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Diario di viaggio: l’autenticità degli sposi in un autobus in Valle Camonica

Rosario PipoloNel giorno del matrimonio il cerimoniale vuole che gli sposi siano imprendibili e irraggiungibili. Baci e abbracci dopo il fatidico sì, pochi momenti durante la festa e poi il saluto con relativa fuga d’amore.
Capita pure che, nel giorno del proprio matrimonio, si mandi al diavolo il noiosissimo protocollo. Così gli sposini si mescolano agli invitati, diventando quasi irriconoscibili.

Anzi, la riconoscibilità da festeggiati non sta tanto nell’abito fiabesco, nella pettinatura impeccabile o nella scarpetta rubata al principe di Cenerentola ma in quella voglia matta di condividere con gli invitati ogni instante di questo giorno speciale, senza eccessi formali, senza l’ansia che il menu rientri nei canoni della grande abbuffata o negli obblighi mediocri che, il più delle volte, ci rendono prevedibili.

Perciò, il giorno dopo le nozze, non diamo così per scontato che gli sposi siano in luna di miele. Potreste ritrovarli, come è accaduto a me, in un autobus, di ritorno a casa con un gruppo ristretto di amici ed invitati. Questa scena ha qualcosa dello psichedelico del Magica Mistery Tour  dei Beatles perché, in fin dei conti, anche un viaggio come questo può essere visionario.

Visionario nel senso che indica il percorso per recuperare la massima del mio amico Piccolo Principe: “L’essenziale è invisibile agli occhi”. E su questa traiettoria si inserisce la perla di saggezza della nonna del mio amico Filippo: “L’autenticità delle persone si vede nei dettagli, nella loro spontaneità e non nei discorsi costruiti a tavolino”.

Anna e Luigi, nel viaggio che ha segnato il mio ritorno in Valcamonica, ci hanno dato una bella lezione: si può continuare ad essere sé stessi persino nel giorno del matrimonio.
Al termine di questo viaggio on the road con gli sposi – avrei voluto non finisse mai – ho sentito il riverbero della voce di Lucio Dalla che canticchiava Anna e Marco per l’occasione: “Anna avrebbe voluto morire, Luigi voleva andarsene lontano. Qualcuno li ha visti tornare, tenendosi per mano”.

Sterminio in Siria: Abbiamo bisogno ancora dell’ONU?

Mi manca Lucio Dalla perché scriveva canzoni intelligenti. Quando uscì “Ciao”, pochi si accorsero che dietro quel motivetto c’era l’indifferenza verso un genocidio. E noi “la spiaggia di Riccione, milioni di persone, le pance sotto il sole, il gelato e l’ombrellone” ci abbronzavamo i coglioni senza vedere lo sterminio al di là della cortina di ferro del mar Adriatico.

La distanza geografica che ci separa dalla Siria non giustifica la miopia internazionale, inclusa quella italiana, nonostante il Belpaese sia crocifisso. C’è voluto qualche picco social per farci soffermare sulla strage di Hula, che poco più di una settimana fa ha portato sotto il nostro naso gli orrori del regime di Assad. Uno sterminio senza pietà di civili, intere famiglie, e soprattutto bambini. La filastrocca gira ancora allo stesso modo: indignazione generale, interventi repentini, l’oscuramento delle informazioni e poi torna il silenzio.

Non vorrei rompere le uova nel paniere: l’Onu che cosa ci sta a fare? Non è da statuto un’Organizzazione intergovernativa, portabandiera della fine di violenze e focolai guerrafondai sul nostro pianeta?
In passato sono stati chiusi troppi occhi, senza calcolare i genocidi che potevano essere evitati. Forse è arrivato il momento di mettere in discussione il ruolo delle Nazioni Unite, tenendo conto che non siamo tra le pagine di un fumetto. Gli eroi della Marvel possono solo stare a guardare.

4 marzo 2012: Smisurata preghiera per Lucio

Vorrei non arrivasse mai il 4 marzo 2012.
Era lo stesso a cui lanciarono sassate, perché faceva le smorfie da scimpanzé, ma l’unico zingaro musicante a sapere che le stelle sono più di un miliardo.
Dovrebbero fermarsi pure i russi e gli americani, perché “Te voglio bene assaje” fu grido d’amore per Mosca come per New York.

Vorrei non arrivasse mai il 4 marzo 2012,
per non vederlo andar via con Anna e Marco, chissà su quale treno, su una saetta come nuvolari, aspettando l’anno che (mai) verrà, perché lui ci rivelò come è profondo il mare.
Sarà forse la sera dei miracoli serigrafata sulle ali di una farfalla o tutta la vita dello sfacciato che osserva dentro l’anima con canzoni e ti chiede tu com’eri.

Vorrei non arrivasse mai il 4 marzo 2012,
per non sentire il vuoto a piazza Grande senza che Henna se ne accorga: gli uomini vanno via, proprio come Ayrton, che non fece in tempo ad imparare che un vincitore vale quanto un vinto.

Come il vento poi arriverà Lunedì e lui sarà negli angoli del cielo a dirci ciao.
Gesù bambino, lo riconoscerai in mezzo ai ladri e alle puttane con gli occhialini tondi e un cappellino in testa. Non avrà l’aria del brutto anatroccolo, ma dello zingaro felice più bello dell’universo. Se io fossi un angelo me lo riprenderei, ma angelo non sono. Sono un povero diventato ricco grazie al suo canzoniere ereditato. Finisce così il primo tempo della mia vita, per lui comincia il secondo.
Perciò, Gesù bambino, lascialo giocare a carte, cantare e bere vino, perchè per la gente del porto lui sarà Lucio Dalla per sempre.

Non è fottuta nostalgia: Addio a Lucio Dalla, nelle tue canzoni la vita mia

Mamma, non si fa così. E’ morto Lucio Dalla. Era la voce che cantava, mentre tu facevi le faccende domestiche nei bei pomeriggi della fine degli anni ’70. Non è fottuta nostalgia, no. Sono le canzoni che ci accomunano, sono le “Storie di casa mia” a tornare vive attraverso le sue canzoni.

Avevamo il mangianastri che ti aveva regalato papà per fidanzamento, ma io volevo il vinile. La solita storia, la solita cresta sulla tua spesa. Andai a comprare un disco di Dalla sotto etichetta RCA in un negozietto di periferia. Spiegai al titolare che non avevo abbastanza soldi e me lo mise da parte.

Mamma, ricordi quanto odiassi il cappello di lana che mi infilavi tutte le mattine prima di andare a scuola? Poi un bel dì decisi che mi calzava a pennello, perché lo avevo visto sul capo di Dalla. Attraverso i suoi brani ho imparato ad osservare le storie di periferia, quelle che nascono e finiscono nella quotidianità, che fosse un sogno collettivo come Piazza Grande; una preghiera blasfema come 4/3/1943; un visionario disincanto come La notte dei miracoli; l’amore di Anna e Marco che premia i diversi; lo stupore per ciò che sarà di Felicità; la potenza della lirica fuori dai luoghi d’èlite di Caruso.
Ho trovato le radici della mia laicità imparando a memoria Se io fossi un angelo; ho imparato a suonare la chitarra con gli accordi di L’anno che verrà; i miei 30 giorni di servizio militare sono finiti sulle note di Ciao.

L’ho conosciuto e incontrato così tante volte che, autografando i miei dischi, cambiò la dedica da “A Rosario” in a “A Rosario, amico mio”. Disse bonariamente che ero stato uno sfaccendato a buttare i miei risparmi per comprare i suoi dischi. Il ricordo più bello che mi lega a Lucio risale ad una sera d’inverno, al termine di una conferenza da Feltrinelli a Milano. Restai a parlottare con lui e la poetessa Alda Merini. Mi convinsi che si poteva essere grandi rimanendo piccoli.

A distanza di tempo, riesco ancora a sentirmi ciò che sono, perchè in tutti i miei traslochi c’erano gli album di Lucio Dalla a ricordarmelo. Sono felice di saper leggere l’italiano perchè senza il filtro di una traduzione posso arrivare nell’anima del suo canzoniere.

Don Peppino Gambardella, il prete di frontiera che si fece “operaio”

Abbiamo perso di vista i sacerdoti di frontiera, coloro che sanno togliersi la tonaca al momento giusto e dar voce a chi l’ha persa. In uno dei miei recenti viaggi, ne ho ritrovato uno. Il volto di don Peppino Gambardella era a me noto e non perché fosse finito alla ribalta per aver digiunato a favore degli operai della Fiat di Pomigliano D’Arco. In un certo senso aveva sfiorato per pochi istanti la mia adolescenza, quando a quel tempo incantava gli allievi con le sue lezioni di filosofia.
Gambardella non è il noioso predicatore che si compiace dei sermoni, è uno pratico, è uno che nelle omelie domenicali ci infila Dostoevskij perché  “la bellezza salverà il mondo”. Mentre i fatti di cronaca degli ultimi anni hanno raccontato il sacerdozio come prigione della perdizione, la bellezza di uomini come don Peppino Gambardella ne rispolvera la missione sociale. Questo prete del Sud, profondamente radicato nel suo territorio, ha restituito alla città di Pomigliano d’Arco, alla periferia di Napoli, l’identità rinnegata di culla degli operai.
Il canzoniere folk degli Zezi ci raccontava che erano stati loro a tenerla in piedi. In tanti lo avevano dimenticato, mentre “il paesotto” che ospitava Fiat e Alitalia viveva tra la fine degli anni ’70 e una parte degli anni ‘90 il suo rampantismo: come dimenicare i condomini radical-chic di piazza Primavera; i tuffi in piscina al Parco Fanfani; i raduni musicali estivi abitati dagli pseudo-intellettuali che la volevano roccaforte del jazz; la middle-class che si addolciva con i pasticcini di Antignani;  le passeggiate della gioventù alla ricerca di capi firmati tra le vetrine pacchiane del centro; lo struscio “goffo” nella nuova villa cittadina, che si vantava di essere l’Hyde Park della zona vesuviana.  E prima che finisse il regno del Bassolinismo a Napoli, si era già spento il “Pomigliano dream”. Erano stati messi nel sacco da un bel pezzo i trasformisti che la volevano alla pari di un quartiere blasonato di Napoli, senza tener conto che la provincia è condannata a rimanere provincia, con le sue contraddizioni, il falso moralismo, l’ipocrita apparenza.
Don Peppino Gambardella ha riscattato la sua comunità da questa visione distorta, restituendo nel gesto di quel “digiuno” l’ultima speranza, nonostante il quesito resti lo stesso: “La classe operaia andrà in Paradiso?”.
E la speranza è anche nei ragazzi che animano la parrocchia di San Felice in Picis, figli della semplicità di don Peppino, che già nei primi passi del suo sacerdozio indicava inconsapevolmente la strada per diventare angeli, prima che Lucio Dalla lo mettesse nero su bianco in una vecchia canzone:  “Se io fossi un angelo, non starei nelle processioni, nelle scatole dei presepi”.

Cartolina da Mostar

Il ponte di Mostar

Rosario PipoloCi sono posti che fai di passaggio, ma non è detto tu non abbia il tempo di scrivere una cartolina. Il percorso per andare a Mostar, nella profondità della Bosnia-erzegovina, è degno di essere filmato. Dopo una bell’alzata mattutina per prendere il primo autobus, neanche il sonno o gli sbadigli riescono a tenere a freno lo sguardo che si perde accostandosi al fiume Narenta. Avete presente il ponte in primo piano sulla copertina della guida Lonely Planet “Balcani occidentali”? Ebbene quello è il famoso ponte di Mostar, distrutto purtroppo durante la guerra in Bosnia e ricostruito per la gioia dei turisti! E’ difficile pensare che quella deliziosa città sia stata assediata per 9 mesi. I segni della guerra ci sono, ma si nascondono quatti quatti dietro la Stari Grad, la città vecchia, presa d’assalto dai viaggiatori di passaggio. C’è chi si ostina a fotografare il ponte da ogni angolo, c’è chi perde tempo a cercare un souvenir da portarsi a casa, senza spingersi oltre, nelle strade poco turistiche dove la vita normale ha voglia di raccontare altro.  Cosa c’è da aspettarsi da una città di passaggio? Che si svesta all’improvviso e ti faccia vedere le cicatrici. Mentre scrivo questo post, Lucio Dalla canta Ciao nel soggiorno di casa mia: “La spiaggia di Riccione, milioni di persone le pance sotto il sole, il gelato e l’ombrellone abbronzati un coglione, non l’hai capito ancora che siamo stati sempre in guerra anche il 15 a Viserba in guerra con noi stessi, tra video e giornali e noi sempre più lessi a farci abbindolare con la nostra indifferenza (…) Una canzone mentre la stai cantando di là qualcuno muore qualcun altro sta nascendo, è il gioco della vita la dobbiamo preparare che non ci sfugga dalle dita come la sabbia in riva al mare”.

Lucio Dalla

L’Anno Che Verrà
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Questa canzone mi riporta alla fine degli anni settanta e Discoring era la mia trasmissione tv preferita. Mi piace Lucio Dalla perché ha saputo cogliere diversi registri senza fatica. L’ho incontrato in diverse occasioni. E lui ha iniziato a firmarmi qualche album… al terzo ha detto: “Li hai tutti?”. Ed io con orgoglio: “Sì”. E lui ha modificato la dedica: “Al mio grande amico”. Che burlone Lucio!