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Il 1° maggio nella tuta da lavoro di papà, amico dell’Uomo Ragno

Rosario PipoloDa bambino accostavo il 1° maggio, festa dei lavoratori, ad un indumento: la tuta blu che tutte le mattine mio padre si infilava per andare a lavoro. Provavo per quella tuta una sorta di amore e odio.
Da una parte mi piaceva, perché faceva assomigliare papà ad uno dei Fantastici 4; dall’altra la detestavo, perché me lo portava via e non mi restava che la sera per trascorrere del tempo con lui.

Mi raccontava di cosa faceva al lavoro con dei buffi scarabocchi, improvvisati al momento con una biro rossa e nera. All’alba dell’infanzia identificavo il lavoratore con papà che, nella mia visione, era un supereroe: si arrampicava sui tralicci, più alti del condominio dove abitavamo, e portava l’illuminazione ad intere città. Per non farla lunga, mi convinsi che papà era “amico dell’Uomo Ragno”, anche se lui stesso non ne faceva un vanto.

Ricordo una domenica notte di dicembre. Ci fu un nubrifagio che colpì parte del mio territorio, restammo senza luce e corrente elettrica per quasi due giorni.  Papà uscì di notte per l’intervento di emergenza e non si ritirò nei due giorni successivi. Ero spaventato. Nonostante fossi rassicurato dal fatto che papà fosse uscito con il suo casco giallo, dall’altra chiedevo al pupazzetto dell’Uomo Ragno di proteggerlo perché “da amico” doveva stargli vicino.

Fu a quel tempo che iniziai a percepire la minaccia degli incidenti sul lavoro.  Ho conosciuto diversi coetanei della mia generazione che non hanno visto tornare più il papà, perchè caduti da un’impalcatura e finiti nella tragica lista delle morti bianche.

Nel 2013, in occasione di una presentazione del mio romanzo nella zona in cui aveva lavorato papà, conclusi una lettura tenendo in mano la sua tuta blu. Fu un modo per ricordare  i tanti lavoratori che non sono tornati più a casa ad abbracciare i figli, con cui oggi voglio condividere il significato e l’essenza di questo 1° maggio.

A quarant’anni sono convinto ancora che mio padre sia “amico dell’Uomo Ragno”, con la differenza che dietro la la tuta del supereroe della Marvel si nascondano gli angeli “custodi” che Wim Wenders fece volare sopra Berlino in un film zeppo di suggestioni.

1 maggio: oggi un Polacco è beato. Si chiama Karol Wojtyla

“…Prima ancora di indossare la tonaca, Karol Wojtyla è stato profugo di memoria clandestina per mano del destino che lo ha voluto artefice della storia, in cui per una volta gli ignoti e i repressi, sfigurati dagli orrori e dalla crudeltà dei regimi totalitari, sono tornati ad avere un volto, il suo. Beato sia, assieme a lui, chiunque abbia avuto, nella sofferenza delle oppressioni, quella faccia in prestito…” (LEGGI IL POST)

Karol Wojtyla, “beato” quel polacco…

Questa foto in bianco e nero del secolo scorso ritrae un giovane polacco, aggiungerei un giovane polacco sognatore. Il sorriso sornione di Karol è tipico della gente della terra da cui veniva: la Polonia. E l’ho constatato quando ci sono stato. Una mattina gironzolavo per le stradine di Cracovia e un venditore ambulante mi raccontò: “Correva proprio come lei in questo momento, ma impiegava ore e ore per attraversare la città. Chiunque lo fermasse, lui era lì pronto ad ascoltarlo”. Era forse l’unico uomo con la tonaca capace di far sentire amico chiunque gli stesse accanto, senza distinzione di razza, religione, cultura? Torno a ripetere: i polacchi sono esattamente come lui, gente semplice e lo hanno trattato sempre allo stesso modo, anche quando Roma lo ha chiamato.
Sulla tomba dei genitori di Karol, seppelliti nel cimitero di Cracovia, non ho trovato alcun segno che rimandasse in qualche modo al passaggio di quel “figlio” a personaggio chiave della storia della seconda metà del ‘900. Ovunque mi girassi in Polonia c’era soltanto sobrietà perché i polacchi sono tutti d’un pezzo, come le donne venute a lavorare da noi trent’anni fa, in coda nei nostri uffici postali per spedire soldi ai figli lasciati laggiù.
Durante un mio lungo viaggio negli USA nell’aprile del 2005, protestanti, ebrei, musulmani, ortodossi e di qualsiasi altra religione non esitavano a fermarmi, appena capivano che fossi italiano, e a ripetermi la stessa cosa: “Non mi sembra vero che se ne sia andato. Nel suo volto si ritrovava chiunque. Beato sia”.
Il 1 maggio, per chi è credente, la Chiesa proclamerà Beato il pontefice Giovanni Paolo II. E’ il primo passo per la santificazione. Tuttavia, il giovane polacco sognatore è stato già beatificato da un pezzo dalle comunità più disparate. Prima ancora di indossare la tonaca, Karol Wojtyla è stato profugo di memoria clandestina per mano del destino che lo ha voluto artefice della storia, in cui per una volta gli ignoti e i repressi, sfigurati dagli orrori e dalla crudeltà dei regimi totalitari, sono tornati ad avere un volto, il suo. Beato sia, assieme a lui, chiunque abbia avuto, nella sofferenza delle oppressioni, quella “faccia in prestito”.

1 maggio, quale Festa del Lavoro?

Per chi se ne ricorda il 1 maggio è la Festa del Lavoro. Nonostante le urla dei sindacati, la tarantella finisce con i soliti bla bla bla. Del resto pure chi un lavoro ce l’ha, non ha tutta questa voglia di stappare lo spumante. L’aria che tira è deprimente tra disoccupazione, incertezze, precarietà e le morti bianche dimenticate. Come fai a confortare chi ti viene incontro, di qualsiasi età, e ti racconta la sua triste storia? Ci siamo passati un po’ tutti. C’è chi ha perso il posto di lavoro; c’è chi passa il giorno ad inviare curricula e si vede sbattuta la porta in faccia; c’è chi non ce la fa ad arrivare a fine mese; c’è chi a 50 anni si sente dire che è troppo vecchio per reinventarsi (Fabio Concato docet nel suo bel pezzo Oltre il giardino) o c’è chi vive lo stress per la scadenza  di quel maledetto contratto a tempo determinato. Il lavoratore di casa nostra  era mio padre e il 1 maggio a modo nostro gli facevamo festa. Nonostante la sua attività ce lo sottraesse continuamente, da ragazzo credevo che il lavoro fosse un diritto di tutti. Banalmente mi sono reso conto che non è così. L’unica consolazione di questo 1 maggio è il concertone di piazza San Giovanni a Roma, che quest’anno ci trasmette “il malumore dell’incertezza”, nel senso che a pochi giorni non conosciamo il programma definitivo. Nel 1998 ero di passaggio a piazza San Giovanni, ma quello fu un concerto piovoso. Nel backstage incrociai  Julian Lennon, il figlio di John, che ad un certo punto mi disse: “Quanta gente sotto al palco. Tutti fanno festa per il lavoro”. L’erede dell’ex Beatles non aveva capito che quell’entusiasmo nascondeva altro, rabbia e amarezza, che oggi sono le stesse intraviste nel mio ultimo anno da spensierato universitario, in quella piazza. Il volume alto della musica stordisce e la speranza non è mai abbastanza.