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Sanremo Giovani 2011, vince il jazz ruffiano di Raphael Gualazzi

Non c’era via di scampo e quest’anno non ci sono state le solite zuffe per portare una nuova proposta dell’Ariston sul podio. Raphael Gualazzi vince con la sua Follia d’amore la 61a edizione del Festival di Sanremo nella categoria dei Giovani. Badiamo bene una delle peggiori annate, perché all’Ariston gli emergenti sono passati ancora una volta in sordina, a volte troppo insipidi, per niente sperimentatori o progressisti, mandati in onda a ridosso della mezzanotte, senza uno spazio adeguato, e per giunta messi in castigo dal televoto.
In balia della melodia di Micaela o di Serena Abrami, la vittoria del timido e pacato Raphael in stile jazzato mette tutti d’accordo, anche se il dubbio assillante rimane: questo swing ruffiano vuole fare il verso a Micheal Bublé? Dovremmo chiederlo a Caterina Caselli, l’ape regina della discografia italiana, che ha arruolato Gualazzi nella scuderia Sugar. La Caselli non ha sbagliato mai un colpo e nessuno ci vieta di pensare che Raphael diventi un fenomeno jazz da esportazione.
Intanto, mentre di questi giovani “invisibili” ci dimenticheremo prima di quello che possiamo pensare, il Televoto tira l’ennesimo colpo basso: Tre colori, l’intensa filastrocca musicata di Tricarico, è fuori dai giochi, nonostante a mio parare faccia parte del tris delle migliori canzoni sanremesi assieme a quelle di Vecchioni e di Emma & i Modà. Facciamocene una ragione, con o senza il faccione buonista di Gianni Morandi, il Festival di Sanremo riflette l’Italia del suo tempo, arruffona quanto basta per ripescare la Anna Tatangelo di turno e tenersi la lagna melodica di Luca Barbarossa. Mettiamola così: le belle canzoni sono quelle che vanno via in fretta dai riflettori dell’Ariston, dall’euforia popolare, ma restano confinate nell’animo di quel pubblico che sa cogliere in flagrante l’emozione di raccontare una storia accennata, come quella della nostra bandiera.

Sanremo 2011 Atto II: Il soldatino di piombo al Festival della Canzone

Rassegniamoci perché questo è un Festival di Sanremo da dimenticare. Ha deluso persino la categoria Giovani, mandata in onda poco prima della mezzanotte, quando i più insofferenti avevano spento già il televisore da un pezzo: passano il turno, graziati dal fantomatico Televoto, Serena Abrami che fa l’indossatrice per Niccolò Fabi e Raphael Gualazzi con lo swing da faccia da schiaffi che tira un rimbalzo al sound di Bublé.
Svestiamoci di tutto senza tralasciare un particolare: questo è il Festival della Canzone Italiana e non del cantante. E allora se con la dovuta spensieratezza emotiva vogliamo rincorrere un bagliore, stiamo dietro a Tricarico, che nonostante la sua esecuzione traballante, ha azzeccato il brano nel giubileo civico verso l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Tre colori è una filastrocca musicale, ben congeniata, perchè disegna i contorni a matita di piccole storie che sono quelle di ognuno di noi. Ho ripensato a mia madre quando una trentina d’anni fa si presentò regalandomi il libro illustrato del Soldatino di piombo. Attraversando la fiaba di Andersen mi ero illuso che chi indossasse la divisa era una miniatura giocattolo, che poi al momento opportuno sarebbe tornata nel cassetto. Altro che soldatini di piombo, quelli erano stati lì armati di fucili a farsi ammazzare per cucire quei tre colori.
E in uno dei tre della bandiera italiana si intrufola, sotto la ballata d’amore, il grido del professor Roberto Vecchioni: “Per il bastardo che sta sempre al sole, per il vigliacco che nasconde il cuore, per la nostra memoria gettata al vento da questi signori del dolore”. La storia si ripete e noi magari ci accontentiamo di mandarla giù a memoria, come se poi il dovere civico e la coscienza collettiva di un Paese si misurassero con molte frottole che affollano i tanti libri di storia. E qui “Chiamami ancora amore, chiamami per sempre amore” non è la sviolinata ricercata da dedicare a chiunque percorra senza saperlo il nostro cuore in questo momento, ma è il richiamo all’adunata, quella delle coscienze e di una presa di posizione precisa rispetto a tutto il resto, alle oscene banalità che scontornano l’essenza della vita. Cosa ce ne facciamo di un mondo finto, costruito a tavolino tra lacrime da coccodrillo ed euforia virtuale? Cosa ce ne facciamo di un mondo che ha rinunciato consapevolmente al sapore dell’amore? Chi corre troppo in fretta qualcosa se la perderà pure. Sanremo è il Festival della Canzone Italiana e non dei cantanti. Torno a ripeterlo. Così abbiamo l’unica chance di tornare sui nostri passi e accorgerci che dopotutto in qualche canzonetta è ancora nascosto il segreto per riappropriarci della collettività e scrollarci di dosso il nostro miserabile individualismo.

Sanremo 2011 atto I: Che barba, che noia!

Abbiamo sperato fino all’apertura del sipario che non fosse catastrofe. Invece questa è davvero la tragedia dell’Italia dalle canzonette che non sa più che pesci prendere. Il Festival di Sanremo condotto da Gianni Morandi è sicuramente il peggiore del nuovo millennio. Chi ha avuto la bizzarra idea di cominciare con la mamma baby-sitter Antonella Clerici, che trasforma un copione da prima serata nella più maldestra cantilena recitata? E’ proprio vero quando si dice che il Festival della Canzone Italiana rispecchi per filo e per segno ciò che siamo in questo momento. Ce lo ricordano i maliziosi siparietti di Luca e Paolo, i veri showmen della prima serata, che sono lapidari tra le belle statuine di Belen e la Canalis.

Gira e rigira la frittata è quella di sempre, con lo spettro del solito intruso, l’innominato ficcanaso che guida l’intera corte a distanza. Questa edizione 61 del festival più amato dagli italiani è così sottotono da sembrare un favore costruito a tavolino per far rallegrare la concorrenza. Gianni Morandi è un pessimo conduttore – perché non ritorna a fare il suo mestiere? – e l’immediatezza scenografica così fantasma da farci scordare che all’Ariston c’è un’orchestra che suona dal vivo.
E delle canzoni ne vogliamo parlare? Quelle dei Campioni le buttiamo tutte giù dalla torre e ci teniamo strette la poesia del prof. Roberto Vecchioni, l’impasse vocalico di Emma & i Modà, la ricercatezza (forzata in qualche punta) di Nathalie, la filastrocca di Tricarico, il folk spedito di Van De Sfroos, la lenta alzata in volo di Battiato. Il brano di Giusy Ferreri non è malaccio, ma l’ex cassiera ha perso così tanta voce da rischiare di tornare tra le corsie del supermercato. Sbadigli a non finire per un Sanremo senza show e senza canzoni. E poi sarà che porta sfiga, ma fa bene una mia lettrice a ricordarmelo. Il Festival non è più lo stesso senza il motivetto della seconda Restaurazione baudiana: “Perchè Sanremo è Sanremo”. Qui c’è poco da ridere e tanto da piangere. Tatangelo via (era ora!), ma avrei tenuto la Oxa cestinando i riciclati Barbarossa e Pezzali, due bidoni in un colpo solo.