Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Faccia a faccia con Lou Reed, soggezione on the wild side

Rosario PipoloLo incrocio. Io e Lou Reed siamo faccia a faccia. Da un lato c’è l’amore Laurie Anderson. Dall’altro c’è l’amica italiana da una vita Fernanda Pivano, che lo tiene per mano. Nanda mi riconosce e mi sorride. L’avevo intervistata qualche settimana prima alla Fnac di Milano. Lui da dietro gli occhiali scuri mi mette un sacco di soggezione. Poi si infilano tutti e tre in un’auto e volano via.

The walk on the wild side non è un brano qualunque come quelli che si ascoltano, si consumano e restano lì impolverati sull’iPod. E’ il richiamo per far uscire dai nostri abissi quella parte “selvaggia” che abbiamo sottomesso alla routine tra rinunce e vivere per apparire. Maledizione a noi che ci siamo cascati. Maledizione a noi che abbiamo pensato che un elettroshock ci avrebbe redenti per uscire vivi dalle fiamme dell’inferno. Ci avevano provato prima con Alex in Arancia Meccanica e poi con il leader bisessuale dei Velvet Underground, che cantò il suo dolore in Kill your sons.

Lewis Allan Reed e le sue poesie trasfigurate in rock dalla pelle jazz e blues. Lewis Allan Reed e quelle contorsioni di basso che stendevano la ribellione di una generazione su un tappetto di velluto. Lewis Allan Reed e la banana di Andy Warhol, sulla copertina del mitico LP dei Velvet, che gli intellettuali avrebbero dovuto ficcarsi nel sedere. Lewis Allan Reed e le follie dei poeti maledetti, saccheggiando pagine di letteratura nei riflessi dell’oscurità di Edgar Allan Poe. Lewis Allan Reed e l’amore che si snocciola nella compostezza divina e lo lega per sempre alla musa Laurie.

Doo, doo-doo, doo-doo, doo-doo-doo. Abbiamo camminato con il fiato sospeso on the wild side e ci siamo presi la nostra fottuta rivincita. E’ stata una delle poche volte in cui la poesia ci ha girato le spalle, lasciandoci addosso il tanfo del rock. Doo, doo-doo, doo-doo, doo-doo-doo. Senza rimpianti né pentimenti, ci mancherai Lou!

50 anni di Rolling Stones: da un’audiocassetta al concertone con 15 euro!

Negli anni ’60 o stavi con i Beatles o con i Rolling Stones. Non esistono le mezze stagioni, nella musica come nella vita. Per la mia generazione è stato diverso. I Beatles si erano sciolti da un bel pezzo, mentre Mick Jagger e compagni con alti bassi continuavano a darci dentro, anche in maniera pesante.
I Rolling Stones festeggiano 50 anni in questo afoso 12 luglio. Per me questo non è il solito anniversario nostalgico, annacquato dal marketing della discografia musicale, ma la solita scusa per propagandare che certi brani balzano di striscio nella nostra vita e ci cambiano dentro.

Ho conosciuto gli Stones attraverso un’audiocassetta Maxell 60 che mi fece ascoltare Bob Bridger nel 1988. Succedeva proprio in questi giorni: era il mio primo viaggio in Inghilterra, a Ramsgate nel Kent. Sul lato A c’erano i Beatles e su lato B gli Stones. Ero un adolescente irrequieto e romantico, mi attaccai alla gonnella delle canzoni dei baronetti di Liverpool. Eppure Mick Jagger e compagni non mollarono mai la presa, me li ritrovavo sempre, soprattutto quelli degli anni ’70, che nel mio ciclo universitario fecero da scudo a chi invece, tifando per il rock grezzo e potete del Vasco di Zocca, diceva che le canzoni andavano ascoltate in italiano.
Cavolo, figurati se uno studente come me di Lingue Straniere si sarebbe sottomesso ai ricatti linguistici. Io la pensavo in tutt’altro modo: anche se non conoscevi l’inglese, certe canzoni aggressive dei Rolling Stones si scioglievano dentro di noi come l’acido. Per loro rischiai l’ultimo esame di Inglese all’Università: dinanzi ad una mini partitura tra le prime pagine dell’Ulisse di Joyce, me ne uscii con questa affermazione: “Se Joyce fosse venuto parecchi decenni dopo, forse qui ci avrebbe piazzato una canzone dei Rolling Stones per esprimere lo smarrimento di Leopold”.

Forse il prof. fece finta di non sentire e non mi buttò fuori dall’aula. Quando li ho visti dal vivo a Milano l’11 luglio del 2006, acquistando il biglietto a 15 euro e beffeggiando chi voleva far passare la musica live come roba da ricchi – scrissi alla fine della recensione: “Fuochi d’artificio, lapilli di luce, schegge irrazionali per dirci che l’incantesimo è finito, che per una volta ci siamo sentiti invincibili perché abbiamo varcato la soglia dell’eternità. E se questo è stato un sogno, un sogno collettivo adesso appartiene a tutti. Teniamocelo stretto”. Mezzo secolo ce lo siamo fatto scivolare dalle dita con errori e mostruosità. I sogni e le canzoni però teniamoceli stretti e non solo nel giorno di un compleanno.

The Wall dei Pink Floyd, 30 anni dopo

Dopo 30 anni dall’uscita, The Wall continua a dividere i fan dei Pink Floyd: c’è chi lo considera un capolavoro, c’è chi lo trova un ripiego commerciale. I primi video di questo doppio concept album li ho visti su Italia 1, nei primi anni ’80, all’interno del programma cult DJ Television, orchestrato da Claudio Cecchetto. Io faccio parte dei primi, quelli che lo considerano un piccolo gioiello, con la consapevolezza che i Pink Floyd si fermano qui. David Gilmour era la musica, Roger Waters l’anima letteraria della band. Ogni volta che riascolto The Wall  in vinile, mi sembra di individuare altri spunti riflessivi. Al di là che il disco sia diventato il simbolo del Muro di Berlino, mi pare che gli assilli di Waters siano ancora molto attuali: alienazione e solitudine. Nonostante i social network stiano cambiando il nostro approccio ai rapporti interpersonali, quei due stati d’animo continuano  a dannare pure la generazione di YouTube, che ascolta musica con la voracità di chi vuole consumare a tutti i costi. La partitura  di The Wall, nonostante sia roba del 1979, sembra musica scritta ieri, pronta a legare le ombre della storia ai paradossi del presente. Qundo da ragazzino ho ascoltato l’album, il giorno dopo non sono stato più lo stesso dietro i banchi di scuola: ribelle al nozionismo, allergico all’imposizione del “precettore” modello. E poi si dice che un disco non ti possa cambiare la vita, anche se in parte. Riascoltandolo in occasione di questo compleanno speciale, ho ritrovato la vera spiritualità di The Wall: la presa di coscienza che ognuno ha i suoi muri, che lo rendono prigioniero dello scorrere della vita. Perché restare indifferenti? Perchè non abbattere le barriere e sovrapporre più stati d’animo? Ci vuole coraggio e sacrificio, ma la vita può tornare a sorriderci.