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Nonni per sempre nella grande festa della vita

festa-nonni-2-ottobreLa mia vita è spaccata a metà. I primi 23 anni sotto la custodia dei miei nonni Pasquale e Lucia, gli ultimi venti senza di loro. Il dolore per la perdita immensa spettinò i miei vent’anni, li scapigliò e mi fece rendere conto che non avrei mai avuto bisogno di una festa dei nonni per ricordarli.

I nonni non si celebrano, si vivono, qualsiasi sia il rendiconto da pagare, anche quello di sovrapporli ai genitori. I parenti sono suppellettili, è legittimo svincolarsi lungo il corso della vita.
I nonni no, soprattutto coloro ai quali abbiamo consegnato la chiave d’accesso alla nostra nascita, infanzia, adolescenza, al nostro divenire uomini. E questo non perché li incoronai nonni  proprio con la mia nascita, all’alba dei loro cinquant’anni.

Non è questione di posizionamento, nonostante le dicerie popolane insistano che il primo nipote sia come “il primo amore”, non si dimentica mai. E’ questione di accoglierli nella propria vita come fari della quotidianità, senza ridurli alla coppia di anziani da andare a trovare qualche domenica a pranzo.

Ho lasciato che i miei nonni ingombrassero la mia vita con amore, saggezza, presenza quotidiana, coinvolgendoli in qualsiasi cosa facessi, senza l’odiosa soggezione che alza muri e barriere. Nonno Pasquale e nonna Lucia mi hanno fatto ricco, lasciandomi una grande eredità: i piccoli e grandi segreti di famiglia, un patrimonio della memoria per affrontare la vita e imparare a distinguere le persone mediocri da quelle altruiste, fatte di sostanza e non di apparenza gonfiabile.

Nonno Pasquale mi donò un’edizione del libro Cuore degli anni ’50, su cui aveva scritto il suo testamento: “Leggo e rileggo questo libro e più mi rendo conto che non tutti gli uomini sono cattivi verso il prossimo. Che Iddio non si dimentichi mai di me”. Dopo la sua scomparsa, nonna Lucia esaudì il mio desiderio di far scolpire queste parole sulla sua lapide.

Non ho bisogno della Festa dei Nonni o dei bagordi di una ricorrenza per fingere di essere stato un nipote premuroso. Loro restano sostanza del mio divenire e il vuoto vissuto per la loro perdita di allora si è trasformato nel dondolio di memorie e futuro. Ci ritroveremo un giorno, come se niente ci avesse mai separato, nella soffitta dell’eternità.

Nonno, il dolore che spezza i vent’anni

La condivisione del dolore unisce, stritola le distanze, riporta a galla la parte bella di noi. Quando quel dolore spezzò i miei vent’anni, lei girovagava ancora nel passeggino. Appena ho saputo che lo stesso dolore aveva spezzato i suoi, l’ho telefonata. Era all’università, è uscita dall’aula. Si trovava ad Ingegneria, a Fuorigrotta, negli stessi luoghi che mi appartenevano. Il dolore ha una propria geografia dei posti, che amplifica il ricordo delle persone che se ne sono andate per sempre. E i nostri sono esattamente gli stessi, lì nei Campi Flegrei, tra l’ospedale San Paolo e via Docleziano, tra Cavalleggeri d’Aosta e Bagnoli. Man mano che condividevamo certe sensazioni amare del distacco, della perdita, ritrovavamo le nostre domeniche speciali lì, che ci strappavano alla periferia per catapultarci nell’anonimato della città, dove ogni istante condiviso con loro aggiungeva un tassello alla nostra esistenza. Avrei voluto accompagnarla da sua nonna, il cui volto mi avrebbe ricordato quello della mia, in una buia notte d’autunno in cui le dissero che l’uomo amato per una vita intera se n’era andato. Avrei voluto accompagnarla per tornare ad essere nipote per un istante e nascondermi tra i capelli imbiancati di quest’anziana signora.
Riguardando lo scatto fotografico fatto assieme ad Annalisa, è come se questo identico dolore la avesse trasformata improvvisamente da ragazzina in una donna, l’unica con cui ho potuto condividere fino in fondo l’intensità di questo dolore. E adesso voglio prendere Annalisa per mano e camminare a lungo, fino a stancarci, lungo la spiaggia di Coroglio, con lo sguardo rivolto verso Nisida. Scomparirà l’odore di catrame del fantasma dell’Italsider di Bagnoli; la sabbia tornerà ad essere viva come quella sotto gli ombrelloni del Lido Pola negli anni ’60; le palme della Domenica Santa torneranno a benedire le famiglie come facevano loro; l’amaro del cioccolato fondente delle uova pasquali si scioglierà nella dolcezza di nonno Antonio e nonno Pasquale, che si sono conosciuti lassù e sono diventati inseparabili come due vecchi amici. Remeranno su una barchetta in mezzo al mare della loro Napoli, verranno verso me e Annalisa per sussurrarci che l’amore intenso procura dolore, ma anche la consapevolezza che i rapporti speciali si tuffano nell’eternità, per farci tornare ad essere autentici. E il mio sorriso e quello di Annalisa in questa foto è lo stesso che oggi hanno Antonio e Pasquale, i nostri nonni, che il mare ci restituirà tutte le volte che lo guarderemo.

L’11 luglio della Spagna campione: “Nonno, adesso non ci prendono più!”

Le date tornano e i calendari fanno i loro giri. L’11 luglio del 1982 l’Italia di Bearzot vinceva il Mondiale in Spagna. L’11 luglio di 28 anni dopo la nostra Nazionale consegna la sua coppa del mondo alla Spagna, per la prima volta campione del mondo. La furia rossa è entrata nella storia del calcio e adesso è giusto che questa fiesta vada avanti senza sosta, da Madrid a Barcellona.

Eppure quell’11 luglio era anche il mio primo Mondiale, stavo per spegnere nove candeline. Quando Alessandro Altobelli tirò dentro la porta della Germania il terzo goal, mi colpì il sussulto del Presidente della Repubblica Sandro Pertini: “Adesso non ci prendono più”. Nonno Pasquale mi abbracciò e mi prese in braccio, dicendomi: “Nel campo come nella vita è tutto un gioco fatto di rigori, punizioni, illusioni, sconfitte, vittorie, calci d’angolo”. Poi aggiunse: “Vedrai che quando tuo zio Massimo arbitrerà a livello internazionale, altro che una confezione di Orangina, ti porterà sul quel campo assieme a lui”. Poi arrivò il fischio finale e fu una grande festa.

Eravamo in vacanza a Fondi, in provincia di Latina. Nonno mi aveva regalato una bandiera a misura di bambino, plastificata, acquistata nell’unico bazar della zona: Peticone. Eravamo in aperta campagna. Mi prese per mano e corremmo giù, attraversammo i campi, ci nascondemmo per fare uno scherzo agli altri. Fu allora che mi ricordai della frase del Presidente e gridai: “Nonno, adesso non ci prenderanno più”. In quell’urlo c’era l’illusione infantile che nessuno ci avrebbe separati mai, che avrei condiviso con lui chissà quante cose ancora.

Da allora mi ostino a seguire ogni Campionato di Calcio, nonostante sia uno sportivo distratto perché dietro quel pallone i ricordi diventano più lucidi, costanti. Chi non ha memoria è solo un “morto vivente”. Ieri, dopo la vittoria della Spagna, a casa mia è tornata ad essere domenica. Il Dolby surround sparava al massimo l’euforia dei tifosi ed io sono corso alla finestra con una consapevolezza. Il Mondiale è un momento di condivisione, fatto di incontri, di persone che ritornano per farci ritrovare l’essenza della condivisione.

Io odio il lunedì perchè Pasquale Mautone se ne andò senza preavviso!

Stazione di Napoli - Cavalleggeri d'Aosta

Rosario PipoloMafalda, il personaggio a fumetti di Quino, odiava la minestra. Io odio il lunedì e non è mai stata una novità: come è pesante l’inizio della settimana! Questa mattina mi sono svegliato e ho visto che il 9 novembre cade di lunedì, proprio come diciassette anni fa. Quel lunedì non avevo impegni, non erano iniziati neanche i corsi all’università. L’unico appuntamento in agenda era imparare a declinare il dolore. Mi recai in un ospedale nel centro di Napoli e lui era disteso lì: immobile, non respirava, il viso pallido. Me ne andai, fiondandomi diritto in viale Cavalleggeri d’Aosta. Ero disperato. Chedevo a chiunque del quartiere se avesse visto passare un signore sulla settantina, capelli brizzolati, occhialuto, baffi. All’edicola sotto casa dissi che si trattava dell’uomo che tutti i giorni intorno alle 10 acquistava il quotidiano Il Mattino; a Pino il salumerie che era il tizio, nonostante l’ipertensione, che non avrebbe mai rinunciato ad una manciata di sale; al giocattolaio che era il tipo che tutte le domeniche mi comperava un paio d’occhiali da sole; a don Luigi, il portiere del numero 119 di Cavalleggeri d’Aosta, che era Pasquale Mautone, il condomino del  sesto piano. Nessuno seppe dirmi niente. Salii sopra e la casa era tremendamente vuota. Era vuota la sua poltrona, si era fermato l’orologio a pendolo che aveva scandito il tempo delle sue giornate; persino la stufa non sbuffava più. Fu in quel preciso istante che fui scaraventato a terra dal dolore e, ricordandomi che fosse lunedì, mi balzò in mente una sua riflessione: “Detestavo il lunedì. Svegliarmi con il terrore che non avrei venduto neanche un maglione.  Caricare sull’auto il bancone e avere a che fare con i clienti”. Corsi alla stazione della metropolitana di Napoli – Cavalleggeri d’Aosta. Mi risollevai quando sentii il fischio di una locomotiva e mi ricordai di quando mi portava a guardare  i treni: “Nonno – gli ripetevo – Voglio crescere adesso. Voglio partire su quel treno e vedere dove finiscono i binari”.  Ho percorso migliaia e migliaia di chilometri su quei binari. E non bisognava fare il ferroviere per capire che il dolore per la perdita di una persona speciale ti resta tatuato tutta la vita.

Helsinki e una vecchia foto del mio amico Pasquale Mautone

nonno1501Cosa hanno in comune Helsinki e Napoli? Praticamente niente, a parte il mare. Adesso queste due città così diverse si spartiranno una foto antica in bianco e nero: è quella di Pasquale Mautone, un mio vecchio e caro amico. L’ultima volta l’ho visto l’8 novembre 1992. Ci siamo salutati con un tenero abbraccio e la mattina dopo mi hanno avvisato che se ne era andato per sempre. Da allora porto con me quella foto. Nel mio 2008 ricco di viaggi, io come un pellegrino in Europa l’ho ritrovata nel taschino della giacca. A Helsinki fa freddo. In questa grigia domenica mattina finlandese mi sono fermato dinanzi al mare. E’ stato Pasquale a presentarmi il mare tantissimi anni fa, a Coroglio nel Golfo di Napoli, guardando l’isoletta di Nisida. E sono tornato davanti al mare, quello freddo del Nord, per ricordare la nostra amicizia: spontanea, sincera e ricca di complicità come quella del vecchio pescatore Santiago e il ragazzino Manolin, i due protagonisti di Il vecchio e il mare di Hemingway. Ho messo questa fotografia su una piccola barchetta, lasciandola galleggiare alla deriva, per iniziare quel viaggio mai fatto, ma che io e Pasquale Mautone abbiamo sognato per una vita intera. Caro Pasquale, oggi sono sedici anni che sei partito e per me non è cambiato assolutamente niente. Caro amico mio, in questa domenica ad Helsinki continuo a cercarti tra gli odori, le vie e il brusio della capitale finlandese perché aveva ragione Freddy Mercuri a cantare: “Gli amici saranno amici fino al fine”. Anzi, caro Nonno, adesso che mi ritrovo qualche capello bianco, mi convinco sempre di più che l’intensità del dolore giace negli abissi del cuore e dell’anima. Per fortuna c’è la memoria, la cui luce fa brillare il faro della speranza di ritrovarsi con un filo di voce e un sussulto del cuore. Mi manchi.