Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Parolacce in dialetto e l’incomprensibile insulto

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=3tT-6U7BD-Q&w=560&h=315]

Quando alcuni anni fa mi capitò in redazione il libro “Parolacce” di Vito Tartamella, avvitai l’idea che tutto sommato, senza trascendere nella volgarità, ogni sintomo di turpiloquio si porta dietro pezzetti di storia, aneddoti divertenti e i colori del belpaese.
Il piccolo vangelo di Tartamella, in alcuni punti quasi scientifico, mi raccontò che “le parolacce” le dicevano pure Big come Mozart, Leonardo Da Vinci, Dante e Shaskespeare.

Eppure, viaggiando nel regionalismo del Belpaese, capisco pure che una parolaccia, beeppata o no, sfiora l’incomprensibile quando di mezzo c’è un dialetto. Una ventina d’anni fa, lavoravo come capo animatore ad Otranto. Eravamo in una meravigliosa spiaggia della Puglia e un mocciosetto gettò palle di sabbia ad un dei ragazzini del nostro mini club. Il poveretto rispose all’attacco e al disturbatore toccò la cattiva sorte: la palla di sabbia gli finì in bocca.

Il papà del maleducato ce ne disse di tutti i colori in uno stretto dialetto pugliese, buffa cantilena del tutto incomprensibile. E quando mi è capitato di vedere questo divertente video from Puglia with Love, mi sono detto. Le parolacce in dialetto hanno un vantaggio. Quando non sono blasfeme o volgari, al posto di un insulto gratuito ci restituiscono il colore della nostra terra!

 Parolacce di Vito Tartamella

Il Festival di Sanremo canta in dialetto?

Il teatro Ariston di Sanremo

Rosario PipoloI venti leghisti tirano così forte da incidere anche su un evento nazional-popolare come il Festival di Sanremo. Svecchiare un regolamento dopo quasi 60 anni si può, ma recriminarne la natura ed inserire le canzoni in dialetto mi sembra troppo. Da buon napoletano ritengo che cultura musicale dialettale sia un patrimonio immenso, a cui neanche io da ascoltatore vorrei rinunciare. E non ne faccio questioni geografiche o antropologiche perchè ascolto con la stessa partecipazione emotiva il comasco Davide Van De Sfroos così come il parneopeo Peppe Barra. Il palco del teatro Ariston è l’agorà del Festival della Canzone italiana, una manifestazione che non dovrebbe essere né una vetrina del nazionalismo tricolore né l’oasi del federalismo canzonettaro. E’ vero che il Festival di Sanremo perde il suo seguito anno dopo anno, ma non è questa la trovata giusta per far acquistare sprint all’intrigante macchina discografica che ne fa da supporto. Le canzoni in dialetto possono essere valorizzate in altri spazi, possibilmente costruiti su misura. Per quanto riguarda l’esterofilia sanremese, dico la mia: no ai superospiti strapagati, ma sì ai duetti con gli stranieri per esportare qualche canzone all’estero. Mica tutti si chiamano Ramazzotti, Bocelli o Pausini? E poi se in passato non fosse stato così, nel 1990 non ci saremmo emozionati con  Ray Charles che cantava Good Love Gone Bad, versione in inglese di un pezzo di Toto Cutugno.