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Diario di viaggio in bici: Il sogno di Carlo della bergamasca tra terra e cascina

Rosario Pipolo“Te lo leggo negli occhi” gli avrebbe cantato Sergio Endrigo. Negli occhi chiari di Carlo, figlio della bergamasca, si legge la passione per la terra. Carlo ha fatto il camionista per una vita, partiva all’alba e viaggiava da un capo all’altro del Nord Italia. La sua passione era la terra. Mi ha detto: “Dalla terra nasce tutto. Dalla terra viene fuori la radice di ciò che siamo”. Sembravano parole uscite dalla bocca di mio padre.

Quella passione è sfociata in un sogno realizzato. Si tratta dell’agriturismo La cascina dei Prati a Credaro, un paesotto della provincia di Bergamo. Ci sono finito per caso in una delle mie scorribande avventurose in bicicletta. Beh, neanche per caso direi. Mi ci ha mandato Simone, un vignaiolo di Grumello che produce del buon vinello locale. Alle due e mezzo del pomeriggio chi vuoi che ti dia da mangiare? Barbara, titolare della cascina assieme al fratello Simone, mi guarda e mi dice: “Bella pedalata da Bergamo fino a qui. Qualcosa tireremo fuori dalla cucina!”.

Il bollitore per la pasta è già spento, ma in compenso arriva un tagliere di salumi e formaggi, che evoca le parole di Carlo. Sono i prodotti di quella terra, perché non c’è niente da fare. Giriamo e rigiriamo ma solo i prodotti tipici del posto sanno raccontare la geografia delle radici. Ci vuole coraggio ad azzannare con quel caldo stracotto e polenta e una doppia razione di dolci fatti in casa.
La ragazza occhialuta e gentile, di cui non so neanche il nome, parlotta con me tra una pietanza e l’altra. “E se non ce la facesse a pedalare – mi suggerisce – sopra ci sono sempre delle stanze dove si può fermare”. Sono tutti gentili. Loro preparano i tavoli per la sera, in sala ci solo io. Mi sembra di essere stato adottato da quella famiglia. Vi ritrovo l’armonia e l’ospitalità tipiche dei posti in cui sono cresciuto.

Poi Simone dà lezione di come si prepara il formaggio ad una ciurma di bambini curiosi, arrivati dalla lontana metropoli. Mi fermo volentieri, ascolto, imparo. All’orizzonte ci sono fulmini e saette. E’ ora di andare. Simone mi accompagna fin giù per un sentiero segreto. La bici si inzozza nel fango, ma poi ecco svelato il segreto. Costeggio il fiume Oglio, che corre ad abbracciare il lago d’Iseo. E’ un atto d’amore proprio come quello di Carlo verso il suo terreno, trasformato in un agriturismo. Da bambino pensavo che tutti i bergamaschi fossero vestiti con le toppe colorate di Arlecchino.
Questo mio viaggio smentisce i soliti pregiudizi che li dipingono come diffidenti e poco ospitali. Avevo ragione da bimbo. I bergamaschi hanno il cuore colorato come le toppe dell’abito di Arlecchino, perché sanno come far sentire a casa un vagabondo forestiero come quelli della mia razza.

Diario di viaggio: Un modo insolito per festeggiare il primo anno di Maxela Coppelle a Roma

Assieme a una parte dello staff

Rosario PipoloCapita che se ti trovi alla festicciola del primo anno di un ristorante, il palato pretende la sua parte: assaggi, punto e basta. Maxela, l’oasi dei mangiatori doc di carne in via Coppelle a Roma, spegne la sua prima candelina e così ti consoli spiluccando salumi, formaggi e una buona focaccia di Recco. Anzi, mi sembra di essere finito a Genova, rincorrendo quel sapore a cui accosteresti qualche canzone strimpellata in dialetto alla De André. E mentre butti l’occhio sulla carne in passerella – sono mica ad una sfilata culinaria? – aspetti l’ora di cena per azzannare qualche specialità alla brace e finire la serata con un buon bicchiere di vino.

Visto che la rete è strapiena di food-lover e in giro ci sono tanti critici gastronomici sul ciglio di una strada – un consiglio su Foursquare o un pallino su TripAdvisor valgono più di una guida blasonata – lascio a loro il privilegio di una noiosa recensione, mi fido dell’intuito del mio palato e mi spingo oltre. Oltre dove? Se c’è di mezzo un ristorante, di cosa dovrei parlare se non di cibo?

Sarà questa mia fissazione del “viaggio nel viaggio”, che mi porta ad esplorare l’ambiente: gli scaffali con i vini mi portano alle mie incursioni nelle cantine toscane; il banco da macelleria ai tempi in cui mi divertivo a guardare nonna Lucia che contrattava con il macellaio per avere la migliore carne; l’allestimento dei tavoli alle romanticherie del mio ultimo viaggio a Parigi. L’ambiente è fatto anche di persone ed è la chiacchierata con lo staff che mi porta a fare il giro di mezzo mondo, dal Senegal alla Romania passando per l’Ucraina, con tante piccole storie che si fondono con il gusto.

E non rimpiazziamo il solito Proust con la storia del gusto che evoca il ricordo, tanto basta la cordialità di ognuno di loro per convincermi ad infilarmi in una foto con lo staff. All’appello manca Andrea, il simpatico napoletano che dirige Maxela Coppelle, alle prese con lo chef per gli ultimi assaggi prima dell’apertura delle cena. Accipicchia, Andrea assomiglia tanto a mio cugino, il più piccolo della nidiata materna, che si dipingeva il muso con il ragù quando nostra nonna gli proponeva l’assaggio di un buon piatto di maccheroni.

Non dovevamo festeggiare il primo compleanno di Maxela? Ecco, lo abbiamo fatto, tirando le orecchie ai ricordi, dando una pacca sulle spalle a coloro che ci lavorano. Non è solo il cibo a fare la differenza, ma anche le risorse umane che contribuiscono al successo di un ristorante. Passione ed entusiasmo restano un valore aggiunto.

Back in Town Party: Ritorno a California Bakery

Un paio d’anni fa, in uno dei miei viaggi “metropolitani”, incontrai Caroline. Me la presentarono. Doveva essere un’intervista, ma si trasformò in una lunga chiacchierata. Mi raccontò della sua California Bakery, del suo sogno assieme al marito Marco di creare uno spazio che andasse al di là di un food place. Back Town in Party mi ha riportato nella nuova California Bakery di via Tortona a Milano e allora mi sono detto: O la va, o la spacca. Caroline era davvero testarda: voleva declinare il tempio di piazza S. Eustorgio in più quartieri di Milano e ce l’ha fatta; voleva ritagliare un mini cartellone musicale, coinvolgendo giovani emergenti e c’è riuscita; aveva capito che la socialità viaggiava in rete alla velocità della luce e fece bene a fidarsi di un gruppo di neolaureati che, tra Twitter e Facebook, avrebbero raccontato al popolo social tutto questo ben di Dio.

California Bakery mi riporta alla mia traversata on the road di settemila chilometri attraverso gli Stati Uniti, tra cheese cake, muffin e cookies. L’altra America, che non era quella dei fast food, ma quella che sfornava pane caldo come le canzoni di Bob Dylan; l’altra America, che non era quella della grande abbuffata, ma quella che ti serviva un hamburger o un hotdog con il garbo che hanno fatto di Barack Obama il Presidente della multietnicità; l’altra America, che non era fatta di cibo spazzatura, ma di vecchi sapori che riportavano il fremito nostalgico della tv di “Happy Days” nel cinema di “American Graffiti”.

Caroline mi fa venire in mente Jason e Brian che,  a Phoenix nella mia adorata Arizona, rimettono a nuovo vecchie auto yankee  di mezzo secolo fa. In una Milano, afflitta dalla crisi e dall’impoverimento di idee, questo entusiasmo è prezioso, perchè è capace di restituire un’anima anche ad una vecchia “carcassa”. Ho indossato un grembiule e mi sono imboscato tra lo staff di California Bakery. Qualcuno ci è cascato e mi ha chiesto da bere. Ed io sono stato al gioco così come quando mi sono messo a scarabocchiare con un pennarello indelebile sulle mattonelle bianche. Erano le stesse che le nostre nonne avevano in cucina, quando far da mangiare era anche passione. Su una mattonella del wall hanno scritto così: “Un altro posto dove sentirsi a casa. Alice.”

  California Bakery on Twitter

Identità golose: Mio papà è un vero chef!

Se lo scombinato Ratatouille, protagonista dell’omonimo film a cartoon, ci ricorda che il mondo della gastronomia è più complicato di quello che pensiamo, Identità Golose ci rinfresca la memoria ogni anno, trasforma Milano nella cittadella del food e chiama all’appello grandi chef da tutte le parti. Tutti assieme appassionatamente, cuochi – così li chiamerebbe il maestro Gualtiero Marchesi – e quei critici burberi che, armati di “penna” & “forchetta” tutti i santi giorni, mettono alla prova il loro palato. Per fortuna, questi ultimi non hanno tutti la faccia antipatica e superba di Anton Ego, il critico gastronomico del film d’animazione di Brad Bird.
Se mi chiedessero di ritoccare il film, ci metterei i volti gaudenti di Alex Guzzi e Cristina Viggè, due bravi giornalisti di settore appartenenti a due fazioni editoriali contrapposte, che seduti allo stesso tavolo diventano il primo “il palato nel cuore” e la seconda “il palato nell’anima”.
Ritornando ad Identità Golose e a questa blasonata reunion degli chef e della loro guerra per entrare nella tribolante galassia degli stellati, mi chiedo spesso cosa significhi avere un papà maestro dei fornelli. L’anno scorso due bambini mi hanno messo tra le mani un libro dal titolo “Mio papà è un vero chef”. Carmine e Ciro – dai nomi sono evidenti le radici napoletane – mi hanno portato con orgoglio tra le pagine che li ritraevano assieme al papà con mestolo in mano, mentre armeggiava una delle sue nuove ricette. E mentre io gli raccontavo che il mio era stato “uomo della luce” e aveva illuminato tantissime strade, loro se la ridevano a pensare che il loro “eroe” avesse qualcosa a che fare con il mondo del cartoon Ratatouille.
Di certo i due fratellini avevano l’occhio lungo e non ci avevano messo tanto a capire che non sono le famigerate “stelline” a cucire la divisa dello chef perfetto, ma lo sforzo continuo di concentrare in un piatto l’arte che fa del gusto l’indomabile leggerezza dell’essere.

Napoli, la storica pizzeria Triunfo divorata dai cinesi!

Un altro trauma dopo il mio recente ritorno a Napoli. Avevo voglia di una pizza accartocciata e così mi sono diretto da Triunfo nella Duchesca. Stranamente non sentivo il solito profumo. Al posto della storica pizzeria dietro al vecchio Tribunale di Napoli, sono spuntati una coppia di cinesi che vendevano la solita accozaglia. Credevo di aver sbagliato vicolo! E’ stato un signore del quartiere a confermarmi che la saracinesca di Triunfo si era abbassata per sempre. Il figlio non ha voluto continuare l’attività del padre e pare che se ne sia andato in Corea dopo aver venduto agli orientali. Pizza o calzone fritto, da Triunfo dovevi fare la coda a qualsiasi ora e faceva gola pure agli animali: una volta c’è mancato poco che un cane azzannasse un pezzo della mia Margherita fumante! Pure chi veniva dalla provincia – che magari di Napoli sapeva ben poco – conosceva quell’angolo, a pochi passi dalla Ferrovia. L’ultima volta che ci sono passato, invece dei soliti operai o muratori con cui condividevo la pausa pranzo, ho parlato di pizza fritta con marocchini e algerini. Segni che i tempi cambiano e che il fenomeno dell’immigrazione porta nuovi risvolti. Questo paradiso gastronomico della Napoli popolare andava salvaguardato. E adesso chi glielo dice alla buonanima del mio bisnonno, Francesco Mautone, che Triunfo non c’è più? Quella pizzeria che ha sfamato più generazioni  della mia famiglia, anche quelli come il nobile ed elegante Francesco che, nella Napoli degli anni ’20, non privava i suoi figli del piacere di “leccarsi le dita” dopo una buona pizza mangiata con le mani!

Il prosciutto di Montagnana, dal sapore alla geografia dei luoghi

prosciutto150A casa mia il prosciutto crudo non è mai mancato. Da ragazzino ero sfaticato nelle faccende domestiche, ma a fare la spesa ero il numero uno! Se il salumiere non me lo dava a taglio perfetto,  lo eliminavo dalla lista della spesa.  La salumeria è un’arte e lo conferma la mia recente sosta a Montagnana, graziosa località veneta e patria di un prosciutto dolce dop. Volete provare a far sussultare il vostro palato? Assaggiando il crudo dell’antico prosciuttificio Attilio Fontana , mi sono convinto della via che unisce gusto e geografia dei luoghi. Lo so di essere troppo “proustiano”, ma il sapore del crudo di Montagnana non ha spalmato solo qualche ricordo nel mio fine settimana veneto. Ha risvegliato in me una più acuta tutela e promozione del patrimonio gastronomico locale, a cui le istituzioni locali devono dedicare tutti gli sforzi possibili. Potrebbe essere la volta buona per farci disinnamorare dei salumi industriali e delle tristi corsie degli ipermercati.