Da “Amare significa non dover dire mai mi dispiace” a “Ya Pihi Irakema”
La generazione dei miei genitori, sposata all’alba degli anni ’70, fu benedetta da questa citazione di Erich Segal: “Amare significa non dover dire mai mi dispiace”. In realtà non era una frasetta accartocciata nei Baci Perugina, ma una battuta cruciale del cult movie Love Story che spopolò al cinema con Ryan ‘O Neal e Ali MacGraw, diventando un bestseller negli scaffali delle librerie.
DIVORZI – Quella generazione fu travolta da un incremento pauroso dei divorzi – secondo l’Istat in Italia si passò dai 12 mila del 1980 ai 28 mila del 1990 – ritrovandosi disillusa con una “frase del cacchio” tra le mani. Forse più che rincorrersi nella New York che faceva da sfondo al popolare melodrammone, le coppie di allora si sarebbero dovute accalcare al confine tra Venezuela e Brasile, dove vive il gruppo indigeno degli Yanomamo.
CONTAMINAZIONI – Per le coppie di oggi sarebbe più facile sguazzare nel Rio delle Amazzoni e sentire tra gli alberi un vocio che declama “Ya Pihi Irakema” e che letteralmente significa “Sono stato contaminato da te”. Per farla breve, questo è il modo degli indigeni per dire il nostro occidentale “Ti amo”, sgualcito e maltrattato dalla nostra superbia progressista.
NOI – In realtà, se ci pensiamo bene, non ci lasciamo mai sedurre dalla “contaminazione dell’altro”, ma finiamo con l’accontentarci della “mescolanza”. Non è la stessa cosa. Quando ci mescoliamo finiamo sempre per vivere l’altro nella prigionia di una corazza blindata. La contaminazione ci fa ritrovare l’infinita bellezza del contagio, della crescita e dell’evoluzione dell’io nell’altro, che poi fa maturare il “noi”.
SAGGEZZA INDIGENA – “Amare significa non dover dire mai mi dispiace” è stato l’epitaffio di quella generazione che dal “Ti amo” da fidanzati è passata al “Figlio mio, lascia perdere tua mamma che non capisce un cazzo!” da sposati.
“Ya Pihi Irakema”, perla della saggezza indigena, è la speranza ed è un lusso che dovremmo concederci nell’arte di amare.
Una parte di te è entrata in me, dove vive e cresce. (David Servan-Schreiber)



Si avvicina la tornada elettorale delle Europee e devo dire che quest’anno non vedo il solito assalto dei manifesti politici. Qualche oscenità si intravede in ambito locale, ma la crisi si sente anche in tal senso: molti politici hanno ridotto le affissioni e, prendendo il buon esempio da Obama, si sono riversati sui social network (Facebook in testa!). Il povero Pierferdinando Casini ha lanciato una campagna di comunicazione lineare per l’UDC, urtando gli equilibri familiari. Il petteghuless politichese parla di “casini” in famiglia! Infatti, i bambini coinvolti nelle immagini dei nuovi manifesti sono nati dall’unione con Azzurra Caltagirone. Insomma, già ai cattolici non va giù che “un divorziato” cammini a spalle alte e adesso si mette pure l’ex moglie di Casini, offesa per aver lasciato fuori “i figli da primo letto”. Senza mettere il dito tra “ex” moglie e marito, io guarderei il bicchiere mezzo pieno: con questa scelta Pierferdinando Casini ha risollevato la massima eduardiana “E figli so ‘ffigli”, ribadendo timidamente che anche i figli postumi devono tornare ad avere il ruolo che gli spetta nei giorni delle “famiglie allargate”. E chi si è visto escluso dai manifesti elettorali, può sempre consolarsi con l’altra massima da sceneggiata “I figli so piezz’e core”.
Il reality trasloca dalla casa del Grande Fratello nella tenuta di Arcore. Veronica Lario annuncia il divorzio da Silvio Berlusconi e tutti i media stanno al gioco, persino i siti web stranieri. E questa volta non si tratta di un anonimo vicino della porta accanta né di un capriccioso gossip per vendere qualche copia in più dei giornali: al centro della tormenta c’è il Premier e la sua first Lady in una nuova tornada di campagna elettorale. I panni sporchi si lavano in famiglia e i più saggi preferirebbero che le questioni private restassero tali. Senza entrare nel mertito del romanzetto rosa che va avanti da mesi – dalla Carfagna al caso Noemi – mi concedo una considerazione. Leggo in un articolo del Corriere.it l’affermazione “Non esageri, presidente, Repubblica e Stampa hanno fatto semplicemente il loro lavoro”. Io farei un passo indietro a cavallo delle notizie di inciucio da salotto di due prestigiosi quotidiani italiani. A quel 31 gennaio del 2007, data in cui Repubblica decise di pubblicare un lettera di Veronica Lario dal titolo “Mio marito mi deve pubbliche scuse”. E forse qui ad essere indignati dovremmo essere “noi lettori” nei confronti di un direttore di testata che ha accartocciato il giornalismo in una pattumiera da reality show. Sia o no una trappola mediatica, la love story di Silvio e Veronica ha il sacrosanto diritto di vedere in privato la fine dei suoi giorni!