Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Archives Gennaio 2012

Quella volta con Oscar Luigi Scalfaro, Presidente della mia gioventù

Il Presidente della mia infanzia fu il partigiano Sandro Pertini, quella della mia gioventù il costituzionalista Oscar Luigi Scalfaro. Mi conquistò con il primo discorso di fine anno, quello del 31 dicembre del 1992. L’Italia era smarrita sotto il tunnel di Tangentopoli, io attraversavo una svolta personale: da una parte il dolore indefinito per la perdita di mio nonno Pasquale, dall’altra la nuova corsa verso la realizzazione dei miei sogni, che oltrepassavano lo steccato del percorso universitario intrapreso.

Del presidente Scalfaro mi colpì la fiducia che ripose nei giovani in quell’invito deciso e convincente: “Non arrendetevi mai, per nessuna ragione al mondo”. Le sue parole bucarono lo schermo televisivo, mi entrarono dentro, decisi di portarmele appresso. Nonostante i suoi toni accesi a volte prendessero la forma colloquiale di un vecchio monarca, la compostezza e il paternalismo di Scalfaro assomigliavano alla premura che un nonno dovrebbe mantenere con costanza nei riguardi dei nipoti.

Un nonno non ce lo avevo più, ma mi restava un Presidente. Dieci anni fa, proprio in questo periodo, lo conobbi personalmente a Striano, un piccolo paese poco distante da Sarno. Lo avvicinai alla fine del suo intervento e gli sussurrai all’orecchio: “Non mi arrenderò mai, per nessuna ragione al mondo”. Lui mi sorrise e aggiunse: “Quando ti ritroverai senza punti di riferimento, recita gli articoli della costituzione italiana”.

Avevo un cappotto di loden quel giorno. Non era l’abbigliamento consono ad uno della mia età, ma indossarlo mi faceva sentire più vicino alle generazioni che mi avevano precedute. Quando sono partito per Milano, alcuni mesi dopo, ho indossato quel cappotto in mezzo alla nebbia, al gelo. Ogni volta qualcuno tentava di sparare contro i miei sogni, mi ronzavano nel cuore le parole di Oscar Luigi Scalfaro, il Presidente del “non ci sto”, il Presidente che se n’è andato in una fredda mattina di gennaio ed ha attraversato con me una parte della mia gioventù ribelle.

 E’ morto l’ex Presidente Oscar Luigi Scalfaro

 La morte di Scalfaro su Twitter

 Il discorso del non ci sto

E sia la Shoah di tutti: Giorno della Memoria dalla Bosnia al Sud America

Sono stato ad Auschwitz: avevo intenzione di fare qualche ripresa e alcuni scatti fotografici. Quello non era il luna park degli orrori e non ne ho fatto niente. Mi sono seduto in silenzio accanto al“binario” che segna la fine di tutto.

Sono finito a Sarajevo un paio d’anni dopo. Mangiavo una pagnotta cotta a legno e osservavo, dall’alto di una collina, migliaia di croci sparse. Erano le vittime del conflitto serbo-sboniaco, quello che in tv hanno fatto passare come un videogioco e non come un olocausto.
Al mio ritorno dalla Bosnia, ho deciso che quello sarebbe stato il mio Giorno della Memoria.

Il 27 gennaio si torna a parlare di Shoah, si commemorano gli ebrei, vittime dello sterminio simbolo del XX secolo, ma si dimenticano i morti ammazzati altrove. A scuola avrebbero dovuto insegnarci che non esistono genocidi di seria A o serie B. C’è chi ne fa una perversione politica, c’è qui ne fa un assillo religioso, e nessuno ne fa una questione di coscienza.

Il cinema dei fratelli Taviani ci ha fatto rimbalzare dalle parti del genocidio degli Armeni. Dovremmo riproporre nelle sale La masseria delle allodole per allargare la visuale del giorno della memoria , attraversando le tragedie di Darfur, Ruanda e Sud America con i desaparecidos.

In questo modo milioni di preghiere, che il 27 gennaio vanno incontro alle stelle, diventerebbero espressioni umane e inno di riflessione di tutta la civiltà.

  Giorno della Memoria

  Auschwitz, i binari del treno finiscono lì

  La masseria delle allodole di Paolo e Vittorio Taviani

Italia incazzata: “E la nave va” tra ambientalisti, tassisti, benzinai, tir e forconi

Mi concedo una pausa dallo sceneggiato mediatico “Concordia & Giglio” e dalla partita di ping-pong tra l’armatore e il comandante sul “mea culpa”. Si rischia il disastro ambientale, sì o no? Ad ogni male c’è rimedio, tanto vogliono convincerci che i residui inquinanti molleranno gli ormeggi intorno all’isolotto toscano. Mi viene in mente il mio golfo di Napoli: si scannano per la bandierina blu a tutela di alcune località. Chissà se a Forte dei Marmi, l’estate che verrà, saranno tutti sorridenti come a Capri. Non perdetevi i bagnanti chic all’ombra dei Faraglioni, illusi che le loro chiappe siano lontane dalla zozzeria infognata sotto la fascia costiera che dalla Penisola Sorrentina si spinge fino a Bacoli.

Meglio un pedalò o un canotto a remi, almeno si è sicuri di raggiungere la destinazione in tempi ragionevoli. Benzinai e tassisti incazzati. Diciamo che gli umori devono alternarsi in una vera democrazia. Ieri eravamo incazzati noi quando i distributori se la spassavano con la benzina alle stelle o salendo a bordo di un tassì, perchè in Italia costa quanto un giro in limousine rispetto al resto d’Europa.

Si mettono pure gli autotrasportatori e così le nostre autostrade sembrano diventate il set del remake di Convoy – Trincea d’asfalto di Sam Peckinpah. Questa volta la rivolta è molto più complessa di quella messa in atto dal protagonista del film sulle strade deserte dell’Arizona. Con gli aumenti di pedaggi e carburante, la vita diventa ormai insostenibile e non solo per loro.

Con l’urlo dei Forconi stiamo tornando ai tempi in cui il tiro alla fune si giocava tra i Sabaudi dal’alto e Borboni dal basso. Almeno per una volta non si dica che siano solo i leghisti a parlare col megafono. Allevatori, agricoltori e pastori dell’isola “senza ponte sullo stretto” hanno mollato zappa e strumenti di lavoro per stilare un manifesto di rivolta popolare, su i social e con il passaparola a fil di rete che fa di Facebook e Twitter due strumenti efficaci. Illudiamoci pure che la Sicilia di oggi per certi aspetti non sia più quella “gattopardiana” di Di Lampedusa. I Forconi urlerebbero un bel vaffa pure a Peppiniello, il Garibaldi da fiction riproposto in tv ultimamente nel solito decotto.

Presi da questo stato di rissa, è passato inosservato il compleanno di Federico Fellini. Google ha fatto bene a celebrare con un doodle le 92 candeline per il maestro, così almeno qualche sbadato non ha la scusa di scambiarlo per “un forcone”. Ci vorrebbe l’occhio cinematografico di Fellini e il tratto a matita di Hugo Pratt o Milo Manara per raccontare l’Italia di questi giorni, “smarrita” come nel penultimo film dimenticato del regista riminese “E la nave va”. Questa volta la nave non è arrivata neanche a largo. E ci è scappato più di un morto.

70 volte, papà!

70 volte, papà è il numero delle volte in cui mi sono chiesto cosa ci facesse mio padre con quella tuta addosso: per me non era l’indumento di uno caposquadra dell’Enel, quella degli anni in cui precedettero la spietata e feroce privatizzazione. Era piuttosto la divisa di un supereroe, che si arrampicava sui pali della luce come l’Uomo Ragno e toglieva migliaia e migliaia di persone dal buio come Superman.

70 volte, papà è il numero delle volte in cui mio padre ha circoscritto i giri del suo tempo, della sua gioventù, in un sogno sociale per mettere in disparte l’individualismo che ci incatena e spingersi sempre nell’ottica della comunità, della terra che lo ha generato ed allevato: il suo Sud.

70 volte, papà è il numero delle volte in cui ha tentato invano di raddrizzarmi, di indicarmi una strada. Eppure io raggiravo sempre l’ostacolo e mi inventavo un nuovo percorso, perché nessuno potesse mai dire “tale padre, tale figlio”.

70 volte, papà è il numero delle volte in cui da figlio ha attraversato i sogni pudici degli anni ’50, da giovane le rivoluzioni mitologiche degli anni ’60, da marito gli spari silenziosi degli anni ’70, da papà i miti fasulli degli anni ’80, da lavoratore le scalate tecnologiche degli anni ’90, da pensionato le minacce global del nuovo millennio.

70 volte, papà è il numero delle pedalate in bicicletta che lo staccavano ogni mattina all’alba dalla madre Rosa, che restava lì sull’uscio della porta di casa finché non diventasse un puntino. Poi venne il giorno crudele dell’ultima pedalata e l’indomani la nonna sull’uscio di casa non c’era più.

70 volte, papà è il numero dei libri che non ha mai letto, dei film che non ha mai visto, delle canzoni che non ha mai ascoltato. L’ho fatto io al posto suo, ma da nessuna parte ho trovato la ricetta di come si riesca ad essere un buon figlio, senza finire nella trappola di riscattare ciò che i nostri genitori non sono stati.

70 volte, papà è il numero delle volte che non ho mai contato per paura di imbattermi in chi un padre non lo ha mai avuto o lo ha perso prima di potergli scrivere in bella copia un biglietto d’auguri.

70 volte, papà è il numero delle volte in cui questo tempo infame vuole farci assomigliare tutti, rendendoci tutti manager dell’omologazione, schiavizzati da affannose rincorse che rischierebbero di trasformare il 20 gennaio in un giorno qualunque. No, non sarà così, nonostante gli strizzacervelli ci indichino la strada per ottimizzare i tempi, sopravvivere per obiettivi, perdendo di vista ciò che siamo e saremo ogni volta che scriveremo da qualche parte “70 volte, papà”.

70 volte, papà con una bomboletta spray sulla parete della nostra stanza più segreta, per disegnare un murales dai colori tenui come le 70 candeline che spegnerà mio padre oggi, nel giorno del suo settantesimo compleanno.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=Q29YR5-t3gg]

La Concordia e Facebook: La beffa burlona del capitano gradasso

Il volto barbuto dell’attore John Hewer, protagonista di un famoso spot dei primi anni ’80, ci fece affezionare bonariamente ai capitani delle imbarcazioni. Ci chiedevamo quali pericoli corressero e se prendessero una paccata di soldi, nonostante di mezzo ci fossero dei bastoncini di merluzzo. Dall’altra parte lo staff della Pacific Princess, la nave protagonista della serie tv Love Boat dell’Abc, appiccicò sul nostro immaginario la crociera come il viaggio verso l’isola della felicità. L’America di Love Boat era la stessa che aveva seppellito gli orrori del Titanic.

In queste ore dell’Italia sta parlando il mondo intero e non è follia pensare che tra una decina d’anni ci gireranno un film sull’ Isola del Giglio. E non solo per il disastro ambientale che potrebbe infognare il mar Tirreno, ma per la “nave-albergo” – così chiama le navi da crociera Aurora, una mia lettrice di otto anni – affondata come sulla pedana da tavolo di una battaglia navale. Tralasciando l’uragano mediatico che sta coinvolgendo emotivamente chi più e chi meno, c’è un piccolo dettaglio “social” su cui mi soffermerei: non tanto la riconoscenza verso Twitter come piattaforma per gli aggiornamenti istantanei, quanto il posizionamento di Facebook sul podio dei confessionali del malcostume nazional-popolare. Finita in soffitta la belle epoque del Grande Fratello, un post su una bacheca di Facebook potrebbe confermare l’ipotesi di un giochetto d’azzardo finito male, quello del capitano gradasso che vuole salutare il luogo natale del cuoco di bordo.

Questa volta non è stato necessario reclutare un bravo sceneggiatore hollywoodiano per (ri)scrivere un film da incasso assicurato o una fiction lacrimogena in puro italian style, passando dall’happy end degli episodi di Love Boat al desolato finale di Titanic. “Elementare Watson!”, avrebbe esclamato in un passato remoto Sherlock Holmes, senza né il benestare di Facebook né il consenso della penna del padre putativo Conan Doyle. Ognuno ha la sua opinione ed ha il diritto di esprimerla, ma l’intervento della giustizia, nel caso accertasse certi fatti, dovrà rimettere in circolazione un vocabolo che noi impropriamente associamo soltanto alle malefatte dei capi mafiosi: Ergastolo.

E non se la prenda a male la beata del 13 agosto se non battezzerò mia figlia con il nome di “Concordia”, ma è la rabbia soffocata per rispettare il lutto di chi ha perso la vita. Purtroppo qui non si tratta della faccia bonaria di un capitano da spot pubblicitario, ma del volto mostruoso dell’imperdonabile leggerezza dell’essere.

Facebook: Tra poco passerà vicina vicina…

L’equipaggio e la rete difendono il comandante

Post e pagine Facebook sul comandante…

Don Raffaè 2012: Ciccirinella, ex compagno di cella, sta fuori, amministra palazzi, consensi e lacché

Io mi chiamo come mia madre mi ha fatto e sono finito nel carcere senza sape’. Avevo un nome straniero e sto a Poggio-Reale dal 2012. Alla centesima parola che non capisco, ho chiesto se c’era un uomo speciale che parlava con me. L’ho trovato al braccio speciale. Tutto il giorno vedo in tv quattro infamoni briganti, papponi, cornuti e lacchè. Che fetenzia quella faccia che sputa minaccia e se la prende con me, figlio dall’Africa nera. Perché lui là e io qui?
Ma alla fine mi sento meno solo, mi sbottono, leggo il giornale e chiedo spiegazioni al vecchio Don Raffaè. Mi spiega che penso e bevimm’ò cafè.

A comme è amaro ò cafè, neanche in carcere ‘o sanno fa, perché Ciccirinella, ex compagno di cella, sta fuori, amministra palazzi, consensi, puttane e lacché.

Prima pagina, venti notizie inutili, cento ingiustizie nascoste e lo Stato che fa? Facebook si costerna, Twitter s’indigna, lo Stato s’impegna e poi finge di alzare la testa con gran dignità.
Mi scervello, capisco meglio il napoletano, per fortuna c’è chi mi risponde, a quell’uomo immenso io chiedo consenso al vecchio don Raffaè: Un falso galantuomo, eletto dal popolo, dovrebbe stare in carcere al posto mio, mentre guappi di cartone, che Dio li perdoni, spargono sangue tra infamie e miseria. A voi una volta bastava una mossa, una voce. Con rispetto s’è fatto le otto per guardare il tiggì, volite ‘a spremuta con la pillola per la pressione o volite ‘o cafè?

A comme è amaro ò cafè, neanche in carcere ‘o sanno fa, perché Ciccirinella, ex compagno di cella, sta fuori, amministra palazzi, consensi, puttane e lacché.

Qui ci sta l’inflazione, la svalutazione, forse torniamo alla lira e la borsa ce l’ha chi ce l’ha. Io non tengo compendio che chillo stipendio non mi basta per le cure di mamma e papà. Aggiungete mia figlia zitella che serva-badante non vuole essere più. Non chiedo la grazia pe’ me, vi faccio la barba o la fate da sé. Voi tenevate un cappotto cammello che al maxi processo eravate ‘o chiù bello, un vestito gessato marrone così ci è sembrato su YouTube. Vi prego Eccellenza, ditemi se i disonesti stanno qui dentro o stanno fuori, perché altrimenti sapete cosa vi dico? Io resto qui.

A comme è amaro ò cafè, neanche in carcere ‘o sanno fa, perché Ciccirinella, ex compagno di cella, sta fuori, amministra palazzi, consensi, puttane e lacché.

Qui non c’è più decoro vacanze da lusso su isole lontane, ma chi l’ha mi viste chissà. Chiste so’ fatiscienti pe’ chisto i fetienti, se tengono l’immunità. Don Raffaè un dì voi politicamente, ma chi caspita sono questi falsi santi, ma ‘ca dinto io sto a pagà senza permesso di soggiorno e fora chiss’a. A proposito ho visto bravi laureati che da quindici anni stanno disoccupati, hanno fatto quaranta concorsi, novanta domande e duecento ricorsi. E adesso chi glielo darà il conforto e il lavoro?

Don Raffaè, che zoza ch’è chisto cafè.*

*Ispirato liberamente alla canzone “Don Raffaè” di Fabrizio De Andrè

 Fabrizio De André, Don Raffaè

  Testo originale

 Via del Campo

Facebook, l’osservatorio “osservato” delle amicizie quaquaraquà

Facebook è la gogna per smantellare le finte amicizie, quelle che sono state allevate con l’abuso del codice del clan: la parità regge la calma apparente. Per riflesso è la bacheca del social network più insidioso a diventare il ring dello scontro. Prima era il baretto lounge del paesotto dove ci si incontrava, sorseggiando drink e ripetendo a pappardella la filosofia buonista di “Eravamo quattro amici al bar”.

Ecco la trappola bella e pronta, quella del social: il fine giustifica il mezzo. Gli status smielosi di un dì, le chattate notturne, le fotine con le facce da bell’inbusti hanno ceduto il posto a frasette acide, inciuci nottambuli e nuovi scatti, che raccontano di nuove alleanze. Non bisogna essere uno strizzacervelli smanettone o un sociologo web-oriented per capire che è Facebook a scrivere le nuove regole del gioco e non gli ambasciatori inviati su commissione, che se ne tornano off-line con la coda tra i tasti del Pc.

Basta un pò di chiacchiericcio dai toni accessi e il branco è spacciato (“gruppo ristretto” secondo il glossario social). Chi se ne va cresce, perché fuori dal gioco della “comunella infantile” diventa osservatore privilegiato della meschinità, sintomo di fragilità e inferiorità degli illusi capoclan, ammazzati dalla vergogna per l’umiliazione da bacheca. Chi rimane isolato nel branco è condannato ad essere l’osservato sconfitto che canticchia “Adesso siamo pochi amici al bar”.

E quando quest’ultimo staccherà la spina dal social network, sarà la lealtà  – l’unica allevatrice delle sane amicizie – ad infastidire l’olfatto con quel puzzo di piscio, che renderà ancora una volta l’osservato sconfitto un servo di plagi, ventriloquo di libri mai letti. E’ arrivata l’ora. I messaggeri di pace si rassegnino: il branco é davvero spacciato. Pardon, “il gruppo ristretto degli ex compagni di merendine da discount”.

 Facebook, dunque sono.

 Amicizie su Facebook…

 Così finisce l’amicizia su Facebook

 

In fuga dalle nuove Befane: dal letame può nascere un fiore

Arriverà la Befana sì o no? Quanti di noi aspetteranno sul davanzale quella vecchia bacucca di cui ogni bambino non può fare a meno? Nel caso il deficit italiano la mettesse alle strette, aspettiamoci che la vecchietta resti alla larga dal nostro Paese e le calze restino vuote.
Possiamo pure accontentarci e spiegare ai nostri bimbi che questo è il tempo delle nuove Befane. Sono irriconoscibili durante l’anno perchè si travestono e tentano di seppellire la loro bruttezza. In questo caso neanche la fiaba di “La Bella e la Bestia”, riproposta di recente in tv con un successo di ascolti, le sottrarrebbe dal falò della vanità, dove già sono bruciate come streghe.

Le nuove Befane durano il tempo di una stagione: aprono una finanziara per rifarsi la dentiera prima di percorrere la goffa passerella; nascondono lo strabismo dell’ovvietà sotto un paio di lentine colorate; si allungano su un paio di tacchi a spillo; spettegolano stizzite su i social network, perchè sono state smascherate: l’urlo populista facebookiano ha dimostrato che fatine non sono mai state. Avevano la bachetta magica, appuntita al punto giusto, infilata nel sederino inconsistente, per avere sempre la voce impostata di chi sguazza nello chic pacchiano.

Le nuove befane sono l’ultima bestemmia alla bellezza della vita. Pertanto, se la vecchia bacucca a cui siamo tanto affezionati non arriverà stanotte, metteremo fine a questo rito pagano e spiazzeremo i nostri bambini: li prenderemo per mano e svuoteremo tutte le calze. Niente dolciumi o carbone zuccherato, perchè non è nella notte del 6 gennaio che si capisce da che parte stiano i buoni o i cattivi. Porteremo i nostri bimbi a guardare le stelle, indicando loro quella più luminosa, la stessa che guidò Gaspare, Melchiorre e Baldassarre in mezzo al deserto. Faber diceva che “dal letame può nascere un fiore”: quei tre distinti signori raccoglieranno di nuovo quel fiore, l’unica “manifestazione” che scioglie la mostruosità umana nella bellezza, infinitamente piccola: Epifania.

Signor Giudice, il mio Capodanno 2012 con i bambini “senza famiglia”

Signor Giudice,
non voglio aprire il nuovo anno, affetto dal solito morbo di festeggiamenti a tutti i costi: panettone, spumante, stordimento festaiolo, botti e magari sbadigliando accanto a persone che a mala pena conosco. Voglio condividere l’inizio di questo 2012 con migliaia di bambini che affollano in Italia istituti e case famiglia, perché sono finiti nel grembo di donne non all’altezza di essere madre.

Signor Giudice, busso alla sua porta poco dopo la mezzanotte, perché vorrei che me li desse in affido nel giorno di Capodanno. Voglio preparare un tavolo lungo da Reggio Calabria a Milano e osservarli festeggiare tutti assieme. Non ho alcun requisito né per l’affido temporaneo né per l’adozione, ma mi è bastato inciampare in una storia per farmi avanti:travestito da Babbo Natale, ho conosciuto A***C***, 30 mesi, e F***, 8 anni. Al momento sono in attesa di una famiglia che si prenda cura di loro, per sempre. Mi sono sentito un Santa Claus impotente perché non ho potuto restituire loro la mamma naturale. Per quel bimbo e la sorellina sognavo una mamma come la mia.

Quanto tempo ho dovuto aspettare per crescere e rendermi conto che i genitori non sono tutti uguali. Quanta vita buttiamo via per niente. Signor Giudice, mi lasci entrare in tutti gli istituti e case famiglia. Svegliarli dal sonno per cercare qualcosa di più del solito Capodanno. Voglio cercare assieme a tutti questi bambini l’insolito e formare un grande girotondo, rotolandoci in riva al mare, assaggiare la prima alba. Solo attraverso le loro storie di vita mi spoglierò delle banalità con cui ci trucchiamo agli inizi di un nuovo anno.

Ad A***C*** e F*** ho regalato una penna, perché spero un giorno mi scrivano. Tornerò da loro senza il travestimento per mostrare il mio volto, che fino a poco fa era di uno qualunque. Signor Giudice, è arrivato il 2012. Sono pronto, ma lei mi prometta che non li separerà mai.

Felice Anno Nuovo, a modo mio, a tutti gli educatori che in questa notte vegliano e difendono queste anime innocenti.