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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Barzelletta all’italiana alla Fiat di Pomigliano d’Arco

L’Italia è un terreno fertile per aggiornare un barzellettiere. Ahimè, se fosse vivo Gino Bramieri ne inventerebbe una garbata da dedicare al braccio di ferro Fiat-Fiom nello stabilimento di Pomigliano D’Arco. Un altro colpo basso nella stagione grigia per la Fiat di Marchionne, che non può succhiare più finanziamenti statali: i 19 operai reintegrati da Fiom sul posto di lavoro sono compensati da Fiat con altri 19 licenziamenti. La Procura apre un’indagine e una nuova bufera si abbatte nella cittadina alla periferia di Napoli in pieno decadimento: invivibile, sporca, vittima di un piano di viabilità che la rende impraticabile, per non parlare delle strisce blu di cui è stata tappezzata ovunque.

La Pomigliano lustrata degli anni ’80 è roba di tempi andati e lo sa bene pure il sindaco della vecchia guardia socialista che strizza l’occhio alle scelte dell’imperatore Fiat. Morale della favola: Marchionne, teniamocelo buono. Meglio 19 famiglie in mezzo alla strada che rischiare di fermare una volta per tutte la produzione di Pomigliano d’Arco e seguire le sorti di Termini Imerese. Dall’altra parte della barricata, sul filone di una sceneggiutura alla Peppone e Don Camillo, c’è il parroco di frontiera don Peppino Gambardella che chiede “un equilibrio tra capitale economico ed umano”. Scusate, ma i preti non dovevano starsene buoni buoni a dare lezioncine di catechismo dagli altari? Voce fuori dal coro di una diocesi conservatrice come quella di Nola, il parroco della chiesa di San Felice non ne vuole sapere di farsi gli affari suoi e continua la battaglia al fianco delle famiglie degli operai di Pomigliano con questo slogan: “Il lavoro è un diritto di tutti. Quando manca, bisogna spartirlo in parti uguali. Questa si chiama solidarietà”.

Tornando al nostro barzellettiere. A chi spetterebbe di scivolare sulla buccia di banana per far scattare la risata convulsa come in ogni barzelletta che si rispetti? Non sempre accade che funzioni il meccanismo della risata. Questa volta si tratta solo dell’ennesimo ricatto da “riso amaro” e dei mutamenti tropicali del mercato del lavoro del Belpaese.

  Fiat di Pomigliano: Petizione Anti Fiom

  Procura in campo per 19 licenziamenti

Don Peppino Gambardella, il prete di frontiera che si fece “operaio”

Abbiamo perso di vista i sacerdoti di frontiera, coloro che sanno togliersi la tonaca al momento giusto e dar voce a chi l’ha persa. In uno dei miei recenti viaggi, ne ho ritrovato uno. Il volto di don Peppino Gambardella era a me noto e non perché fosse finito alla ribalta per aver digiunato a favore degli operai della Fiat di Pomigliano D’Arco. In un certo senso aveva sfiorato per pochi istanti la mia adolescenza, quando a quel tempo incantava gli allievi con le sue lezioni di filosofia.
Gambardella non è il noioso predicatore che si compiace dei sermoni, è uno pratico, è uno che nelle omelie domenicali ci infila Dostoevskij perché  “la bellezza salverà il mondo”. Mentre i fatti di cronaca degli ultimi anni hanno raccontato il sacerdozio come prigione della perdizione, la bellezza di uomini come don Peppino Gambardella ne rispolvera la missione sociale. Questo prete del Sud, profondamente radicato nel suo territorio, ha restituito alla città di Pomigliano d’Arco, alla periferia di Napoli, l’identità rinnegata di culla degli operai.
Il canzoniere folk degli Zezi ci raccontava che erano stati loro a tenerla in piedi. In tanti lo avevano dimenticato, mentre “il paesotto” che ospitava Fiat e Alitalia viveva tra la fine degli anni ’70 e una parte degli anni ‘90 il suo rampantismo: come dimenicare i condomini radical-chic di piazza Primavera; i tuffi in piscina al Parco Fanfani; i raduni musicali estivi abitati dagli pseudo-intellettuali che la volevano roccaforte del jazz; la middle-class che si addolciva con i pasticcini di Antignani;  le passeggiate della gioventù alla ricerca di capi firmati tra le vetrine pacchiane del centro; lo struscio “goffo” nella nuova villa cittadina, che si vantava di essere l’Hyde Park della zona vesuviana.  E prima che finisse il regno del Bassolinismo a Napoli, si era già spento il “Pomigliano dream”. Erano stati messi nel sacco da un bel pezzo i trasformisti che la volevano alla pari di un quartiere blasonato di Napoli, senza tener conto che la provincia è condannata a rimanere provincia, con le sue contraddizioni, il falso moralismo, l’ipocrita apparenza.
Don Peppino Gambardella ha riscattato la sua comunità da questa visione distorta, restituendo nel gesto di quel “digiuno” l’ultima speranza, nonostante il quesito resti lo stesso: “La classe operaia andrà in Paradiso?”.
E la speranza è anche nei ragazzi che animano la parrocchia di San Felice in Picis, figli della semplicità di don Peppino, che già nei primi passi del suo sacerdozio indicava inconsapevolmente la strada per diventare angeli, prima che Lucio Dalla lo mettesse nero su bianco in una vecchia canzone:  “Se io fossi un angelo, non starei nelle processioni, nelle scatole dei presepi”.

Referendum: Le lacrime dell’operaio Fiat di Mirafiori

A quest’ora le lacrime dell’operaio Fiat di Mirafiori avranno fatto il giro del mondo. Nella grande abbuffata degli anni Ottanta, sull’onda del rampantismo aggressivo dell’Italia gaudente, ce n’era per tutti: per gli operai come per i sindacalisti. Nell’ingrandimento vintage di quella grande abbuffata pseudo-proletaria, c’è pure da dire che “la casata” automobilistica italiana i sostegni dallo Stato italiano se li prendeva. E adesso sull’orlo del precipizio, impreziositi da qualche starnuto di ascendenza sabauda, ci diciamo tutti: “Arrivederci e grazie”.
Tutto con una miserevole tranquillità, come se non fosse accaduto niente, come se tutte quelle automobiline che circolavano nel Belpaese del Boom economico del secolo scorso non le avessero fabbricate gli operai. La storia delle quattro ruote in Italia l’ha scritta la Fiat, ma siamo stati tutti noi ad aver contribuito a darle credibilità.
E’ inutile piangere sul latte versato, gli errori li abbiamo commessi tutti quanti, incluse le famiglie dall’inclinazione assistenzialista: “Compriamo la macchinina Fiat, così diamo una mano all’economia italiana”. A chi abbiamo dato una mano ai servi o ai padroni? Forse a tutti e due, perché negli ultimi decenni gli errori diventati orrori sono quelli che hanno trasformato a lungo raggio i servi in padroni e i padroni in servi. Tutti ci siamo alternati da entrambe le parti della barricata, a ricattare o ad essere ricattati.
Adesso c’è un referendum e la faccenda è molto più seria di quello che pensiamo: se chiude lo stabilimento di Mirafiori, un lungo e controverso capitolo della storia del lavoro in Italia andrà a farsi benedire. Se il pianto dell’operaio Fiat fosse una manciata di lacrime di coccodrillo, allora potremmo otturarci il naso e far finta di niente. Se quelle lacrime fossero invece una presa di coscienza o una dolorosa riflessione, un Paese civile e democratico ha il sacrosanto dovere di prenderne atto.

Diario di un blogger attraverso il 2010

Quando un altro anno se ne va via, un blogger ha un vantaggio dalla sua parte: un diario bello e fatto da poter sfogliare per ripercorrere a modo suo questo 2010. La scrittura è sempre farcita di emotività e di vita quotidiana, ma mi pare l’occasione per rivivere gli ultimi 12 mesi dell’anno.
Ricorderemo il 2010 per quella diavoleria tecnologica dell’iPad , ma anche per l’euforia di Facebook che a volte è diventata isterismo da “sindrome del mi piace”, onirico desiderio di calunniare, tenera strategia per corteggiare una donzella  o per festeggiare San Valentino . Le pagine del diario privato hanno preso il sopravvento nel calore della sciarpa di Antonia, nel disegno del dolcissimo Carmine, nei micro viaggi nei miei luoghi natali, in un racconto d’estate a puntate  o su un block-notes dopo la mia estate in Corsica. L’attualità mi ha ricordato la turbolenza della Fiat di Pomigliano , l’uccisione del Sindaco-pescatore, la guerra della monnezza a Terzigno  o la protesta degli studenti a Roma. Le buone o le cattive abitudini (dipende dai punti di vista!) mi hanno riportato nei matrimoni del Sud tra le bustarelle e le reunion familiari.
E poi ancora la delusione per l’uscita degli azzurri dai Mondiali, l’urlo dei ricordi per la Spagna campione del mondo, il sapore dello gnocco fritto di Ciano a Sabbioneta, Calabria on my mind, ed io autista per un giorno a Brescia.
Mi mancheranno tre volti noti che se ne sono andati nel 2010: Sandra Mondaini, Mario Monicelli e Enzo Bearzot.
Devo eleggere una persona dell’anno, rovistando tra i miei post? E’  Simona, l’educatrice tenace dei Quartieri Spagnoli di Napoli.  Con lei e con te, caro lettore, ho attraversato il 2010 e sono pronto per condividere  anche “l’anno che verrà”. Cin cin…

Ancora tagli di posti di lavoro. Alitalia insegue la Fiat?

Continuiamo pure a far finta di niente, nascondendo la testa sotto il cuscino. Dopo esserci caricati di altre tasse per evitare il collasso di Alitalia, adesso veniamo a sapere per via traverse che la compagnia di bandiera mette a rischio altri 2 mila posti di lavoro. Se facciamo un rapido calcolo su come il mercato del lavoro sia finito sul precipizio nel Belpaese “spaccone”, i conti non tornano. E cioè quelli di chi urla che la recessione si passeggera, mentre, tra licenziamenti e casse integrazioni, potremmo fondare una vera e propria “disoccu-poli”. E di lavoro ce ne sarebbe a bizzeffe per i sindacati se facessero serie riflessioni, mentre i nostri politici sono impegnati a reclutare gli ultimi soldatini per far andare avanti l’armata Brancaleone.
Confindustria si tappa il naso e chi sente odore d bruciato è Sergio Marchionne, che ormai con la sua “sottoveste” politica detta le linee guida agli industriali italiani. Che in ballo ci siano le sorti di migliaia di famiglie dietro il tira e molla degli stabilimenti Fiat di Melfi e Pomigliano d’Arco, poco importa a chi un lavoro ce l’ha e si dondola sull’amaca tutta tricolore del “tirare a campare”.
Marchionne sa pure che il bello o il cattivo tempo – dipende dai punti di vista – dell’assistenzialismo statale a favore della Fabbrica Italiana Auto Torino fa parte dei capricci meteo del Belpaese di ieri. Così nelle giornate uggiose della globalizzazione, scrivere il nuovo Vangelo del Lavoratore non spetta più né ai sindacati né ai lavoratori stessi, bensì al numero uno di un brand (o di una macchina arruginita para-statale?) che con il suo diktat vuole stabilire quale sia il confine tra antichità e modernità. L’errore più grande è quello di accettare in silenzio una “Fiatizzazione” di tutte le industrie italiane, così come due secoli fa il processo di “Piemontizzazione” ci illuse di poter fare un’Italia, giovane e pure bella. Mentre Alitalia pensa che le soluzioni di un malessere sociale siano a Torino,  non sarebbe surreale se i migliaia di disoccupati in Italia si mettessero in coda ai precari della scuola e decidessero di cambiare mestiere. Tra otto anni il ministro Gelmini un posto in cattedra ce lo ha assicurato. Basta solo capire come impiegare il tempo fino ad allora!

La Fiat di Pomigliano, la classe operaia non va in Paradiso

Pomigliano vota e Torino risponde. Va ancora avanti il tira e molla sulle sorti dello stabilimento Fiat. Non ci voleva il pugno di ferro dell’Imperatore Marchionne per ribadire l’amara massima che un cinefilo può rubare dalla filmografia di Elio Petri: “La classe operaia non va in Paradiso”. Tramontata l’illusione operaia del rampantismo degli anni ’80, ora ci sono i figli di quella categoria a pagare le colpe degli assenteisti e degli sfaticati, di coloro che abusavano del fasullo benessere di allora. Si davano ammalati, svolgevano la seconda attività in nero per arrotondare e nei fine settimana fuggivano in Calabria, a Scalea, dove avevano realizzato il sogno del “borghese piccolo piccolo”: avere la casa a mare. In spiaggia, spaparanzati al sole, speravano di annientare la tortura della catena di montaggio, ascoltando i figli cantare in coro “Sei forte, papà”, come se la stupidotta canzoncina di Morandi del ’76 potesse lenire il dolore, la fatica. Per un beffardo gioco degli dei, i figli di quella classe operaia sono condannati a pagare il ricatto della globalizzazione. Pomigliano d’Arco, da piccolo paesotto di provincia che era, a partire dal 1972 ha vissuto l’illusione ottica di diventare un piccolo centro metropolitano, come se poi quel mucchietto di dirigenti torinesi sbarcati allo stabilimento Gianbattista Vico avesse avuto la bacchetta magica per darle le sembianze di una piccola colonia nordista.
Tra la fine degli anni di Piombo e la prima metà degli anni ottanta Pomigliano d’Arco è stata aggredita dal boom edilizio che ha fatto balzare alle stelle i prezzi degli immobili, dallo snobbismo della jeunesse locale che aveva trasformato un trafficato incrocio nel punto di ritrovo, dal via vai del laboratorio pasticceria Antignani che addolciva le festicciole casarecce della middle-class. E tutti si sono illusi che ad incrementare l’attività commerciale delle vetrine pacchiane del centro, pardon radical-chic, fossero i businessmen dei piani alti. Non era così, erano gli operai  e le loro famiglie a far girare l’economia locale. Ce ne siamo accorti accorti sì o no? 
I Sindacati sono spariti. Nella belle époque degli sprechi facevano finta di non vedere, oggi parlano “il politichese” perchè poggiare il culetto su uno scranno in Parlamento è più salottiero.  Nelle sorti di questo stabilimento c’è in gioco il destino di un’intera comunità e il compromesso non può superare la logica della dignità.

Capriccio d’estate a Torino senza i soliti cliché

Torino by night

Rosario PipoloAvevo un capriccio e me lo sono tolto: girovagare a Torino in un fine settimana d’estate e godermi la città semivuota. In parte ci sono riuscito e devo dire che le Olimpiadi invernali di tre anni fa hanno fatto decisamente bene al capoluogo piemontese. Escludendo i miei blitz al Festival Cinema Giovani, Torino non me la ricordavo ringiovanita a tal punto da brillare per le proposte allettanti di intrattenimento, per i graziosi locali che pullulano ovunque e, soprattutto, per avere una seconda vita fino all’alba del giorno dopo. Mi sembra che le nuove generazioni, perlopiù figli di emigranti del Sud Italia, abbiano rinunciato ancora più marcatamente alle schizofreniche nostalgie sabaude – circoscritte per fortuna a Palazzo Reale – e all’iconografia della famiglia Agnelli e della Fiat nel tempo in cui il vecchio stabilimento del Lingotto è diventato un centro commerciale. La jenuesse torinese ha una grande responsabilità: far sì che il processo di integrazione degli stranieri in città non diventi “discriminazione” come il secolo scorso è successo con i nostri meridionali. E mi fa incazzare incrociare il torinese dall’accento pugliese che trasforma il piccolo kebabbaro del centro nel capro espiatorio di turno. Si raccomanda la visione del film Rocco e i suoi fratelli di Visconti per cancellare dal vocabolario di ieri “terrone” e da quello di oggi  “extracomunitario”.  Le intrusioni criminali ci sono e dovrebbero essere gestite al meglio dalle istuzioni affinché una città sia sicura sempre.  Se così non fosse, Torino rischerebbe di far offuscare la sua vitalità nei risaputi cliché che la hanno isolata per decenni.