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Facebook e lo stupore di ritrovarsi sui social network

Rosario PipoloIn principio Facebook era “il libro delle facce” che fece ritrovare vecchi compagni di scuola e di università. Oggi è una macchina complessa tra business e voglia di “apparire” a tutti i costi, riuscendo anche a condizionare le nostre vite. Nonostante tutto, gli algoritmi del social network più amato e odiato del pianeta non hanno rinnegato le origini e così capita raramente di incappare in quell’insostenibile leggerezza dell’essere “social”: lo stupore di ritrovarsi.

Qualche tempo fa è sbucato dal mio archivio un biglietto su cui era scritto: “Grazie per questa bella esperienza che ci hai fatto vivere. Continua a rincorrere i tuoi sogni”. Risaliva ai giorni sepolti in cui racimolavo qualche soldo lavorando come animatore. La firma in fondo era della più timida del gruppo. Il mio occhio era caduto proprio lì, ripensando a dove fosse finita quella bambina che periodicamente la mamma accompagnava alle prove.

Ci sarà stato un corto circuito di natura “social” e così Facebook mi ha suggerito un contatto. Interessi in comune? Forse lo studio delle Lingue straniere. Stessa generazione? Assolutamente, no. Amici in comune? Qualcuno forse sì. La foto è un incanto e sembra un remake della natività. Una donna, con il profilo e il sorriso identici a quell della piccola Paola dei tempi che furono, sorride ad un neonato. Lo scatto condensa la gioia di una zia che sta dando il benvenuto al suo nipotino. E’ il futuro che vuole farsi coccolare dal presente? Forse sì.

Lo stupore di ritrovarsi ci rende tutti più autentici, persino quando un algoritmo si veste di umanità, molla il virtuale dei social network, allarga lo sguardo su un vecchio bigliettino ingiallito e ti restituisce un soffio tra i capelli della tua vita.

Diario di viaggio: I bambini ci guardano

Rosario PipoloAvevo pressappoco l’età di Joseph quando vidi la prima volta il film di De Sica I bambini ci guardano. Quel titolo mi rimase impresso e me lo sono ritrovato spesso tra i piedi. Joseph – anglofonizzai il suo nome di battesimo appena lo vidi girovagare per casa a carponi – nacque qualche anno dopo il mio trasferimento a Milano. Conosco sua madre da quando aveva 13 anni e andavo a trovarla con la mia vespa rossa.

Joseph è cresciuto vedendomi comparire a casa sua di rado. Non ero un viso assiduo e riconoscibile. Fino a poco tempo fa pensavo di essere stato negli anni della sua crescita una comparsa. Mi sbagliavo. Il mio andare e venire mi aveva fatto dimenticare una piccola verità: I bambini ci guardano, appunto. Tre anni fa trascorsi una serata a casa sua. Mi staccai dal gruppo e me ne andai nella sua cameretta. Mentre lui giocava alla playstation, gli parlai di me, gli raccontai di ciò che avrei dovuto fare e non riuscivo più a fare. Era tardi ormai. Joseph interloquiva con me, ma mi parlava di tutt’altro: dei suoi giochi, della noia dei compiti nelle vacanze, di sua madre che era in soggiorno con gli ospiti.

Qualche settimana fa mi sono ritrovato Joseph alla presentazione del mio libro. Lo osservavo mentre mi ascoltava. Era proprio lui, era diventato un ometto. E quado abbiamo fatto la foto assieme, mi sono ricordato che “i bambini ci guardano”. Ed è come se il figlio della mia amica avesse compreso che, tra le pagine del mio romanzo, fossero assiepate le confidenze che gli avevo fatto anni addietro. L’indomani sono passato a casa di Joseph. Prima di andare via – non lo aveva mai fatto prima – mi ha afferrato per un braccio e mi ha rimproverato: “Adesso riparti. Quando ritorni?”. Per la prima volta da quando lo conosco, Joseph aveva mollato i suoi giochi e le sue cose per trattenermi.

I bambini ci guardano, appunto. Io e Joseph eravamo cresciuti assieme ed avevamo condiviso un dolore comune: il distacco da ciò che ci apparteneva. Con due significati diversi era successo quando avevamo cambiato casa. Io e il piccolo Joseph non eravamo più comparse, ma eravamo tornati ad essere protagonisti della reciprocità del nostro legame.

I bambini ci guardano, appunto. Mi sono voltato e ho visto scomparire Joseph dietro il cancello. I suoi occhioni scuri mi hanno sussurrato: “Stringi i denti. Vai, insisti. Chi ama, non sbaglia mai.”

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Il voltafaccia ai tempi di Facebook

Rosario PipoloIl voltafaccia su Facebook è una ricorrenza di questi tempi. Una volta accadeva in strada, oggi nei vicoli dei social network. Quello più subdolo non riguarda la persona con cui abbiamo tagliato i ponti, ma il contorno. Si tratta di coloro che si intrattenevano a parlare con noi, sull’amaca dei sorrisi compiaciuti, delle pacche sulla spalla, della battuta facile, del “vediamoci più spesso”.

Poi ecco che arriva il primo taglio. Una volta lo notavamo per strada, perché il voltafaccia avveniva con gradualità: prima facevano finta di non vederci, poi fingevano di parlare al cellullare guardando avanti e, infine, passavano alla scelta più drastica, come a dire “chi ti hai mai visto prima”. Con l’avvento dei social network, Facebook ha dettato le nuove regole del voltafaccia, che corrispondono all’ eliminazione dagli amici.
Quelli più “quaquaraquà” però ci arrivano gradualmente con delle fasi intermedie. Basta giocherellare con i tasti della privacy e oscurare la bacheca a pezzetti. La maggior parte anticipa la censura di status e foto con un’altra azione: rendere invisibile la lista degli amici. Insomma, al massimo ci sarà concesso di capire quali siano quelli rimasti in comune.

Quale miglior pretesto per dare una bella sforbiciata alla nostra lista di contatti facebookiani? A parte il gusto di far numero, è inutile avere tanti nomi appesi, di cui magari non ricordiamo neanche il viso. Del resto, come accade in ambito culinario”, il “contorno” non è un piatto indispensabile e se ne può fare a meno, a qualsiasi pietanza appartengano le verdure grigliate.
Le azioni sui social network non fanno rumore, perchè abitano nello spazio invisibile della nullità. Ha valore il rumore dei passi che sentiamo dietro la porta, prima che si riapra, restituendo ad ogni legame il proprio ruolo e significato.