro, su un set televisivo dove lo star system fagocita competizione sfrenata, peggio del veleno dei serpenti, mettendo in secondo piano i valori dell’amicizia.

Oggi si può essere ancora amici per sempre? Questo bell’andare di corsa e chissà in quale direzione non è consolante perché abbiamo smesso di guardare negli occhi l’altro.
Ci accontentiamo di scarti, di misuratori virtuali, senza volere ammettere che qualsiasi tipo di legame, un’amicizia in primis, deve seguire le orme e i passi della trasformazione, della crescita e del cambiamento di ciascuno.

Paul, attraverso la spinta di quella carrozzella, ha prestato le gambe a David ricordandogli che, se papà da piccini ci faceva salire sulle spalle per riuscire a guardare il mondo, un amico autentico ti presta volentieri “le sue gambe” per farti percorrere l’ultimo miglio. 

Sì, può essere amici per sempre? Non occorrono trattati o le solite canzoni da masticare come un chewingum. Questo scatto può farci fare qualche considerazione, perché non si tratta né di un vezzo di tenerezza né di un fotogramma di Starsky e Hutch con la mano abile di uno sceneggiatore. Sono Paul e David, due amici cresciuti l’uno sulle orme dell’altro, in un arco di tempo che si chiama vita.

8 marzo senza mimose: alla (mia) donna i versi di “Te recuerdo Amanda” di Victor Jara

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rosario_pipolo_blog_2Quintali di mimose che profumano l’8 marzo e sotterrano il tanfo della memoria. Ripenso al mio ultimo viaggio a Santiago del Cile e alla violenza sulle donne negli anni bui della dittatura di Augusto Pinochet. Ritrovo i versi della poesia musicata Te recuerdo Amanda di Victor Jara, cantautore cileno ammazzato pochi giorni dopo la caduta di Salvador Allende.

Te recuerdo Amanda
la calle mojada
corriendo a la fábrica
donde trabajaba Manuel.

Di buon mattino, in Italia, lei sulla strada verso il lavoro intravede diversi ambulanti che dispensano mazzetti di mimose. Sul posto di lavoro le regalano un bel bouquet di fiori, ma del mio neanche l’ombra. Non se lo aspetta dopo tutto questo tempo. Nel frattempo, io sono in viaggio appuntando la traduzione della canzone di Victor.

Ti ricordo, Amanda,
nella strada bagnata
mentre correvi alla fabbrica
dove lavorava Manuel.
Col tuo largo sorriso,
la pioggia nei capelli
non t’importava niente
correvi a trovarti con lui,
con lui, con lui.

Inciampando in questi versi ripenso alle ragazze cilene che non fecero più ritorno dai loro cari.
Intanto, lei torna a casa, mette il bouquet in un vaso e lo depone in soggiorno, a centro tavola. Si accosta alla finestra e di sbieco vede un uomo che regala un pacco di cioccolatini alla sua donna. Sbuffa. Poi si prepara per la serata insieme alle amiche.

Sono cinque minuti,
la vita è eterna
in cinque minuti.

Termino la traduzione. L’aereo è arrivato in ritardo. In auto sono invaso da migliaia di batuffoli di mimose che hanno riempito le botole storiche lasciate alle spalle, convinti che l’8 marzo sia il risciacquo delle nostre coscienze.
Lei, dopo la serata con le amiche, bivacca sul lettone. Un’ultima occhiata al PC. Scioglie i  capelli e lancia il fermaglio sulla cassettiera. Spegne la luce e sprofonda con la guancia sinistra sul cuscino.

Suona la sirena,
di nuovo al lavoro,
e tu, camminando,
illumini tutto.
Quei cinque minuti
ti hanno fatto fiorire.

Pochi minuti prima della mezzanotte, arrivo fuori casa sua. Citofono, non sente. Ci riprovo, niente. Mi sposto oltre il cancello e provo a ripetere sottovoce queste parole:

Correvi a trovarti con lui,
che partì per la sierra,
che mai fece male a nessuno,
che partì per la sierra
e in cinque minuti
fu trucidato.

Mi riconosce. Viene ad aprire in camicia da notte. I soliti capelli scompigliati. Sembra infastidita vista l’ora tarda e senza preavviso. La prendo per mano e ci incamminiamo nella sua stradina. Non è scorbutica come mi sarei aspettato. Dimentica persino di avere le ciabatte ai piedi. Le anticipo che non ho mimose con me, ma soltanto dei versi tradotti per lei. Che sbadato ho perso il foglietto, niente più traduzione, tanta fatica per nulla durante il viaggio.

Te recuerdo Amanda
la calle mojada
corriendo a la fábrica
donde trabajaba Manuel.

Canticchio questi versi, gli unici che ronzano nella mia mente. Nelle pozzanghere a terra galleggiano mimose sprecate e appassite tra i soliti luoghi comuni della ricorrenza.
Il rumore dei nostri passi ci fa ritrovare, come se fossimo a Santiago del Cile, io stremato da un viaggio intercontinentale, lei in tenuta da nottambuli, con una comune convinzione: nessuna dittatura potrà mai cancellare gli orrori della violenza sulle donne, lasciando che il tempo sorvoli sui dettagli di quello che oggi trasuda di maschilismo, annidatosi sotto false spoglie nel quotidiano.

Ciao Antonio, amico e dono della “strada” di periferia

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rosario_pipolo_blog_2Ci ho messo mezza vita per bollare la consapevolezza che la strada mi ha donato la maggior parte delle persone che hanno abitato la mia esistenza. Non ho detto un condominio, un appartamento, il terzo piano di un palazzo. Ho detto la strada, una strada di periferia, punto. L’infanzia ti dona gli amici, ma poi con il passare del tempo te li sottrae.
La strada no, li spinge tra le braccia della quotidianità e li lascia vivere lì, in un angolo, anche quando te ne vai, anche quando sei dall’altra parte del mondo, illudendoti che nei posti in cui sei cresciuto tutto resti immobile e la memoria sia protetta da una forzuta campana di vetro.

Quella con Antonio è stata un’amicizia fiorita per strada, lì alla periferia di Napoli, anche se con suo fratello minore c’eravamo conosciuti tra i banchi dell’asilo. Con il passare degli anni mi divertiva il fatto che io e Antonio avremmo potuto comunicare con i segnali di fumo, perché i nostri balconi erano dirimpettai in linea d’aria.

Il posto dove lo rincorrevo era un polveroso campetto di calcetto, soprannominato da noi ragazzini “campetto dell’Avis”, perché si trovava a pochi passi dall’associazione dei volontari donatori di sangue. Io con il pallone non c’entravo nulla, ero assolutamente imbranato e l’unica scusante era il destino da piccolo occhialuto “quattr’occhi”. Antonio era sempre garbato in occasione di quelle poche partitelle in cui mi tiravano dentro.
Quando anni dopo lo ritrovai con i fratelli a gestire un negozio di noleggio video – lì respiravo l’atmosfera del film indipendente Clerks – me ne uscii con questa battuta per cui mi attribuirono un futuro da pubblicitario: “Altro che Warner Bros, tutt’altro cinema con i Cerbone Bros”.

Antonio prese in sposa una mia adorata compagna delle scuole elementari ed io mi convinsi che “la strada” era capace di cucirti addosso una nuova famiglia, fatta da quelle stesse persone che costellavano la tua quotidianità e soltanto in apparenza erano delle comparse.
Le amicizie da strada,
come quelle tra me e Antonio, non hanno niente a che fare con queste odierne misurate tra i mi piace convulsi di Facebook o le logorroiche chat di WhatsApp. Erano tutt’altra storia, avevano il tanfo dell’asfalto, il rialzo di un lungo marciapiede, il recinto di una panchina dove ritrovarsi a chiacchierare e spingere i sogni di quelli della nostra generazione.

Il dolore e la rabbia ti assalgono quando ripensi all’ultima volta che lo hai incontrato, qualche anno fa, senza immaginare che quella sarebbe stata l’ultima. Nessuno ti avverte quando un’amicizia da strada finisce lassù, perché nessuno immagina quanto conti ancora davvero per te.

Adesso chi glielo dice ad Antonio che non ho mai smesso di volergli bene? Gli ho fatto un bel dispetto per questo doloroso scherzo, ho fregato una sua bella foto. La guardo e me lo ritrovo accanto in una notte milanese. Piango lacrime di marzo. Sono sempre io, l’amico di strada con i capelli brizzolati, occhialuto come allora.

Lettera aperta a un bambino dei Nati Per Leggere

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rosario_pipolo_blog_2Sono tornato per guardarti diritto negli occhi nello stesso fazzoletto di terra in cui germogliò la mia infanzia. Sono tornato perché se i piedi non affondano nella terra della memoria, si sbiadiscono i dettagli, scemano i particolari.

Tu sei prima di tutto uno dei Nati Per Leggere perché per fare il mondo ci vuole un libro, per fare un libro ci vuole la vita di chi lo ha scritto, per fare la vita ci vogliono pagine di carta stese al sole come il bucato che profuma d’inchiostro.

Tu sei prima di tutto una storia, una storia di carta, fin dal tempo in cui eri nel grembo di tua mamma, fin dai tempi in cui la mano di Dio ne scrisse una fatta su misura per te, attraverso quel rintocco riconoscibile soltanto sotto le sembianze di un atto d’amore.

Tu sei prima di tutto il coraggio di liberarti dalle ossessioni tecnologiche di noi adulti che abbiamo spodestato l’immaginazione per rinchiuderci nelle celle di schermi piatti. Tu sei prima di tutto la generosità di questi volontari, oggi cantastorie per accompagnarti in un viaggio che ci rende tutti sostanza della nostra comune esistenza.

Tu sei prima di tutto ciò che non sono stati i bambini della mia generazione a cui non raccontarono che il mondo dell’infanzia senza gli educatori è come una fiaba senza incantesimi e fate dorate.
L’ho capito da grande quando mi sono innamorato di un’educatrice che, in una notte di Natale, mi fece papà per un giorno portando tra noi due un fratellino e una sorellina di una casa famiglia, specchio riflesso sui passi del nostro amore e dei genitori che saremmo diventati.

Io e te abbiamo in comune lo stesso fazzoletto della terra allevatrice ed ora che vedo tua mamma, testarda volontaria, strizzare lo straccio per pulire questo spazio-lettura che nessuno mai ti scipperà, sono convinto che tu non indosserai nessuna maschera a Carnevale.
Punta verso il cielo il tuo libro-scudo che ti ha fatto crescere nell’alveare di Nati Per Leggere senza fare come noi bimbi di allora, costretti a travestirci da Zorro per affrontare i bulli con le pistole giocattolo, figli dei lacchè della malavita.

Troverai questa lettera all’alba e io sarò di nuovo in viaggio, perché la mia condanna è avere sempre la valigia pronta. Tornerò, sì tornerò per riprendermi ciò che mi è stato rubato e ad indicarmi la strada sarai tu, sarete voi Nati Per Leggere, germogli del futuro dell’infanzia in soccorso a noi adulti per scontornare e ridisegnare sogni di carta taciuti.

Cartolina da Montevideo: l’Uruguay nel tramonto del Rio de la Plata

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rosario_pipolo_blog_2La sera non è calata ancora in Uruguay. La navigazione sul Rio de la Plata l’avevo condivisa con Pablo, il fisico argentino in esilio in Europa negli anni della dittatura. Il resto delle ore di sole le avevo dissipate bighellonando a Colonia del Sacramento, zolla della memoria colonialista in Sudamerica scippata dagli spagnoli ai portoghesi: sole, vento tra i capelli, un piatto di chorizo e del buon vino, le onde ribelli del mare come in un romanzo iniziato e mai finito.

È bastato un filo di vento per guidarmi fino a Montevideo. C’è ancora luce, quella sufficiente per una traversata di quattro chilometri lungo l’avenida che si distende nell’abbraccio di Placa Indipendencia. Quando mi davano per disperso nelle storie di Corto Maltese disegnate da Hugo Pratt, avevo imparato che le traversate non finiscono mai, l’arrivo è inaspettato punto di partenza.

Montevideo è una traversata continua, nelle stradine della città vecchia, abusivo tra una coppia di sposini uscita dal municipio, mangiando carne al mercato coperto, provando una coppola uruguaiana per quando sarebbe arrivato l’inverno, e poi la lunga camminata sulla Rambla.
Niente a che fare con i nostri lungomare, a parte che non si tratta di acque salate bensì delle acque meticce del Rio de Plata. La Rambla sembra non finire mai tra i bambini che giocano, i ragazzi che hanno marinato la scuola accovacciati sugli scogli, i palazzoni che delineano il mio percorso all’atteso tramonto insieme ai pescatori. Il silenzio non mi spaventa perché i singhiozzi delle onde del Rio de la Plata fanno di questo estuario il punto di raccolta dei sogni di chi è venuto a vivere qui da altri paesi limitrofi o lontani

L’Uruguay è terra di tutti, anche di Luca, compagno di classe di mio cugino che a fine anni ’90 mi ospitò una notte a Milano. La napoletanità di Luca ha seminato nella nuova vita uruguaiana quel seme di libertà che fa di noi viaggiatori persone nuove. I ricordi condivisi con Luca in una notte stellata a Montevideo mi hanno assuefatto: la vita li redime i viaggiatori come noi, perché la ricerca di noi stessi mette in dubbio quelle maledette certezze che fanno della routine l’agglomerato urbano della nostra anima.

Quando riparto la colonna sonora di questa tappa mescola e rimescola le sonorità del candombe di Ruben Rada con le canzoni dell’album Mediocampo di Jaime Roos e gli sputi musicali contemporanei dei Notevagustar.
In piena notte, durante la traversata di ritorno sul Rio De La Plata, mi fa compagnia Rosa, anziana uruguaiana di origini italiane, che mi racconta dei suoi cani e del suo compleanno che sta andando a festeggiare con il fratello rimasto solo a Buenos Aires. Dice che festeggiare il compleanno anche con un napoletano porta bene e così mi offre una colazione senza candeline.

Rosa scompare nel buio della notte così come Luca, Montevideo, ma davanti a me c’è la luce di una nuova terra ferma e di questo viaggio in Sudamerica che disegna gli argini del mio cambiamento e della mia rinascita.

Se incontrate Greta Menchi raccontatele chi era Claudio Villa 

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rosario_pipolo_blog_2Se incontrate Greta Menchi, la YouTuber che ha scatenato la sommossa sui social per essere finita nella giuria degli esperti del 67° Festival di Sanremo, raccontatele chi era Claudio Villa.

Il suo temperamento da ribelle fece del romano Claudio Pica “il reuccio della canzone Italiana”. Da ugola possente tra le strofe di quelle canzoni accompagnò la risalita dei nostri nonni negli anni del Secondo dopoguerra, tra gli affanni della ripresa dell’Italia ferita ed umiliata dal fascismo.

Se incontrate Greta Menchi, raccontatele che ai tempi di Claudio Villa il successo non era fatto delle bolle di sapone di milioni di “mi piace” ma dal percorso di sacrifici che accompagnavano il talento passo dopo passo per fare del canto un mestiere. Figuratevi poi per il figlio di una casalinga e di un vetturino della Roma popolare e trasteverina, lontana dai piani alti di via Veneto.

Se incontrate Greta Menchi, raccontatele che il “reuccio” Claudio Villa battagliò perché al Festival di Sanremo sparissero quelle maledette schedine, antenate del diabolico televoto dei giorni nostri, che mischiarono il galoppo con gli interessi dell’industria discografica.

Se incontrate Greta Menchi, raccontatele che Claudio Villa si infuriò quando il Festival di Sanremo fu invaso dal playback e i cantanti sembravano pupazzi di cartone doppiati dalla loro stessa voce. Fu guerra a viso aperto per far tornare l’orchestra sul palco dell’Ariston. La ebbe vinta e oggi gli riconosciamo il merito.

Se incontrate Greta Menchi, raccontatele che fino all’ultimo minuto, in giacca da camera, Claudio Villa guardò in TV il suo amato Festival di Sanremo. Il 7 febbraio di trent’anni fa, prima che Morandi-Tozzi-Ruggeri fossero proclamati vincitori del Festival di Sanremo del 1987, Pippo Baudo ci diede la notizia triste. Da casa intonammo “Buongiorno tristezza” e forse Sanremo fece un grande errore: avrebbe dovuto togliere con l’ascia del legno dal palco dell’Ariston e rivestire il feretro del signor Claudio Villa.

Se incontrate Greta Menchi, raccontatele che non appartengo alla generazione di Claudio Villa, ai tempi ero uno sbarbatello di terza media. Ho cercato la memoria delle mie radici nell’Italia “povera ma bella” dei miei nonni, quella vissuta al cinema grazie ai Risi, agli Steno, ai Monicelli, ai De Sica, ai Visconti.

Se incontrate Greta Menchi, raccontatele chi era Claudio Villa, senza vezzi nostalgici in bianco e nero, ma con un pugno che tiene stretto il tempo della vita, senza la tachicardia del voyeurismo volgare dell’età dei social network.

Cartolina da Alta Gracia: l’umanità dell’icona Che Guevara

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rosario_pipolo_blog_2C’era un sole diverso ad Alta Gracia, nella provincia di Cordoba, in quella zolla di Argentina che ha fatto del mio on the road in Sudamerica un’altra tappa di un viaggio indimenticabile. Il sole è diverso, perché con la sua luce accecante riapre la porta socchiusa della storia e restituisce umanità all’icona di Ernesto Che Guevara. 

Al numero 501 di Nicolas Avellaneda c’è la casa in cui il guerrigliero rivoluzionario venne a vivere da bimbo per problemi di asma. Le case museo tendono a mummificare la memoria storica, a farne polvere folcloristica per i turisti avidi di selfie e scatti fotografici. Qui è diverso, il tempo catalizza l’infanzia e la proietta nel futuro dell’uomo, del medico, dello scrittore, prima che del guerrigliero e rivoluzionario.

Per tanti il Che è rimasto l’icona delle piccole utopie adolescenziali nel volto stampato di una tshirt; per altri il personaggio che fu strumentalizzato dell’Occidente e tradito dagli stessi compagni di un tragitto utopico.

Nella calligrafia ventilata del Che ci sono pensieri che disegnano il mare dei naviganti per remare verso una vita più giusta, più equa, per far sentire la voce a chi è stata scippata la ragione. Nel mobilio della casa così come nella motocicletta, simbolo del viaggio supremo dei diari, si sente il profumo di giorni vissuti senza i tarli della routine che ci sottomette come soldatini di piombo agli ordini degli altri.

Dio ha fatto i santi, la vita ha fatto i peccatori deliranti. Ernesto Che Guevara, partorito nell’Argentina radicale, commise “il peccato” di farsi guerrigliero per abbattere la cortina di ferro delle ingiustizie sociali.

Mi stendo sull’erba, mangio un paio di empanados, osservo la rincorsa sfrenata delle nuvole con il vento tra i capelli e il sole che mi fa il solletico sulla pelle. Socchiudo gli occhi. Torno a sentirmi libero.


Cartolina da Santiago del Cile: come un esiliato tra gli spettri dell’11 settembre

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rosario_pipolo_blog_2È ancora buio. Sulle spalle ho la stanchezza della traversata notturna della cordigliera delle Ande. Ho perso il conto dei giorni in viaggio. Butto la coda dell’occhio sull’orologio: è il 1 dicembre. Sono arrivato a Santiago del Cile.
Cammino lungo l’avenida Libertador ‘O Higgins a passo sostenuto, prima che il sole sorga nella capitale del Paese che l’11 settembre 1973 finì in mano ai golpisti militari. La mia alba è davanti il palazzo della Moneda. Rivedo la sommossa, l’edificio in fiamme, rivivo la fine del Cile di Salvador Allende. C’è un poliziotto che marcia su e giù con quell’aria insidiosa di “pinochetismo”, quel solco di nostalgia seppellita.

Comincia un’altra tappa del mio viaggio della memoria, l’ho atteso a lungo, prima che vedessi al Festival del Cinema di Venezia Garage Olimpo di Marco Bechis; prima ancora di vederci chiaro sull’ascesa al potere dell’orco in divisa Augusto Pinochet, appoggiato dall’allegra brigata occidentale; prima ancora di cercare documenti e dossier sul genocidio dei desaparecidos, di cui tutti siamo stati complici, chi più, chi meno.

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Il mio è un rancore storico distillato nel distacco dei cileni, che evitano di rispondere sull’argomento senza prendersi la briga di manifestare una posizione netta. Per quanti l’11 settembre è sparito nel tunnel dell’indifferenza?
I cileni in esilio conosciuti nella mia vita, incluso il gruppo musicale degli Intillimani intervistati a Milano più di dieci anni fa, mi hanno dimostrato il contrario.

Una fioraia mi regala un garofano bianco ed io la ringrazio in uno spagnolo maccheronico: “Sono un italiano con lo stato d’animo di un cileno in esilio che fa ritorno a casa”. Sì, mi sento così lungo i viali del Cimitero Generale di Santiago con lo sguardo abbassato sulla zolla di deserto di croci senza nomi e fosse scavate nella terra prosciugata dalle lacrime di mamme, figli, fidanzate che non videro tornare più i propri cari, “scomparsi”, in uno dei genocidi sibilanti più crudeli del XX secolo.

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Poi il garofano bianco finisce sulla tomba di Salvador Allende (1908-1973), nel silenzio di un venerdì mattina e tra i pensieri di una profonda riflessione che si chiude in una conversazione tra me e   i titolari della libreria de Luis Rivano, in cui trovo per il mio archivio due pubblicazioni degli anni ’60 dei discorsi del presidente cileno ammazzato dal potere militare. Volevo sentire il profumo della carta prima della dittatura, scorrere l’inchiostro delle parole che sognavano un Cile diverso.

È un’ascia che fa  pezzetti i miei 40 anni l’impatto emotivo con il Museo della Memoria dei Diritti Umani. Un viaggio nel viaggio tra testimonianze, filmanti, documenti, custodite oggi nell’unica riserva della memoria cilena e degli orrori di quella dittatura.

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Continuo a sentirmi un cileno in esilio che ha fatto ritorno a casa, ma senza aver trovato le persone lasciate. Mi perdo tra le vie di Santiago del Cile, ascoltando le canzoni di Los Prisoneros, ostili al regime di Pinochet, il cui album Pateando Piedras resterà la colonna sonora di questa tappa indimenticabile.

Di ritorno da Santiago, siamo fermi in piena notte tra le Ande per i controlli alla frontiera argentina. Azzanno un panino, fa freddino, punto gli occhi al cielo. Le stelle stanno a guardare: sono lo sguardo di coloro a cui è stata spezzata la vita, facendoci credere che fossero dispersi. Ci abbiamo voluto credere. Sono i rimorsi della nostra coscienza.

[Il 31 gennaio 2017 questo diario di viaggio scritto in inglese è stato pubblicato dal quotidiano indipendente cilento The Santiago Times.]

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Diario di viaggio: Parigi non può essere più la stessa con un Ground Zero

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Bataclan, 6 gennaio 2017 (In memoria di Valeria Solesin e di tutte le vittime del 13.11.2015)

rosario_pipolo_blog_2Nel 1996 arrivai la prima volta a Parigi su un treno della SNFC francese. In vent’anni il mio via vai ha sigillato un legame continuativo con la capitale francese. Ci sono ritornato on the road con Ouibus, sentendomi per metà francese appena vi ho messo piede con le dovute distanze dal solito tam tam dell’Epifania e dello slogan deplorevole di “La Befana tutte le feste porta via”.

I controlli alla frontiera sono certosini, l’aria è tesa, vanno e vengono passaporti. Anche io, che sono italiano, sono sottoposto ad un mini interrogatorio, mi sento straniero in direzione di una Francia che invece mi appartiene.
La mia alba è a Place de la Bastille, il luogo in cui Parigi diede all’Europa la più grande lezione di civiltà, ghigliottinando una monarchia incapace, facendo soffiare sul vecchio continente i venti di Liberté, Égalité, Fraternité.

A pochi passi da lì il primo Ground Zero parigino, la vecchia redazione di Charlie Hebdo messa a ferro e fuoco dal terrorismo che il 7 gennaio 2015 spezzò la matita della libertà d’espressione. Mi incammino verso il numero 50 di Boulevard Voltaire. Davanti il Bataclan, la sala concerto che subì uno degli attacchi terroristici del 13 novembre 2015, resto pietrificato ripensando agli angeli che vi morirono, inclusa la nostra connazionale Valeria Solesin. Qui c’è la seconda fossa del Ground Zero Parisien, oltre la gelida lapide di marmo.

Entrando in Place de la Republique si scorge il memoriale corner con i fiori dedicato ai morti del terrorismo infame. Parigi ha smesso di essere acquerellata tra Torre Eiffel, Arco di Trionfo, Louvre – triangolo sopravvissuto soltanto nell’immaginario del turismo di massa distratto – e perde i suoi simboli da cartolina.
Il Ground Zero spezzettato sul cuore ferito della Ville Lumière scatena in ciascuno un indomabile sospetto: chiunque, a pochi passi da noi, potrebbe essere il terrorista del prossimo turno: l’uomo barbuto che legge il giornale; la donna minuta col burqa al forno per la solita baguette; il ragazzo che bivacca sulla panchina.

Questo “sospetto” mette a repentaglio il Nous somme unis, facendo correre ai francesi il rischio di risvegliarsi gli uni contro gli altri, come accenna tra le righe il meraviglioso film Tour De France diretto da Rachid Djaïdani, visto in anteprima insieme a Depardieu all’ultimo Festival France Odeon di Firenze.

Chi voleva ammirare Parigi dall’alto è andato sulla Torre Eiffel, senza rendersi conto che la foschia in una domenica di gennaio ne avrebbe impedito la vista.
Parigi non si lascia più guardare dall’alto, ma dal di dentro. Questo può avvenire soltanto dal basso e con lo sguardo diritto verso un Ground Zero che ci appartiene.