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Cara Amatrice, mi fa tremendamente orrore…

disegnorosario_pipolo_blogMi fa tremendamente orrore tornare dal Giappone, un Paese che fatto della prevenzione un cardine della sua civiltà, e trovarmi nell’Italia ferita dal terremoto micidiale di Amatrice.

Mi fa tremendamente orrore osservare ai funerali di Stato le stesse facce provenienti dalle fila delle istituzioni che hanno consentito, sottobanco, che si speculasse sulla vita della gente.

Mi fa tremendamente orrore riprendere la vita di tutti i giorni nell’Italia fatta da sciacalli che costruiscono case e scuole di cartone, senza vergogna, in una penisola sismica come la nostra.

Mi fa tremendamente orrore appoggiare gli occhi su queste bare, riascoltando il playback dei medesimi sermoni che le istituzioni hanno tirato fuori dopo i recenti terremoti di L’Aquila e Finale Emilia.

Mi fa tremendamente orrore pensare di appartenere a questa Italia che, senza un minimo di vergogna (dimenticavo che anche quest’ultima stata barattata tra le fila dei corrotti), si è disfatta del ricordo degli angeli di Umbria e Marche del sisma del ’97 o dei bimbi dello sfacelo di San Giuliano di Puglia, in Molise, del 2002.

Mi fa tremendamente orrore vederli sfilare con gli elmetti e quell’aria spavalda da campagna elettorale, perché questo Paese non ha più bisogno del cliché del presidente operaio e dei suoi simili.

Mi fa tremendamente orrore pensare che ci saranno altri sismi di questa portata e noi saremo impreparati, perché abbiamo permesso a miserabili assassini di più generazioni politiche di sperperare il nostro denaro pubblico.

Terremoto in Emilia-Romagna: La sicurezza si paga con il sangue

La prima nozione di geografia appresa alle scuole elementari fu: L’Italia è un paese sismico ed quindi soggetto a terremoti”. Questa pappardella mise la pulce nell’orecchio a tutti gli scolaretti che come me vissero il disastroso sisma dell’Irpinia del 1980. Io fui un bambino fortunato rispetto a tanti coetanei: la mia casa subì soltanto qualche lesione e non ci furono vittime tra i miei familiari.

Vivo in un paese smemorato e di questo ne sono consapevole ogni giorno che passa. Ci piangiamo addosso? All’occorrenza. Non sono bastati i campanelli d’allarme degli ultimi trent’anni – i terremoti in Umbria, Marche, Molise e Abruzzo – a farci prendere coscienza di prevenzione ed intervento.

Nei giorni bui che stanno facendo tremare l’Emilia-Romagna, sarà tornata agli ambientalisti la pappardella fatta inghiottire dalle nostre maestre e continuano a civettare per la messa in sicurezza del suolo italiano. Ci vorranno 15 anni, giusto la metà del tempo che i precedenti governi hanno utilizzato per sperperare soldi e portare avanti opere pubbliche inutili. Senza contare il peso sulle coscienze dei vecchi gendarmi della Prima Repubblica, che misero i terremotati dell’Irpinia per vent’anni tra le mura impietose di una baraccopoli, mentre loro se la spassavano in ville lussuose.

Infine, però lasciamoci con un appunto in merito a “la sicurezza”: il buio era già oltre la siepe quando gli operai sono tornati sul posto di lavoro e hanno trovato la morte. Non era stato fatto alcun controllo sull’agibilità delle strutture dove erano in corso attività produttive. E non raccontiamoci frottole: chi è tornato a lavoro lo ha fatto per scacciare il terrore di restare disoccupato ancora una volta ed essere vittima dell’ennesimo ricatto sociale.
Sembra azzeccata la riflessione di John Lennon: “Lavoro è vita. E senza quello esiste solo paura ed insicurezza”. E questa volta per aiutare i terremotati dell’Emilia-Romagna non basterà un sms da 2 euro o acquistare una forma di Parmigiano che stava andando a male. Gli aquilani ne sanno qualcosa.

8 marzo, festa della donna: Volevo raccogliere un mazzolino di mimose a L’Aquila

Volevo fiondarmi per le strade diL’Aquila e raccogliere un mazzolino di mimose per questo 8 marzo. Non era una scusa per allontanarmi da Milano e dal solito tamtam, ma il desiderio di riflettere sulla festa delle donna nel capoluogo abruzzese.
Che illuso sono stato. Neanche il tempo di tracciare un itinerario decente che mi ricordo in che Paese io viva: una parte dell’Italia che sa come lavarsi le mani sottobanco, dopo che un terribile sisma ha seppellito i sogni e gli averi di tutta una comunità.

A tre anni dal terremoto che ha messo in ginocchio l’Abruzzo, pensavo di calpestare prati fioriti e invece ci sono macerie. La primavera non arriverà neanche questa volta. E se provassi a scavare come un forsennato, perché mai dovrei trovare l’ultimo ciuffetto di mimosa?
Mi affaccerò nelle case sventrate per raccogliere ritagli di diario delle donne che sono state vittime del terremoto: mamme che scrivevano di come fosse complicato restare punti di riferimento per i figli ; mogli in attesa che i mariti, vittime della scappatella maledetta, tornassero al nido per ammettere che l’amore vero dormiva ancora sotto le lenzuola rinnegate; nonne dagli occhi lacrimanti persi negli scatti di gioventù; bambine, a ridosso dell’ultimo respiro, schiacciate sul volto sfigurato delle proprie bambole di pezza; studentesse universitarie sul terzultimo ripasso prima del grande esame.

Mi sento un uomo inutile in questo 8 marzo. Oggi, spalancando la finestra sotto il cielo di L’Aquila, non vedremo il manto di rose rosse germogliato al posto della memoria oltraggiata. Accadrà tutto sotto le macerie.

Terremoto in Abruzzo, si dimetta Bertolaso

terremoto150In Italia siamo pronti a piangerci addosso quando il guaio è fatto. Il terremoto in Abruzzo è sicuramente un altro brutto colpo che riporta a galla una nozione dimenticata. Io me la ricordo ancora la mia maestra in cattedra a ribadire che “l’Italia era un paese sismico”. C’è stato qualcuno a ricordarcelo per evitare la catastrofe ed è stato pure denuciato. E’ un paradosso in stile Belpaese da far rabbrividire. Giampaolo Giuliani, ricercatore sul Gran Sasso, aveva annunciato un “sisma disastroso” e il capo della protezione civile Guido Bertolaso lo aveva etichettato tra “gli imbecilli che si divertono a diffondere notizie false” (la notizia è sul Corriere.it del 6 aprile).  E’ davvero grave se un terremoto si può prevedere e non si fa niente per tutelare i cittadini, nemmeno in un disastro di così larga misura. Mentre l’Abruzzo piange le vittime, l’Italia dovrebbe indignarsi di fronte a questa vicenda spiacevole  e il capo della protezione civile chiedere le dimissioni. In un paese civile succede così, ma nel Belpaese cialtrone la tendenza è incollare “il culo” sulle proprie poltrone.

23 novembre 1980, l’Irpinia trema

Il 23 novembre 1980 era una domenica. Abbiamo avuto il tempo di aspettare mio padre per cena. Alle 19.25 la terra ha iniziato a tremare con prepotenza, mentre io e mia sorella vedevamo i giocattoli saltare da un punto all’altro della nostra cameretta. Mio padre ci ha collocati sotto l’arco di una porta, ma non mi sono reso conto che la nostra vita era in pericolo. In quel preciso momento, l’Irpinia, la parte centrale della mia regione, veniva seppellita da un catastrofico terremoto. Per fortuna a Napoli i danni sono stati contenuti, mentre migliaia di persone sono rimaste senza tetto per tanti anni, piangendo il lutto di una tragedia mai dimenticata. Da allora il 23 novembre alle 19.25 mi fermo in silenzio: ricordo, prego, rifletto. Mi sono messo alla ricerca di “una preghiera laica” e l’ho trovata nei versi di un’intensa pubblicazione: Irpinia chiama del poeta Guerino Levita. Ho avuto la fortuna di conoscerlo in una scuola media di Acerra, in provincia di Napoli, in una mattinata autunnale del 1986. Mi ha donata una copia del libro, da cui non mi sono più separato. Levita è un poeta da antologia, la cui scrittura semplice e immediata raggiunge un impatto emotivo davvero sorprendente. Attraverso quelle poesie mi sono cucito addosso piccole storie tra l’amicizia di un cane e un bambino o i piccoli sogni di alcune ragazze di Sant’Angelo dei Lombardi. Ho capito quanto fossi stato fortunato a ritrovare i miei giocattoli allo stesso posto. Ancora oggi, sarò puntualmente con le pagine di Levita tra le mani per frugare in quel ricordo e per convincermi sempre di più che cantori come “il poeta di Acerra” non hanno bisogno di popolarità editoriale, ma di lettori predisposti a raccogliere lapilli di memoria, per non dimenticare.