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Trenord, la sicurezza in treno è un diritto di chi lavora e chi viaggia

Rosario PipoloPercorrendo in treno più di 30.000 chilometri all’anno attraverso la regione Lombardia, per giunta in qualsiasi fascia oraria, mi calza a pennello l’appellativo con cui mi incoronò un capotreno qualche anno fa: “L’instancabile viaggiatore su rotaie”.

L’aggressione ad un capotreno e un macchinista, avvenuta la settimana scorsa su un treno locale nella stazione di Milano Villa Pizzone, merita solidarietà e supporto non solo dei pendolari, i quali giorno puntano il dito contro la mala gestione locale di Trenord e i costi eccessivi dei titoli di viaggio.

Richiede un piano di intervento immediato dell’azienda, che ha il sacrosanto compito di garantire sicurezza ai propri dipendenti, mettendoli in condizione di svolgere al meglio il proprio lavoro, anche durante i turni serali e notturni. Richiede la voce grossa della Regione Lombardia, perché le istituzioni siano convinte che ora ci vuole il pugno di ferro, accartocciando la strumentalizzazione politica che vorrebbe la tolleranza sulla lancetta a Sinistra e l’intolleranza sulla lancetta a Destra.

Ho visto uomini e donne, tra i trenta e i cinquant’anni, nelle vesti di capotreno gestire criticità davanti ai miei occhi, da soli, persino sulle linee ferroviarie che, appena fa buio, si trasformano in un set dell’orrore: provate a viaggiare dopo le 8 di sera su un convoglio locale che da Pavia si spinge verso Genova o tra Lodi e Piacenza dove, a ridosso delle stazioni di Casalpusterlengo o Codogno, sembra di essere finiti nel vecchio West in attesa del momento migliore per l’assalto alla diligenza.

Dei soldi che ci spillano dall’abbonamento mensile o dal biglietto di una corsa semplice quanto viene investito da Trenord e Regione Lombardia per la salvaguardia della sicurezza del viaggio sui treni locali?
L’efficienza nel trasporto locale non si misura solo in manutenzione delle vetture ma nel far sentire chi lavora o chi viaggia al sicuro a qualsiasi ora, anche quando a fine ottobre si spegneranno le luci del luna park di Expo 2015.

Carlo Di Napoli ha rischiato di perdere un braccio e il suo compagno di sventura di morire. Chi sarà il prossimo? Lo slogan di Trenord “Your Way To Expo” con 380 treni al giorno si sbiadisce se viaggiare sui binari ci fa correre chissà quali rischi. Qui non si tratta di sgominare semplicemente una gang di criminali, ma di attivare un piano di intervento per la sicurezza che ci faccia tornare ad essere “instancabili viaggiatori su rotaie”.

Giancarlo Berardi, Genova per noi

Rosario PipoloIn pochi sanno che sei prima di tutto uomo di teatro. Giancarlo Berardi, il legno del palcoscenico ci toglie di dosso quella svogliatezza che vorrebbe farci vivere con ossessione la vita come attaccamento agli oggetti, senza pensare che sono gli uomini e le loro storie il motore della vita.

Genova per noi, Giancarlo Berardi, perché le tue storie sono state scialuppe di salvataggio per la mia generazione, condannata al naufragio sull’isola del riflusso. Oltre la linea dell’orizzonte che separa il mare dal cielo di Genova non c’è solo il viaggio dei naviganti Faber & Pagani tra le onde di Creuza de ma. Ci sono le praterie che sconfinano nella frontiera del Western, ci sei tu nascosto sotto i panni di Ken Parker.

Genova per noi, Giancarlo Berardi, perché il compianto Sergio Bonelli ebbe ragione a dirmi che dentro “ogni storia a fumetti c’è la vera anima dello sceneggiatore”, appiccicandomi addosso la medaglia perché per lui un bravo giornalista giovane si riconosceva dalle domande intelligenti.

Genova per noi, Giancarlo Berardi, perché c’era un’altra prospettiva attraverso cui guardare il gioco della vita, scendendo dalla diligenza di Ombre Rosse di John Ford. Era sul viale del tramonto che fece di Soldato blu e del cinema western crepuscolare l’ultima scorciatoia per vivere con realismo l’amara finzione del giocare a soldatini e indiani.

Genova per noi, Giancarlo Berardi, a te che sei stato lo sceneggiatore di fumetti che sparò a Liberty Valance, liberandoci dalle asfissianti catene che volevano il western a fumetti recintato nel mondo di Tex Willer. Oggi sei tra i pochi in Italia a godere il privilegio di essere penna del presente che guarda al futuro senza il piagnisteo nostalgico dei tempi andati. Si scrive anche per difendere la coscienza civile.

Genova per noi, Giancarlo Berardi, mentre attraverso Via Del Campo come se fossi Ken Parker che incrocia Julia e ne riconosce la sua Audrey. L’amore ci rende liberi ad ogni svolta della vita. Questa non è lucida follia.

Ho percorso chilometri di sogni per imparare ad amare ed essere migliore. La strada me l’hai spianata tu.

Papà, per la tua festa ti porto a Expo Milano 2015

Rosario PipoloPapà, lo so che non stai nella pelle. Il 31 marzo esce il tuo libro. Trattandosi di una lunga lettera rivolta al tuo papà, se permetti te ne voglio scrivere una in occasione della tua festa. Tra l’altro il 19 marzo è anche il tuo onomastico (il nonno fece bene a piazzarti Giuseppe come secondo nome perché così ti arriva un bis di regali.)

Papà, ho deciso di regalarti un biglietto per Expo Milano 2015. Dopo aver trascorso in clausura gli ultimi sei mesi a scrivere, cosa ne dici di fare il giro del mondo insieme a me restando a Milano?
A scuola mi hanno detto che arriveranno 20 milioni di persone da tutto il mondo per visitare l’Esposizione Universale. Ci mescoleremo con loro, usando come pastelli i colori della pelle, e disegneremo un mappamondo alimentare che va da Pechino a L’Avana, da Dakar a Il Cairo, da Londra a Tokio.

Sì, perché si parlerà di cibo e di tutto ciò che mangiamo. Quale migliore occasione per imparare a cucinare tanti piatti nuovi?
Il risotto con le pere è il tuo “forte” e lo sa pure il mio pancino, tanto che non mi dispiacerebbe assaggiare qualcos’altro cucinato da te. Potrebbe essere la volta buona che il nostro vicino di pianerottolo  – il tizio antipatico convinto che i baffetti non ti stiano bene – impari la lezione di non sprecare cibo e buttarlo via.

Quando il nonno mi accompagnava ad assistere ai tuoi spettacoli, davanti al teatro c’era una donna affamata che rovistava nella pattumiera. Io mi chiedevo: “Chissà che non sia fortunata e trovi gli avanzi del pranzo del nostro vicino”. 

Papà, Expo Milano 2015 durerà dal 1 maggio al 31 ottobre perciò, quando torni dalla prossima Festa della Rete di Rimini, sei in tempo ancora per portami l’impasto della piadina romagnola così la farcisco io con fantasia. Te la meriti tutta.

Sono fiero di avere un papà come te. Per tanti sei un personaggio, per gli amici sei semplicemente Carlo, per me sei colui che mi ha insegnato a non aver paura di essere me stesso.

Viva l’Italia, quella dei MasterChef e delle “patonze”

Rosario PipoloAltro che “Viva l’Italia presa a tradimento, l’Italia assassinata dai giornali e dal cemento” del cantastorie Francesco De Gregori. Piuttosto viva l’Italia dei Masterchef, quella degli indignados del tiro alla fune tra food e tv, tra Striscia la Notizia che svela il nome del vincitore e la concorrenza incazzata nera. Cosa si farebbe oggi per alzare il termometro dello share?

Viva l’Italia dei Masterchef perché una trentina d’anni fa volevamo i nostri figli tutti bacchettoni al liceo e snobbavamo l’istituto alberghiero. Allora andava di moda scaccolare con la puzza sotto il naso. Oggi chi di noi non sognerebbe un figlio “divo chef” in tv.
E allora tutti dietro i fornelli perché vuoi mettere “farsi il culo come papà sulla catena di montaggio” anzichè lottare per guadagnarsi un bel mestolo d’oro? Se arrivasse il podio, i nostri pargoli campioni metterebbero la firma culinaria sotto una patatina industriale.

Altro che “Viva l’Italia, l’Italia che lavora, l’Italia che si dispera e l’Italia che s’innamora”. Viva l’Italia delle intercettazioni e delle “patonze”, perchè se non ci fossero bisognerebbe inventarle. Fanno vendere qualche copia di giornale in più, rendono euforico il popolo dei social network, annacquano con il gossip quelle che di certo non sono riflessioni politiche e, per giunta, mortificano il giorno della memoria profumato dalla mimosa dell’8 marzo.
Le nostre nonne sognavano un figlio partigiano come presidente; le nostre mamme un figlio laureato in economia; noi abbiamo capito che è meglio un figlio puttaniere, perché se gira la patonza, gira pure l’economia.

Viva l’Italia dei MasterChef e delle patonze, quella che cammina per strada e non si accorge che un giovane su quattro si è ridotto a fare il neet; che si tappa le orecchie quando la sopravvivenza per la globalizzazione fomenta disagio sociale; che preferisce un comodo lento nostalgico su Felicità di Albano & Romina piuttosto che un tango sovversivo, taccheggiando sul letale luogo comune del “si stava meglio quando si stava peggio”.

“Viva l’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare, l’Italia metà giardino e metà galera, viva l’Italia, l’Italia tutta intera”.


La Russia dei complotti di potere, da Anna Politkovskaja a Boris Nemtsov

Rosario PipoloIeri anche Milano, laggiù nel piccolo angolo dei giardini Politkovskaja, era unita spiritualmente alla Russia indignata per l’uccisione di Boris Nemtsov, vicepremier del governo di Eltsin e instancabile oppositore del governo di Vladimir Putin.
Le fiammelle, i fiori, i canti e i messaggi lasciati dall’Associazione AnnaViva ci hanno aiutati a non essere distratti, a non permettere al vortice della nostra banale routine di schiacciare la riflessione.

Sì, perchè dopo il misterioso assassinio della giornalista Anna Stepanovna Politkovskaja, penna scomoda al Cremlino, il complotto del potere si rianima in quello che in tanti proclamano un omicidio politico.

Nei giorni complicati della crisi ucraina, che ha riportato i venti della Guerra Fredda al centro dell’Europa, l’assassinio di Nemtsov ha convinto migliaia e migliaia di moscoviti ad uscire dal torpore, marciando a viso aperto e sbandierando voglia di libertà e verità, grande illusione al di là degli Urali.

Cosa ci fanno a pochi passi, in un cimitero alle porte di Mosca, Anna e Boris? A quest’ora dovrebbero essere ancora tra noi: la Politkovskaja armata di inchieste giornalistiche affilate alla ricerca della verità; Nemtsov portatore di entusiasmo civile e infaticabile spirito riformatore, cardini della sua politica il fronte di una vita spesa a favore della comunità.

Je suis Nemtsov è stato più di uno slogan per la marcia nel cuore di Mosca, perché quei passi lenti avevano lo stesso rumore delle rivolte del secolo scorso contro il regime zarista. Dallo scettro del sovrano al potere di un ex Kgb ne è passata di acqua sotto i ponti della storia sovietica.

Tuttavia, è arrivato il momento che i russi legalizzino la necessità di pretendere la verità, perché nessuno sia più complice di un destino infame. Gli errori e fallimenti politici non hanno più bisogno di claque. Oggi, dopo la martire Politkovskaja, Boris Nemtsov è un’altra scintilla immensa nell’oscurità che nessun complotto di potere spegnerà.  

Diario di viaggio: Giovan Giuseppe Di Costanzo e le eccellenze all’ombra della Sanità Pubblica a Napoli

Rosario PipoloCi sono più generazioni che vivono sotto la spada di Damocle. Si tratta di un milione e mezzo di italiani infetti da Epatite C, la patologia mostruosa che agisce sul fegato e lo riduce come un rottame.
Il fegato cirrotico è la condanna di 300 mila diagnosticati (fonte L’Espresso on line), la maggior parte dei quali fu infettata tra gli anni ’60 e gli anni ’80, quando bastava una piccola negligenza per entrare nel tunnel, dall’ago di una siringa alla lametta riciclata dal barbiere; da una trasfusione al bisturi malandato.

Mentre da una parte c’è chi grida alla salvezza con i costosissimi farmarci miracolosi messi sul mercato, dall’altra ci chiediamo: cosa ne sarà degli ammalati in stadio avanzato, ai quali nessuna azienda farmaceutica potrà dare supporto?
Escluse le possibilità di intervenire con il trapianto o con il dolorosissimo interferone, non resta che affidarsi al medico sperimentatore della Sanità Pubblica, colui che il più delle volte agisce all’ombra e del quale dovremmo tornare a scrivere.

Non è una beffa scoprire che proprio all’ospedale Antonio Cardarelli di Napoli, finito di recente nell’occhio del ciclone per i malati assiepati in corsia e il morto in barella, sopravvivano delle eccellenze. Giovan Giuseppe Di Costanzo, direttore dell’unità di fisiopatologia epatica dell’omonima struttura ospedaliera partenopea, rientra in questa categoria.
La mia generazione aveva ereditato il laser dall’immaginario collettivo cinematografico di Star Wars: per noi era l’arma letale con cui annientare il malefico Darth Vader. Di Costanzo trasferisce questa visione fantastica in campo medico e eredita dal pioniere Claudio Maurizio Pacella la tecnica sperimentale della termo-ablazione laser.

Di Costanzo, concreto e sobrio, è lontano dalle luci della ribalta e dal divismo che quale volta contagia pure “i camici bianchi”. Basta fare toc toc alla sua porta e trovare tanta disponibilità per un confronto. E’ davvero uno dei fiori all’occhiello della nostra Sanità Pubblica, quella che ha il dovere sacrosanto di calpestare il baronato delle corsie preferenziali del privato;  quella che non deve guardare al portafogli, perché un ammalato non è né ricco né povero ma è un ammalato punto e basta.

Diamo il merito alla nostra Sanità Pubblica che, nonostante le deficienze, riesce ancora a mettere in condizioni migliaia e migliaia di pazienti di supportare i costi ed affrontare cure senza indebitarsi, ipotecare la casa o i piccoli sacrifici di una vita.
Giovan Giuseppe Di Costanzo sa di non essere un Jedi che deve affrontare il male diabolico nella saga di Guerre Stellari, piuttosto un uomo che, armato di laser, battaglia per aiutare altri uomini a sopravvivere, entrando con rigore in una sala operatoria del Cardarelli.

Dobbiamo tornare a fare viaggi nelle corsie degli ospedali all’ombra del Vesuvio ed imparare a riconoscere senza soggezione medici alla Di Costanzo, capaci di trasformare Napoli da Cenerentola della Sanità in principessa dal mantello bianco che fa della vita e delle cure un diritto di tutti.

Greta e Vanessa, oggi ostaggi dell’Italia cinica divisa a metà

Rosario PipoloChe i social network siano la piscina in cui galleggiano le frustrazioni di più della metà degli italiani non è il tender del 2015. E’ qualcosa che ci trasciniamo dietro da diversi anni ed ora, dopo il polverone sulla liberazione di Greta e Vanessa, ne abbiamo la prova.

Per una ristretta minoranza le due giovani lombarde sono cooperanti partite per la Siria insanguinata dalla guerra civile.
Per la maggior parte Greta e Vanessa sono “le due puttanelle padane” che gliel’hanno fatta vedere pure “ai guerriglieri”; che hanno strizzato l’occhio al Jihadismo terroristico; che potevano farlo a casa loro questo “maledetto volontariato”, perché potrebbe esser costato un riscatto di 12 milioni di euro.

E chi tira le pietre a Greta e Vanessa è per lo più il popolo dei social network, che si arroga il diritto di commentare qualsiasi notizia come fosse il più autorevole cronista.
Chi è senza peccato, scagli la prima pietra, anche se vittima di fancazzismo e odioso qualunquismo. Sarebbe da dire che, con tutta la disoccupazione straripante in Italia, ritrovarci più “volontari” risulterebbe più dignitoso anziché proteggere una ciurma di parassiti, che tira le cuoia all’assistenzialismo statale o pratica assenteismo dal posto di lavoro, senza sapere neanche dove sia localizzata Damasco.

E chi tira le pietre a Greta e Vanessa è anche il politico che strumentalizza la “misteriosa faccenda” per la prossima campagna elettorale. E qualche volta – quasi fosse una beffa alla cialtroneria del Belpaese – capita pure che il J’accuse parta dalla stessa classe politica, che tempi addietro, fu trovata con le mani nella marmellata ad inserire tra i rimborsi di lavoro vacanze esotiche, carta igienica e fumetti.

Dopo aver stretto la cinghia per pagare Tarsi e Tasi, vuoi vedere che ogni abitante della Lombardia non sia così generoso da aggiungere 1,20 euro in un anno, il costo di un cappuccino, e contribuire così a saldare l’eventuale riscatto pagato per liberare Greta Ramelli e Vanessa Marzullo?

Prendi l’arte e mettila da parte? No, se c’è Miriam Prato

Rosario PipoloPapà mi ripeteva continuamente: “Prendi l’arte e mettila da parte”. Era il tipico consiglio che si tramandava da genitore in figlio, soprattutto dove vigeva il luogo comune che l’arte non ha mai dato da campare a nessuno. Mentre la maggior parte delle gallerie d’arte piccole ha scelto di trasformarsi in supermercato, pur di sopravvivere ai tempi della feroce crisi, c’è ancora chi si dà all’ascolto di voci artistiche interessanti.

Avevo avuto modo di conoscere ed apprezzare l’arte di Miriam Prato nella galleria piacentina Jelmoni e poi me la sono ritrovata a diverse mostre tra Londra, Milano e Pavia. In un momento in cui i social network deprezzano il valore del nostro tempo libero con un surplus di futilità, mi ha incuriosito dedicarne un po’ del mio a questa estrosa signora di Stradella, sul confine tra Lombardia ed Emilia-Romagna.

Miriam, vissuta in quella zolla di frontiera tra il pavese e il piacentino, ha un passato da restauratrice di libri antichi. Chi ha fatto di questo mesterie un’arte non può che avere una grande dote, rarissima di questi tempi: l’occhio vigile sul dettaglio della memoria.
In questa traiettoria la Prato sequestra un dettaglio di vecchio libro, finito per sua sfortuna in una soffitta impolverata, e lo riporta alla luce nel perimetro di una bella opera d’arte.

Osservare i suoi lavori è come annusare un libro antico che possiede, nelle vecchie incisioni, i germogli di un campo aratro tra passato e futuro. Se vi mettete a caccia di una vecchia stampa di Durer del XVI secolo – mi riferisco al famigerato Rinoceronte – vi accorgerete che Miriam Prato ha la capacità di riproportelo senza farci perdere l’olfatto autentico.

E’ irresistibile quell’impronta di colori equilibrati, capace di condensare le radici di una biblioteca sulle pareti, in una cornice in cui l’olfatto della visione è direttamente proporzionale all’interpretazione personale e originale della memoria.

Prendere l’arte e metterla da parte? Non ci penso proprio.

25 anni fa giù il Muro di Berlino. Quanti ne abbiamo ricostruiti da allora?

Rosario PipoloE’ risaputo che io non ami gli obblighi delle ricorrenze e degli anniversari ma mi piace commentarli. Ricordo le immagini in tv la sera del 9 novembre del 1989 che mostravano la caduta del Muro di Berlino. Mi colpirono gli abbracci e le lacrime di uomini, donne e bambini.
Non avevo l’età giusta per comprendere le sfaccettature dell’avvenimento. Non ne furono all’altezza i miei insegnanti di allora, la cui preoccupazione era quella di rincorrere il diktat dei programmi ministeriali.

Per tornare indietro di 25 anni non ripescherò dal mio archivio la prima pagina del quotidiano il Mattino con la notizia della fine della Cortina di Ferro, prezioso dono di nonno Pasquale che mi fece piccolo archvista della memoria storica. Piuttosto rovisto nel mio viaggio a Berlino del 2008, in cui per la prima volta mi trovai faccia a faccia con un pezzo del Muro. Fino ad allora, l’unica Cortina toccata con mano era quella disegnata sulla copertina dell’album The Wall dei Pink Floyd.

Le lunghe scarpinate a piedi attraverso la Berlino Est e quella Ovest mi fecero raccattare i pezzi mancanti. Alcuni tasselli importanti me li portai via dopo la visita al museo del Checkpoint Charlie, ovvero il posto di blocco sul confine del Muro di Berlino. Quel viaggio mi incoraggiò a riflettere e a staccarmi dall’odioso e qualunquista pregiudizio che vorrebbe il berlinese come un austero tedesco. I Berlinesi sanno bene cosa sia vivere una vita divisa.

Dovremmo saperlo tutti noi che, negli ultimi 25 anni, abbiamo continuato ad alzare altre Cortine di Ferro, dentro e fuori l’Europa, pensando che ci bastava un “Muro simbolo” abbattuto per avere la coscienza pulita.

Diamo un valore aggiunto a questo anniversario e interroghiamoci: quanti muri alziamo ogni giorno nella nostra vita? I muri che impediscono ai legami di ricercare gli orizzonti perduti; i muri sul posto di lavoro che trasformano la produttività in guerriglie meschine; i muri tra genitori e figli che offuscano il confronto generazionale; i muri che negano ad una storia di vita di essere protagonista dell’esistenza; i muri che fanno delle divergenze religiose, politiche e sociali l’opportunità di muovere piccoli passi sulla ricchezza della diversità.

Il “Muro simbolo” è a terra da 25 anni. Quando cominceremo a darci da fare per abbattere gli altri?

L’iPhone 6 può attendere

Rosario PipoloCi sono code e code. Quella “surreale e stratosferica” delle ultime ore davanti agli Apple Store delle grandi metropoli per l’arrivo del nuovo iPhone 6.

Quella che vedo tutte le sere tornando da lavoro davanti a una Caritas milanese, dove una ciurma di uomini e donne aspetta di ricevere un piatto caldo.  Le prima fa il giro del mondo alla velocità della luce. Quest’ultima finisce nel dimenticatoio, perché fa parte della routine: gli operai in fila per protestare contro la mobilità o i papà in coda dall’alba all’entrata dell’asilo nido per accaparrarsi un posticino per il pargolo.

Quanto costa l’iPhone 6? In Italia il prezzo oscillerà tra i 700 e i 1000 euro. Occorre rinunciare ad uno stipendio medio per andarsene in giro con il gioiellino della Apple. I due ragazzi nella foto si sono accampati su una panchina della Fifth Avenue newyorkese. Non sono lì per protestare ma spudoratemente in fila per avvinghiare  il melafonino più amato o odiato di tutti i tempi.

Questa immagine offende un’altra America e non abbiamo bisogno di un vecchio disco di Bob Dylan per riascoltare quella voce. Basterebbe farsi raccontare dai genitori e dai nonni di questi ragazzi come sciuparono i loro quattrini: per fare un viaggio e protestare fuori la Casa Bianca contro il Vietnam sanguinoso di Nixon o il rampantismo di Reagan.
Erano altri tempi, come del resto in Italia. I nostri genitori e nonni hanno fatto lunghe code per salvarsi dagli scempi del Secondo Dopoguerra o per avere il diritto di studiare in un’università pubblica.

Quanto costa “mettersi in coda” per l’iPhone 6? Le favole del marketing urlano che qualche folle abbia pagato fior di quattrini per avanzare nella lunghissima fila. Ci sono code e code. Preferisco quella che vedo tutte le sere tornando da lavoro davanti a una Caritas milanese. Fotografa l’umanità di cui avremmo bisogno tutti.