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L’altro 8 marzo: Per la Festa della Donna la mia mimosa alle vittime della Fabbrica Triangle di New York

Rosario PipoloLizzie Adler, 24 anni, contava i minuti perché finisse il turno. Forse fuori l’aspettavano le carezze del suo fidanzato. Ida Brodsky, 15 anni, non pensava di finire a fare l’operaia, perché alla sua età sognava di avere penna e calamaio e scrivere un tema sul libro che avrebbe potuto leggere la sera prima. Laura Brunetti, 17 anni, singhiozzava ogni volta che le passava davanti l’immagine d’oltreoceano della nonna che la cullava dolcemente, nell’Italia che i genitori avevano lasciato. Dora Welfowitz, 21 anni, aveva ricevuto una proposta di matrimonio e l’aveva presa seriamente in considerazione. Sarebbe uscita da quella maledetta fabbrica una volta per tutte, per fare la moglie e chissà la mamma a tempo pieno.

Julie Oberstein, 19 anni, e le due sorelle Lena e Mary Goldstein, 22 e 18 anni, si ritrovavano ogni volta davanti la solita vetrina newyorkese, sognando di avere abbastanza spiccioli per comprare quel cappello di chiffon. A Provindenza Panno, 43 anni, avevano regalato una piantina e le avevano assicurato: “Tutte le volte che ti mancherà, innaffiala e vedrai che prima o poi tornerà”. Suo marito si era imbarcato come marinaio su una nave e non era tornato più. Teresa Schmidt, 32 anni, aspettava impaziente la chiamata di un albergo per fare l’addetta alle pulizie. Così avrebbe potuto incantarsi ad osservare signori e dame che sbarcavano dalla sua Europa.

I nomi di queste donne sono veri, le storie appiccicate addosso sono frutto della mia immaginazione, che ha tentato invano di addolcire il ricordo crudele della loro scomparsa prematura. Fanno parte della lista delle 146 vittime riconosciute che persero la vita il 25 marzo 1911, nell’incendio della fabbrica Triangle a New York. A che serve ricordare queste operaie proprio l’8 marzo, nel giorno della Festa della Donna?

Perché il Giorno della Mimosa resti soprattutto il Giorno della Memoria ed è questo uno dei motivi per cui è stata istituita la Giornata Internazionale della Donna. Noi forse lo dimentichiamo quando tutto si frantuma nel becero business, nella mortificazione del significato autentico di quel fiore, nell’euforia di una notte che dà un calcio in culo alla memoria per uno streap tease mascolino, in cui il kitsch di un corpo nudo soppianta l’anima dell’essere umano.

No, c’è un altro 8 marzo e non vogliamo dimenticarlo. Perciò, quando offrirete un ramoscello di mimose alla vostra donna, accompagnatelo con un abbraccio intenso e prolungato. Restituite alla vostra fidanzata, a vostra moglie, alla vostra compagna, quel sogno che è stato strappato via a tutte le vittime della fabbrica Triangle.

Il mio 8 marzo sarà diverso dal solito: sosterò fuori una fabbrica e aspetterò all’uscita tutte le donne operaie. E sarà lì mezzo, che giusto un secolo dopo, cercherò il tuo volto. Cara Lizzie Adler, adesso sei una stella che brilla in cielo, ma io ti attenderò come un secolo fa ha fatto il tuo fidanzato. Ti restituirò i tuoi 24 anni perduti, attraverso quella carezza che mai ti arrivò, sperando che le mie mimose riscattino la memoria dalla banalità, senza farmi sentire escluso dal diritto di riflettere.

Donne italiane in piazza, sull’orlo di una crisi di nervi

Sono italiane le donne sull’orlo di una crisi di nervi e questa volta sono uscite a viso scoperto. Niente mimosa, niente Festa della Donna, niente nastro rosa. L’urlo rabbioso femminile, anzi “femminista”, ha trascinato in ballo pure gli uomini. E questi non erano gli osceni tronisti di Uomoni & Donne, ma mariti, compagni o figli che sono scesi in piazza senza i soliti pregiudizi: stiamocene a casa a guardare la partita di pallone, perché questa è robetta per donne “radical chic”.
Altro che protesta di quattro femminucce inviperite e incazzose! “Se non ora quando?”, la manifestazione delle donne italiane che hanno chiesto una volta per tutte “più rispetto per il gentil sesso”, è stato un vero boomerang lungo tutto lo stivale. Sembrava di essere ritornati ai tempi di una domenica sessantottina, rigorosamente in bianco e nero, dove per una volta poteva andare a farsi benedire il pranzetto allegro tutti in famiglia del Belpaese democristiano. Si torna ad urlare e questa volta c’è poco da fare i furbi.
A scatenare il putiferio è stato il Ruby-gate e quella mostruosa meccanica che vorrebbe convincerci che “le donne sono nudo oggetto di scambio sessuale”. Un bel paio di tette moltiplicate per quanti sono i culi delle bamboline di corte rappresentano davvero l’immaginario collettivo dell’italiano medio, maschilista e smargiasso? Se fosse così, siamo proprio conciati male così come quando, nei battibecchi quotidiani, ci imbattiamo nell’acidità femminile che ingigantisce le piccole delusioni nel banale ta-ra-ta-ta: “Gli uomini sono una razza inutile, ne possiamo fare a meno”.
La piazza ha ancora fascino di seduzione o il potere di far cadere gli imperatori? In alcune immagini passate in tv, mi è sembrato di rivedere quel mucchietto di donne agguerrite appostate fuori alla Casa Bianca per chiedere a Nixon, il peggiore Presidente della storia americana, di farla finita una volta per tutte con la guerra in Vietnam. Eppure quell’urlo col megafono non riuscì a fargli staccare il sedere dal trono, finché il joker dal ghigno malefico non fu sbattuto sul lastrico dal Watergate. L’Italia non vuole più aspettare e urla senza megafono: Se non ora quando?