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Archives Giugno 2011

Facebook per Alberto Bonanni, il musicista pestato a Roma

A Milano i maxi concerti sono nelle mani di ridicolo comitato anti-rumore, a Roma invece si finisce ammazzati se si suona. Insomma, spero di non rischiare anche io di brutto, quando la sera faccio sobbalzare (scherzosamente ed educatamente) il mio vicinato con la musica di Pearl Jam, Ac/Dc e Led Zeppelin.
Ad Alberto Bonanni, un giovane musicista di 29 ani, è andata davvero male. Era in un locale di Monti, nel cuore della capitale, quando è stato picchiato brutalmente da un branco di giovani. Perché? Un uomo era sobbalzato dal balcone, lamentando lo schiamazzo e inseguendo Bonanni con un bastone. La serata musicale a The Saylor’s si è trasformata in un incubo e questo pestaggio brutale è un altro segno dell’incoerenza e della prepotenza che si aggira nelle sere d’estate nelle nostre città
Alberto è in fin di vita ed si parla addirittura di “morte celebrale”. E questa volta a supportare gli agenti nella ricerca di quei maledetti assassini è stato proprio Facebook. Infatti, grazie al social network abitato da 20 milioni di italiani sono riusciti a risalire ad uno dei colpevoli, che ha ridotto in questo stato il chitarrista romano di una delle Tribute band degli Iron Maiden.
Intanto, su Facebook è stata presa d’assalto la pagina “Suonare per Alberto Bonanni pestato a morte a Roma” dove si segnalano diverse iniziative per dire basta a questi atti di violenza. Alberto non aveva fatto lo scassinatore di timpani, ma aveva appena smesso di suonare. Sulle corde di quella chitarra appesa ad un chiodo, chi strimpellerà i sogni di una vittima? Dove c’è musica, c’è socialità. Dove c’è socialità, c’è vita.

No, Vasco, no! Il rocker di Zocca vuole ritirarsi ed è rivolta su i social network

Un vero fan dovrebbe mettere da parte l’emotività e dire le cose come stanno. Mentre su Twitter lo slogan di questo lunedì è “Vasco, come faremo senza di te?”, fa discutere la notizia a sorpresa: Vasco si ritira e non farà più concerti dal vivo. Uno scherzetto dei primi giorni d’estate o il rocker italiano fa sul serio?
Dicevo che un vero fan dovrebbe mettere da parte la sfera emotiva: nell’ultimo tour abbiamo visto Vasco sottotono. Certo non è più quello di una volta da un bel pezzo, ma Morgan c’è andato giù troppo pesante a farlo morire artisticamente a 27 anni. Se l’ex Bluevertigo voleva fare il maestrino in cattedra, avrebbe dovuto allungargli la vita almeno fino ai 38, quando in classifica impazzava Liberi Liberi, l’ultimo album prima di un altro cambio di stagione. Il popolo di Facebook vascolizzato è troppo giovane per ricordare il battito del rock grezzo dei primi tempi.
Tuttavia, mi piace ribadire che un rocker è il vero “poeta maledetto” della musica e, pure senza l’auspicio degli dei, dovrebbe continuare a salire sul palco fino allo sfinimento. Un musicista ha il diritto di andare in pensione e allo stesso tempo il dovere di stare zitto se non ha più niente da dire.
Vasco è poco credibile quando si mette a fare il predicatore – il sermone a San Siro sugli ubriachi del sabato sera è stato fischiato – ma continua a far furore quando impugna il microfono, perché il fan è disposto a perdonargli la nota stonata di turno, il corpo affaticato, la voce sempre più roca.
“E già” sarà pure eletto motivetto della stagione calda, ma tra le sillabe di “sono ancora qua” nasconde un sibillino campanello d’allarme: la consapevolezza di chi non vuole tirare a campare. E il fan vascolizzato, scalciando l’emotività, lo avrebbe dovuto già capire da un pezzo che questo è lo stato d’animo di una rockstar di mezza età.

Amaranto: Ho fregato a Daniel la T-shirt dei Clash!

Ci sono due abitudini che mi rendono bizzarro per strada agli occhi dei passanti: ascoltare musica con le mie cuffie giganti o leggere un libro passeggiando a passo svelto. La prima è quotidiana, la seconda è rara, anche perché rischierei davvero di finire sotto un’auto. L’ultima volta è capitato dalle mie parti, attraversando il centro storico di Napoli. Ho tirato fuori dalla borsa Amaranto di Marianna Grillo ed ho scoperto che Daniel, uno dei protagonisti del romanzo edito dalla Demian, faceva il mio lavoro, ma con una differenza: io ho fatto le valige per cercare fortuna altrove, lui invece ha lasciato Londra ed è venuto a Napoli per fare il giornalista. C’era lo zampino di una donna… perchè il più delle volte l’universo femminile ridisegna la geografia della nostra vita.
Imbambolato ad un semaforo, mi sono guardato attorno per cercare Daniel e chiedergli: “Io non avrei mai fatto marcia indietro per nessuna donna e senza alcuna condizione. Perché sei venuto nella mia città?”. Mentre per il protagonista di Amaranto “il Vesuvio era un imbuto nero, dava la sensazione di un flagello sedato”, per me l’immagine di quel vulcano era legata ancora ai colori di quello esplosivo di Andy Warhol, prigioniero tra le mura del Museo di Capodimonte. Era forse l’amore “cieco, egoista e possessivo” di quell’inglese a dargli una visione così diversa dell’ambiente circostante? Io neanche volevo crederci ai cumuli di immondizia sparsi per la città e pensavo fosse un altro scherzetto dei napoletani per mettermi di cattivo umore.
Rotolando tra le parole del romanzo di Marianna Grillo, mi sono reso conto di essermi perso per strada la fisionomia di Caterina e Valeria, le altre due muse di Amaranto. E questo perché in quella mattina da turista napoletano non lo avrei mai trovato Daniel, anche se avessi setacciato tutti i vicoli della Sanità. Un bel racconto ti appiccica addosso ciò che il tuo stato d’animo ti suggerisce all’istante. Perciò indossavo una T-shirt dei Clash, era quella che avevo fregato a Daniel. Non fate gli spioni, non glielo dite a Marianna Grillo!

Il Teatro Segreto di Ruggero Cappuccio: La lezione che segnò la mia vita

Tutto sommato il finale di partita di una fetta della mia vita non si giocò agli esami di maturità, ma l’anno dopo su un palcoscenico. Ad aprirmi la strada fu proprio il Teatro Segreto di Ruggero Cappuccio. Nel ’93 a Napoli molti si erano fermati sulla sponda drammaturgica di Moscato, Ruccello e Silvestri. Pochi di noi avemmo fortuna e attraversammo senza accorgercene il nuovo rinascimento drammaturgico, quello che diede le prime scintille con Delirio Marginale, premio IDI 1993. Attraverso la penna di Cappuccio ritrovammo storie e personaggi sepolti dalla volgarità del nostro tempo.
Dicevo la mia partita si giocò tutta lì, durante una prova generale, da allievo su quel palcoscenico. Ruggero Cappuccio si alzò dalla seggiola e fermò le prove. Salì sul palco, mi guardò diritto negli occhi e disse con tono severo: “Persino un controscena, senza una battuta, ha il suo valore. Basta un dito fuori posto e sarai condannato ad essere guitto per il resto della vita”. Attraversò il teatro con il sigaro fumante e scomparve nel buio.
Quella per me fu come una sberla, ma ne compresi il valore tempo dopo. C’era una sacrosanta verità, che trasformò me e i miei compagni di scena in uomini di teatro, destinati a dare un senso alle nostre esistenze fuori o oltre il sipario. Quel regista e drammaturgo, attraverso il suo Teatro Segreto, ci aveva difesi e protetti dal divismo amatoriale che dilaga ovunque oggi come allora, professato dalla maggior parte dei poveri illusi, destinati ad essere messaggeri di volgarità.
Quando ho visto in Shakespea Re di Napoli il corpo di Claudio Di Palma imprigionato in una cornice, mi sono convinto che la visione di un universo drammaturgico può essere localizzato ovunque – anche all’ombra del Vesuvio Shakespeare alita il suo spirito – così come l’impasto della scrittura si denuda in eternità sotto più sembianze. E la lava che travolge i protagonisti di Fuoco su Napoli, l’ultimo  e acclamato romanzo di Ruggero Cappuccio, mi riporta proprio nella landa della mia infanzia, i Campi Flegrei, dove ho vissuto la paura che il bradisismo capriccioso di Pozzuoli potesse spazzarci via prima di quanto credessimo e farci diventare personaggi dell’ultima tragedia sul Golfo di Napoli. Non è uno stonato gioco di parole: su quel palcoscenico molti scomparvero da personaggi, in pochi invece cominciammo ad esistere, perché Cappuccio ci svelò attraverso il teatro il primo segreto della vita. E quella lezione segnò la mia per sempre.

Abitare nel tempo: l’arredatore ritrovato

C’è il sole, tutti a mare ed io invece faccio il solito stravagante. Finisco in un delizioso negozio di arredamento e lo ritrovo tutto per me. Mi tuffo su un lettone rotondo in esposizione e giocherello con l’iPad, senza accorgermi di essere in vetrina. Insomma, desto la curiosità dei passanti, che pensano sia rimasto prigioniero in una domenica pomeriggio sulla soglia della calda stagione.
Invece no, ci sono capitato di proposito per ritagliare una pagina del mio diario: quell’estate di trenta anni fa e passa in cui mamma e papà mi portarono a scegliere la cameretta. Osservando i due titolari di Abitare nel Tempo di Assago che guidavano una giovane coppia nella scelta del proprio arredo, mi è tornata alla mente quella scena e ho pensato: adesso che siamo diventati tutti “pazzamente ikeizzati”, se fossi nato in questi anni mi sarei trovato immerso nel marasma dell’Ikea a scegliere il lettino e l’armadio. Insomma, è finita l’epoca della consultazione e presi dalla voglia matta del low cost a tutti i costi ce ne sbattiamo del resto. Ormai si va per l’omologazione e in molte della case che vado mi ritrovo la solita libreria Billy.
Senza togliere nulla al design svedese, forse dovremmo tornare ad affacciarsi dai mobilieri nostrani che si sforzano di ritrovare un equilibrio tra qualità e prezzo. Abitare nel tempo mi ha restituito un ricordo, quello di un giovane arredatore partenopeo che diede alla mia cameretta un’impronta che andasse al di là del tempo in cui l’avrei vissuta, lontana dalla crudele filosofia dell’usa e getta. Sarà pure una visione eccessivamente poetica, ma preferisco restare “prigioniero” nell’esposizione di quella vetrina e spacciarmi per l’under 40 anti-Ikea che fa l’impostore e rivaluta un mestiere dimenticato: l’arredatore.

Rivolta Battiquorum? No, Maestà. Questa è rivoluzione social!

Luigi XVI fu sciocco fino alla fine. Quando il popolo riuscì a mettere le mani sulla Bastiglia il 14 luglio 1789, chiese con quella flemma disgustosa: “E’ una rivolta?”. Gli risposero: “No, Maestà. E’ una rivoluzione”. Mi sembra che certi umori si ripetano. L’urlo della rete che ha sognato il Battiquorum è stato ridimensionato. Tolta qualche riflessione sparsa, dilaga una convinzione: la rivolta digitale ha fatto da supporto ai metodi tradizionali per il raggiungimento del quorum (non accadeva da 16 anni), quelli dei movimenti referendari, dei partiti politici o dei volontari sparsi in Italia sotto i gazebo.
Non è così, nonostante si voglia ridurre tutto nell’ottica di uno sgambetto al governo. Per qualcuno sarà stato pure uno sbalzo di pressione anti-berlusconiana, ma non commettiamo l’errore del sovrano francese. Questa è una rivoluzione social. Di mezzo non c’è semplicemente Internet, ma la sfera social del web, che mette a tacere chi spaccia ancora i social network per covi di ragazzini o fancazzisti. Intanto, i numeri ci dicono che in Italia il popolo di Facebook abbia raggiunto i 20 milioni di utenti unici. Tolti da mezzo coloro che si dilettano a postare inutili o mielose frasette fatte, c’è una popolazione consistente che davvero potrebbe decapitare i sovrani sgraditi. Diciamoci le cose come stanno. Noi italiani non siamo né i francesi delle banlieue né gli indignados di Porta del Sol per restituire alla “piazza” il valore di unione che abbatta ogni frontiera sociale, culturale, politica, religiosa.
Tuttavia, nella rete sociale si è riversato quella radice civica, che va oltre il nostro naso. Nelle settimane precedenti al Referendum del 12 e 13 giugno  a palleggiare il battiquorum da una bacheca all’altra di Facebook si sono ritrovati leghisti e comunisti, fricchettoni di destra e anarchici, bigotti clericali e proletari, bacchettoni e smanettoni, italiani e stranieri trapiantati nel nostro Paese.  Luigi XVI non distinse una rivoluzione da una rivolta e fu decapitato.  Sotto a chi tocca?

Diario di viaggio: ancora una ninna nanna per Miriam

A San Colombano a Lambro ci sono finito per caso. Il solito vagabondaggio a seguito di quell’innata malattia che è in me: scendere e salire da un posto senza spiegarti come ci sei capitato. E lì non c’ero andato per braccare Gianluca Grignani – tutti pensano che chi faccia il mio mestiere sia sempre alla ricerca di storie – ma per il tipico fuori programma, che trasforma ogni mia tappa in una sorpresa. Non mi ero soffermato né sulle bancarelle del paesotto ai confini del milanese né sulle mura suggestive del castello. Osservavo lei che sorseggiava il suo drink, con le sue unghie smaltate di verde, con una ciliegia rossa che danzava tra le sue dita.
Puoi impiegare una vita a dimenticare, ma un attimo a ritrovare un ricordo: quella sera di quasi venti anni fa restai a cena dal mio migliore amico. Arrivò la notizia che un brutto male aveva strappato la cugina dalla giovinezza. Io e lui eravamo convinti che la vita non potesse sbatterti la porta in faccia nel bel mezzo dei vent’anni. Un grido di dolore e rabbia arrivò così in fretta dalle montagne di Domodossola che noi non smettemmo di chiederci: “Cosa ne sarebbe stata di quella bimba che sgattaiolava per casa? Come glielo avrebbero spiegato che la mamma non sarebbe tornata più?”.
Prima che il sole calasse a San Colombano, guardandola negli occhi ho capito che la ragazza di fronte a me era la stessa bimba a cui avevano strappato la mamma. Mentre attraversavamo in auto il lodigiano, ho avvertito quanto la bassa padana le avesse restituito a mano a mano  la maternità smarrita, attraverso un legame speciale con la terra in cui è cresciuta.
Lei si faceva chiamare scherzosamente “magotta”, ovvero con quella parola che accentua il campanilismo tra lodigiani e piacentini. Sul suo collo era tatuato un verso di una vecchia canzone dei Platters che faceva più o meno così: “I’m wearing my heart like a crown pretending that you’re still around”.
In quel verso era conservata la sua vita. La mia magotta era tutta sua madre, in quel suo modo di rivestire l’anima, in quella sua smisurata dolcezza e combattività che avevano trasformato una domenica qualunque nel giorno in cui mi sono convinto una volta e per sempre: prima o poi qualcuno tornerà a cantare con amore una ninna nanna per Miriam.

12 e 13 giugno: Io Referendum e tu?

Più di sessanta anni fa si è svolto il primo Referendum: il 2 giugno del 1946 i nostri nonni sono stati chiamati alle urne per scegliere tra Monarchia e Repubblica. Quando si raggiunge la maggior età, il breviario recita questo: fare il proprio dovere di cittadino e non mancare al voto elettorale. Peccato che quando si tratta di referendum ce la svigniamo, come se non ci riguardasse. E’ non è una legittima giustificazione né la delusione collettiva che dilaga in Italia né il brio stagionale che ci porta magari a organizzare un fine settimana fuori casa.
E smettiamola con questa buffonata che associa anche la scelta referendaria al colore politico! Un referendum abrogativo è la sostanza di una democrazia e del nostro impegno civico. I partiti politici dovrebbero smetterla con l’ennesimo  tedio da campagna elettorale.
Noi smanettoni del web possiamo dirla davvero tutta: l’appuntamento del prossimo 12 e 13 giugno può definirsi il primo referendum social della storia italiana. Sui social network impazzano gli inviti ad andare a votare e il 30% della popolazione facebookiana ha cambiato la propria immagine del profilo con l’icona referendaria. Energia nucleare, acqua pubblica e legittimo impedimento mica sono noccioline?
Oggi viviamo allo scoperto e non abbiamo più nessuno che ci difenda davvero. L’autodifesa è l’ultima chance per tenere a bada gli aggressori che ci ronzano intorno. E starcene da strafottenti con “la panza al sole” confermerebbe per l’ennessima volta una triste verità: sappiamo essere un popolo di piagnucoloni che fa dormire sogni tranquilli agli orchi che minano il bene comune.

Diario di viaggio: Fondi, ricordo di un’estate

Resto sempre convinto che Ricordo di un’estate (Stand by me) di Rob Reiner sia uno dei film più belli sull’adolescenza. Non mi riferisco tanto alla storia, ma al fondale estivo che lascia un segno nei quattro ragazzi protagonisti. Ognuno ha il suo ricordo di un’estate: il mio è a Fondi. Vi sono tornato dopo più di vent’anni e mi è sembrato che il tempo si fosse fermato a quell’agosto del 1988. Certo, nel paesotto in provincia di Latina vi avevo trascorso una memorabile vacanza nell’82, proprio nei giorni in cui l’Italia vinse i Campionati del Mondo di calcio.
Tuttavia, l’ultima estate era stata diversa: non c’erano i miei genitori e forse fu proprio quest’assenza a farmi spingere, con la complicità dei miei cuginetti Massimiliano e Andrea, oltre i canoni dell’ingessata adolescenza, verso una forma di ribellione interiore che mi permise di vivere un legame profondo con le persone del posto, in una contaminazione affascinante tra campagna assolata e spiagge selvagge.
Sono tornato nella stessa casa e in quella bottega era rimasto quasi tutto uguale, ma al banco di lavoro non c’era più Guido. Mi piaceva osservarlo mentre grattugiava in silenzio le sue tavolozze di legno. Una volta me ne regalò una, accompagnata da un pensiero: “Faccio il falegname perché, tutte le volte che il legno prende forma, mi sembra di restituire l’anima anche all’oggetto più insignificante”. Sono tornato a Fondi perché avevo voglia di dire al mio amico falegname che quell’estate dell’88 mi trasformò da burattino in un bambino vero, proprio come nella favola di Pinocchio. Purtroppo non ho fatto in tempo, perché mi hanno detto che era partito per sempre. Pare che sia scomparso nello stesso mare in cui noi ragazzi nuotavamo e ci sentivamo liberi come mai saremmo stati.
L’ultima volta che ho lasciato Fondi, Mirella era affacciata al balcone, Dina seduta su una panchina e Gionathan accovacciato su un albero. Furono proprio loro i compagni d’avventura e i protagonisti del mio ricordo di un’estate. Riabbracciandoli ho ritrovato Guido, il loro papà, e mi sono convinto per l’ennesima volta che gli affetti nati sotto il cielo estivo durano per tutta la stagione della vita e ci fanno sentire forti anche quando il dolore e la tristezza tentano di offuscare le nostre esistenze. Risalendo sul treno, ho capito che i figli di Guido mi avevano restituito la fragranza dell’estate al posto di un tenero ricordo, allo stesso modo in cui il loro papà dava l’anima a tutti quei pezzetti di legno.

Caro Francesco, c’eri pure tu quella sera in cui Baccini cantava Tenco?

C’è una foto del mio album che mi piace particolarmente: è quella che ci ritrae assieme cinque anni fa, quando hai trasformato un’intervista in interminabile e intelligente divagazione. Entrambi eravamo emigrati a Milano da due città di mare, Genova e Napoli, in tempi diversi, eppure in modalità simili. E’ stato per questo motivo che sei riuscito a farmi sentire come un tuo ex compagno di merenda?
Ricordo il nostro dibattito sui soliti cliché e pregiudizi che inquinano l’immaginario collettivo dai toni nazional-popolari. E spesso si mettono pure le scelte infelici dell’industria discografica. Osservandoti sul palco dello Smeraldo di Milano a cantare Tenco e a riportare in vita una vittima di quei pregiudizi, ho fatto una riflessione : sei stato così testardo in tutti questi anni da reinventarti ogni giorno, anche quando c’era chi voleva associare Francesco Baccini a un repertorio scanzonato, che invece era tutt’altro. Del resto quella targa Tenco che ha tenuto a battesimo Cartoons dovrebbe dirci tutt’altro.
C’è chi vuole ostinatamente definire un cantautore per “contorni”, mentre sono i suoi “dintorni” a distinguerlo dai tanti canzonettari che si spacciano per musicisti o cantastorie. Quante coincidenze ti legano a Luigi Tenco, ma queste non sarebbero bastate a creare una serata musicale emozionante se non si fosse fatto avanti ciò che sei veramente: il genovese strafottente dei luoghi comuni, dell’establishment, delle formalità idiote, curioso e appassionato, sentimentale e intelligente, con quella punta di istrionismo clownesco che avrebbe amato Federico Fellini.
Che strane coincidenze. Hai cantato Luigi Tenco nel giorno del sessantacinquesimo compleanno di mia madre, che purtroppo era lontana. Mi hai permesso di soffiare assieme a lei le candeline attraverso quelle canzoni. E’ stata lei più di trenta anni fa a farmi conoscere il repertorio di Luigi, spiegandomi che “i tempi non erano maturi per capirlo”. Forse i tempi non sono mai maturi per nessuno, ma lo diventano quando ci ritroviamo a condividere. Allora diamoci appuntamento a Genova: tu porti la chitarra e noi che eravamo l’altra sera lì portiamo birra e foccaccia genovese. Sarà un modo per continuare a raccontare Luigi, che è morto soltanto per gli stolti benpensanti, quelli che De André aveva fatto diventare lo zimbello del circo della vita e tu, Francesco Baccini, hai messo a tacere per sempre.