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Archives Marzo 2018

Scuola di vita e teatro con Luigi De Filippo in quindici anni di camerino

Nel 1984 mia madre, che aveva una particolare adorazione per Eduardo, Peppino e Titina, mi regalò un biglietto per lo spettacolo Non è vero ma ci credo di Peppino De Filippo. Ci andai con la classe delle medie al teatro Diana di Napoli. Fu la prima volta che vidi sul palco Luigi De Filippo e non immaginavo di certo che anni dopo sarei tornato come giornalista in quei camerini ad intervistarlo.

In realtà con Luigi è accaduto qualcosa di diverso rispetto agli altri attori teatrali incontrati sul mio cammino. Tra il 1987 e il 1992, negli anni in cui da adolescente vagavo da abusivo nei camerini teatrali con un mangianastri fregato a mia sorella, ho conversato ogni stagione teatrale con l’ultimo erede dei De Filippo.

Al termine dello spettacolo mi appostavo davanti al suo camerino come un cane fedele che scodinzola e aspetta che il padrone gli dia un osso. Attraverso lo specchio mi riconosceva e puntualmente ripeteva: “Stai ccà ‘nata vota. Assiettete”. Prendevo la seggiola, mi sedevo accanto a lui, azionavo il mangianastri e lo ascoltavo mentre si struccava.
Luigi De Filippo aveva la stessa sagoma di mio nonno Pasquale, per giunta baffuto con lui, e mi trattava ogni volta con lo stessa attenzione di un nonno verso il nipotino che con devozione ha una voglia matta di raccogliere memorie per crescere. Poi arrivava uno dei suoi attori preferiti in compagnia, il garbato Oscarino Di Maio – indimenticabile in una messa in scena di fine anni ’80 di La lettera di Mammà – che mi faceva sentire come uno di famiglia.

Riascoltare oggi sui nastri del mio archivio alcuni frammenti delle nostre conversazioni di allora mi commuove profondamente e non per quell’alone romantico di noi testardi pronti a fare del teatro l’unica scuola di vita.
Gli occhi severi ed entusiasti di Luigi De Filippo hanno accompagnato la mia crescita perché il teatro, quello fatto di sacrifici e anche di “umiliazioni” come gli aveva insegnato suo padre Peppino, resta l’unico impermeabile per sottrarsi alle piogge acide che avvelenano chi guarda al futuro facendo della memoria un gomitolo di cartapesta.

L’ultima volta che incontrai Luigi De Filippo fu a Roma nel ’98 per una ripresa di L’amico di Papà. Quella volta non ero “l’abusivo del camerino” ma un giornalista accreditato. In quell’occasione Luigi mi ricordò che l’universatilità della napoletanità, ereditata dal palcoscenico di nonno Scarpetta e papà Peppino, era il valore che la mia generazione doveva difendere a denti stretti affinché Napoli non perdesse lo scettro di culla del teatro.
Si infilò il soprabito, mi diede un pizzicotto, entrò in un’auto e scomparve come un puntino su via Nazionale.

 

Senza la tradizione teatrale che la mia famiglia ha costruito nel tempo non sarei quello che sono diventato. Luigi De Filippo (1930-2018)

Quel concerto di Paul McCartney insieme a Fabrizio Frizzi

Il 19 febbraio 1993 al Forum di Assago io e Fabrizio Frizzi sembravamo il fratello minore insieme al maggiore venuti a spartirsi il concerto di Paul McCartney. Avevamo due cose in comune: la montatura degli occhiali e la passione sfrenata per i Beatles.

Io ero arrivato a Milano da Napoli, dopo una litigata furibonda con mio padre, non ancora ventenne. Lui aveva superato da un pezzo la trentina e aveva accanto la sua Rita. Lei mi sorrideva, con Frizzi attaccai bottone e gli dissi che i miei compagni di liceo notavano una somiglianza tra me e lui. Parlammo delle canzoni di McCartney, dei Beatles, mi disse che la sua preferita era Penny Lane.

In quella mezz’ora, prima l’inizio del concerto di Macca, Frizzi mi apparve improvvisamente come un fratello maggiore che ti faceva venire voglia di aprirti senza timore di essere giudicato. Rassicurò le mie perplessità da neo studente universitario senza né arte né parte con una sagace riflessione: “Le passioni sane vanno alimentate perché ci aiutano a far venire fuori il meglio di noi stessi”.

Al termine del concerto con il suo bon ton Fabrizio Frizzi mi consigliò di accorciare i capelli se volevo assomigliargli di più. Ci stringemmo la mano e poi lui scomparve lungo un corridio del Forum tenendo per mano Rita Dalla Chiesa.
Stasera ho tirato fuori dal mio archivio il biglietto di quel concerto memorabile. Glielo dedico dopo venticinque anni esatti insieme a questa bella fiaba che tanti anni fa lesse in chiusura di una trasmissione televisiva:

Le quattro candele, bruciando, si consumavano lentamente.
Il luogo era talmente silenzioso, che si poteva ascoltare la loro conversazione.

La prima diceva:
“IO SONO LA PACE, ma gli uomini non mi vogliono:
penso proprio che non mi resti altro da fare che spegnermi!”
Così fu e, a poco a poco, la candela si lasciò spegnere completamente.

La seconda disse:
“IO SONO LA FEDE purtroppo non servo a nulla.
Gli uomini non ne vogliono sapere di me, non ha senso che io resti accesa”.
Appena ebbe terminato di parlare, una leggera brezza soffiò su di lei e la spense.

Triste triste, la terza candela a sua volta disse:
“IO SONO L’AMORE non ho la forza per continuare a rimanere accesa.
Gli uomini non mi considerano e non comprendono la mia importanza.
Troppe volte preferiscono odiare!”
E senza attendere oltre, la candela si lasciò spegnere.

…Un bimbo in quel momento entrò nella stanza e vide le tre candele spente.
“Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese, io ho paura del buio!”
E così dicendo scoppiò in lacrime.

Allora la quarta candela, impietositasi disse:
“Non temere, non piangere: finchè io sarò accesa, potremo sempre riaccendere le altre tre candele:
IO SONO LA SPERANZA”

Con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime, il bimbo prese la candela della speranza e riaccese tutte le altre.

CHE NON SI SPENGA MAI LA SPERANZA DENTRO IL NOSTRO CUORE…

…e che ciascuno di noi possa essere lo strumento, come quel bimbo, capace in ogni momento di riaccendere con la sua Speranza,

la FEDE, la PACE e l’AMORE.

Pioggia di ricordi nel 19 marzo: i papà per l’eternità

Negli anni dall’infanzia mi ricordavo della Festa del Papà perché a scuola avevo già imparato a memoria la poesia che gli avrei dato il 19 marzo. Oggi mi basta aprire la finestra dei social network per sentirmi bagnato da una pioggia di ricordi condivisi tra migliaia di foto e messaggi dedicati al proprio papà.

In realtà oggi ad aver catturato la mia attenzione sono stati i pensieri dedicati ai papà che non ci sono più, una valanga rispetto all’altra sponda di chi invece ha la fortuna di averlo ancora. Riflettevo su quanto l’estensione di questa ricorrenza al di là della vita facesse della paternità un cardine in qualsiasi angolo temporale perché, come scriveva Elis Râpeanu, “per tenere un bambino in braccio ti basta solo l’amore, per allevarlo ti serve molto di più, per essere suo padre, ti deve dare qualcosa anche Dio.”

In realtà non ho mai chiesto a mio padre in quale istante dedicasse un pensiero al suo il 19 marzo, negli anni successivi alla sua perdita, e né lui mai me ne parlava. Tuttavia, i ricordi si sbadigliano all’improvviso e si ricongiungono a noi al di là della festa.
C’è un 19 marzo che germoglia in noi tutte le volte che ancheggiamo nell’hula hoop della vita: prima di essere papà, siamo stati figli. Nessuno potrà scipparci il privilegio di essere stati figli finché avremo un papà da ricordare, il nostro.

I was once like you are now, and I know that it’s not easy,
To be calm when you’ve found something going on
But take your time, think a lot,
Why, think of everything you’ve got
For you will still be here tomorrow, but your dreams may not…

“Sono nata brutta e grassa. Venivano da me solo per copiare i compiti…”

Emancipazione femminile, vestito svuotato nel giorno dell’innossidabile ricorrenza, torna ad essere l’abito del quotidiano quando lei si alza in piedi e confessa con senerità: “Sono nata brutta e grassa. Venivano da me solo per copiare i compiti.”

L’ammutolimento non sta nel tenero pietismo che potrebbe scatenare una confessione come questa quanto nella consapevolezza che ci vuole coraggio a irrompere così pubblicamente.
La Wonder Woman, che ha reso la non-accettazione la sfida più grande della sua vita, si è guadagnata il superpotere di andare incontro a chi la respingeva e la faceva sentire la diversa della tribù.

Emancipazione femminile non è il vezzo di cui ci riempiamo la bocca ogni anno puntualmente, appena spunta l’anniversario che deve profumare di mimosa.
E’ puttosto la presa di coscienza che la diversità è lo specchio in cui si riflette il meraviglioso della nostra anima e non dobbiamo privarci di farne dono agli altri.

“Sono nata brutta e grassa. Venivano da me solo per copiare i compiti.” Grazie a lei sono tornato a sentire il profumo di mimosa senza per forza sottomettermi all’anniversario. Il mio olfatto aveva dimenticato la vera essenza.

Davide Astori, “Dice che era un bell’uomo, parlava un’altra lingua…”

“Dice che era un bell’uomo e veniva, veniva dal mare, parlava un’altra lingua però sapeva amare.” Le parole della famosa canzone di Dalla sembrano ritagliate per Davide Astori, il capitano della Fiorentina che ci ha lasciati per un malore in questo 4 marzo.
Davide però “non veniva dal mare”, era nato in una zolla della bergamasca, ma parlava un’altra lingua, quella degli uomini d’altri tempi che non sono vittime e carnefici dell’odioso voyeurismo social.

Davide non era il calciatore sulla giostra dello star system, era “il capitano della porta accanto”, il grande professionista in campo che diventava l’amico conosciuto al bar o il vicino che avresti citofonato se non trovavi il cavatappi per stappare una bottiglia per una ricorrenza speciale.
La perdita prematura di Astori ci sconvolge così come quella di tutti gli sportivi che se ne sono andati  in maniera fulminea, ripenso al pilota sportivo Marco Simoncelli.

Davide Astori ci ha dimostrato che si può essere un fuoriclasse guadagnandosi il rispetto degli avversari e oggi questo lutto, che unisce tutte le tifoserie d’Italia, sostiene la convinzione stropicciata che dietro un pallone possa nascondersi ancora unione e solidarietà in un’Italia sempre più divisa e sconnessa.

In campo, capitano amato e fedele della sua Fiorentina, Davide ha saputo rassicurarci con il controllo dell’intelligenza emotiva, con cui un bravo atleta deve misurarsi sempre.
I social network sono stati travolti da migliaia di messaggi a lui dedicati. Mi ha colpito il messaggio di una over 30, una sua coetanea, postato sul suo profilo Facebook:

Progettare… affannarsi per costruire… per affermarsi… per guadagnare… farsi cogliere da invidie, gelosia e farsi l’animo amaro a litigare e sforzarsi a portare rancori per giorni e giorni… e poi un giorno vai al letto e al mattino seguente non ti svegli più… a cosa serve tutto ciò? Anche io ho 31 anni e questa cosa mi scuote e non poco.