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Archives Agosto 2012

Addio a Carlo Maria Martini, il Gesuita che avremmo voluto Papa

Il polacco Karol Wojtyla si era dimostrato un bravo talent scout e ci vide lungo nello sguardo algido di quel Gesuita, che sarebbe stato l’unico e legittimo successore. Carlo Maria Martini, l’Arcivescovo emerito di Milano, si è spento qualche ora fa a Gallarate, a pochi chilometri da Varese, dove da diversi anni combatteva contro il Parkinson. I non credenti hanno apprezzato il temperamento sobrio del filosofo, la sua apertura al dialogo verso le altre religioni; i fedeli invece l’integrità spirituale del padre Gesuita.

Carlo Maria Martini è stato capace di allenare una comunità, all’ombra del pontificato di Giovanni Paolo II, proteggendola dal conservatorismo che ha affossato la Chiesa, remando per mandare alla deriva il passato, guardando agli errori, simili ai peggiori scheletri nell’armadio, con le lenti del riformista. Battendo il pugno per affermare che “Dio non è cattolico”, il padre spirituale che era in lui ha ceduto il passo all’insuperabile biblista. Carlo Maria Martini aveva tenuto vigile lo sguardo sul futuro e sui cambi di stagione, fu sentinella mentre Milano usciva a fatica dal tunnel degli Anni di Piombo per finire affogata nell’ingordigia della movida degli yuppies e del rampantismo del tempo avvenire. Non lo aveva fatto però con lo scettro del sovrano despota, ma con l’intelligenza e la spiritualità che sanno fare di un Gesuita un principe e un essere davvero speciale.

Carlo Maria Martini è stato il Papa mancato, il Pontefice che alcuni di noi avrebbero voluto incrociare. E’ inutile girarci intorno, se non fosse stato per la feroce malattia, sarebbe arrivato a Roma con l’appoggio sacrosanto del Padreterno. E la manciata dei voti che ha fatto sogghignare i conservatori con l’elezione di Ratzinger, nella virata più a destra rispetto alle previsioni ottimiste, avrebbe consegnato la Chiesa nelle uniche mani che potevano tracciare la linea di continuità con il pontificato di Giovanni Paolo II.

Nel dicembre del 1998, in un gelido pomeriggio, lasciai in un angolo del Duomo di Milano un biglietto per lui. Quando tornai a Napoli, dopo una notte di treno, trovai una lettera che proveniva da Milano. C’era scritto pressappoco così: “Abbiamo trovato il suo biglietto nella Cattedrale. Il Cardinal Martini ha apprezzato le sue belle parole. Lui è vicino ai giovani. Rosario, non perda mai la speranza.” La conservai nella tasca del jeans e una settimana dopo risalii sullo stesso treno Espresso per tornare a cercare fortuna in una città che non era mia. Carlo Maria Martini, il Gesuita dalle ampie vedute, ha chiuso gli occhi a pochi metri da dove abito oggi. Di lui mi resta qualche goccia dell’ inchiostro che incoraggiò un ragazzotto del Sud a difendere valori e sogni dai paladini del cinismo.

  Habemus Papam vicino a Martini: Il gesuita moderato argentino…

Cartolina da Recanati: Leopardi non abita più qui?

Si finisce a Recanati per un motivo solo: intrufolarsi nella casa natale di Giacomo Leopardi e farsi una sana scorpacciata di vecchie memorie scolastiche. Sulla piazza del Sabato del Villaggio c’è un caldo micidiale e all’orizzonte neanche l’ombra della “donzelletta che vien dalla campagna”. Le finestre del palazzo Leopardi sono chiuse e degli eredi che lo abitano neanche l’ombra. Non vedremo mai nessuna delle stanze, peccato. La scelta è obbligata: una mostra multimediale e la sterminata biblioteca dello “studio matto e disperatissimo”. Della prima ne possiamo fare a meno. La seconda è l’unica via di uscita per annusare qualcosa del grande poeta.

E’ tutto lì tra quei tomi, mentre la memoria si sbriciola tra i racconti della guida, che spesso si lascia andare a spasimi emotivi, quasi fosse un erede. Non basta lo scrittoio, non bastano quelle finestre per riportarci all’autenticità d Leopardi. Del resto proprio i recanatesi, da cui Giacomo se la diede a gambe, oggi farebbero di tutto per riaverlo lì. Le spoglie sono lontane, all’ombra del Vesuvio, sulle cui falde sbocciò la ginestra, il fiore che di Giacomo fece intravedere altro.
Lasciamo da parte i gossip letterari – tra i desideri repressi per Silvia (alias Teresa Fattorini) e il dispotismo del papà Monaldo – l’ingordigia di alcuni studiosi affossati tra il pessimismo storico e quello cosmico o l’apparente strafottenza attribuita alla maggior parte degli studenti italiani, vittime spesso di docenti indecenti, che sul poeta recanatese sapevano sputare fuori soltanto pappardella in saldi.

Giacomo Leopardi è molto più vicino ai giovani di quanto pensiamo e non sono le mura di quel palazzo a Recanati a testimoniarlo. Sono piuttosto alcuni versi, da “Il Sabato del Villaggio” a “Alla luna”, sbandieratori dell’anima popolare di una bella canzone di musica leggera. Eretico io? Ebbene sì.
Il tenore Luciano Pavarotti ha svestito la lirica dallo snobismo nei confronti della musica pop, perché non avrebbe potuto farlo il poeta recanatese più di un secolo prima? Alcune sue poesie anticipano i testi di una canzone intensa che sarebbe finita tra le mani di un cantautore italiano nei primi anni ’70 del secolo scorso.

L’essenza di Giacomo Leopardi è solo lì, su quel colle, che gli ispirò uno dei componimenti più belli di tutti i tempi, l’Infinito, appunto, che sarebbe potuto essere nel nostro tempo la ciliegina sulla torta di un lirismo musicale alla Mogol-Battisti. Nell’Infinito persiste la voglia di evadere, anche da quel provincialismo di cui era annacquata la comunità recanatese.
Da quel momento Giacomo Leopardi non è stato più né prigioniero di quel palazzo né cittadino recanatese, ma viaggiatore dell’universo. E il visitatore incontra il poeta-viaggiatore proprio su quel colle, mentre all’orizzonte le nuvole rivendicano, nel nostro tempo volgare, il “naufragar m’è dolce in questo mare”.

  Casa Leopardi

Diario di Viaggio: Shalom Gianna, sotto gli occhi del mare…

Nel 1978 Rino Gaetano cantò “Gianna Gianna Gianna sosteneva tesi e illusioni Gianna Gianna Gianna prometteva pareti e fiumi, Gianna Gianna aveva un coccodrillo”. Di Gianna mi affascinava il fatto che avesse un coccodrillo e così da bimbo occhialuto mi misi alla sua ricerca.
L’ho trovata quest’estate, in spiaggia, dopo 35 anni, scoprendo che forse Rino Gaetano aveva sbagliato in qualche verso della celebre canzone.

Gianna non aveva “un coccodrillo”, ma un vecchio certificato ingiallito in una soffitta di Roma su cui era scritto “di razza ebraica”. Gianna aveva fatto bene a sostenere tesi e illusioni per ritrovare brandelli della sua vita in riva al mare.
Che strano, sotto l’ombrellone siamo soliti parlare del più e del meno, condividere banalità, invece può accadere che il bauletto della memoria si scuota a ridosso di Ferragosto: una sorellina scomparsa tra le braccia del ‘900 e un fratellino nascosto in un convento per sottrarlo alle persecuzioni che nel Belpaese fascista toccavano a chi fosse di un’altra razza.

Attraverso gli occhiali scuri di Gianna ho risfogliato alcune belle pagine di Giorgio Bassani, quelle di Il Giardino dei Finzi-Contini, dove alla narrazione non sfugge la peccaminosa catena delle leggi razziali, applicate in Italia nel 1938 contro la comunità israelita. Sembra roba di altri tempi, ma soprattutto roba che non riguardi l’Italia, perché Aushwitz era geograficamente lontana dalla nostra penisola. Mettiamo da parte l’insostenibile leggerezza di chi vorrebbe far passare i governanti di allora come chi avesse poco a che fare con la lucida follia della Germania nazista.

Le nuove generazioni provano rancore per alcune scelte ingiustificate dello stato di Israele. Che l’errore di politici e capi di stato non ricada sui singoli individui, sul loro vissuto, sul tappeto del loro dolore.
Ho cercato Gianna per mare e monti. Sarebbe bastato andare in una sinagoga in Italia. Me l’ha restituita il mare. Shalom, Gianna.

Diario d’estate: In spiaggia con “I Promessi Sposi”, ma non ditelo a Umberto Bossi!

Mi ha fatto un effetto strano cogliere in flagrante un ragazzino in spiaggia in compagnia della sua lettura estiva: I Promessi Sposi. Certo che Renzo e Lucia non sono proprio da mare e per questo mi è venuto il dubbio: Chi ha messo in castigo il giovane lettore sulla battigia dell’Adriatico? Certamente non Umberto Bossi, che di recente se l’è presa con Alessandro Manzoni per aver scritto il suo capolavoro “in italiano” e per essersi “venduto al Re d’Italia”.

Si sa che nella Lega non vanno mai d’amore e d’accordo. Mentre il Senatùr sbraita contro i Promessi Sposi, c’è da dire che c’erano pure tanti leghisti tra gli oltre 20 mila accorsi allo stadio di Lecco alla fine dello scorso giugno, per applaudire la versione teatrale di Michele Guardì.
Sarà che il Senatùr non ha colto la tagliente ironia manzoniana – l’ha tirata fuori il trio Marchesini-Solenghi-Lopez nell’irripetibile parodia televisiva – sarà che basta un pizzico di goffaggine e sfrontatezza in Padania per dimenticare che i veri “venduti” sono proprio le vecchie guardie che si infuriavano contro Roma ladrona.

Tornando ai Promessi Sposi, bisognerebbe capire se i leghisti stanno dalla parte di Alessandro Manzoni o Umberto Bossi. Nelle lande verdeggianti tra Como e Lecco, un dì possedimenti feudatari degli acerrimi leghisti, pian piano tira tutt’altro vento. E forse gli stessi contadini comaschi e lecchesi – loro che bestemmiavano contro i terrùn – hanno recuperato il loro rapporto con il lago attraverso lo stralcio poetico dell’Addio ai monti manzoniano. Del resto la cialtroneria al megafono ha contribuito alla fine dei tempi d’oro della Lega. Le prossime generazioni ricorderanno la penna leale di Alessandro Manzoni e dimenticheranno in fretta i cortigiani cafoni della vecchia Padania.

Diario d’estate: Alex Schwazer e il doping azzurro alle Olimpiadi

Pensavamo di ricordare le Olimpiadi di Londra 2012 per la faccia afflitta di Federica Pellegrini che, dopo la batosta olimpionica, è finita tra i ritagli dei giornali riservati alle reginette del gossip. Mentre ci chiediamo quanto durerà la riflessione per la nuotatrice veneta, dobbiamo ingoiare un brutto rospo, quello del doping di Alex Schwazer. L’amarezza è doppia. Uno perché di mezzo c’è l’atletica. Due perché “accadde” ai giochi olimpici, che rappresentano l’utero dello sport, cantato e raccontato da lirici, poeti, scrittori.

A questo punto meglio tornarsene a casa dignitosamente con la coda tra le gambe alla maniera delle Pellegrini, che sfilacciare agli occhi del mondo il sorriso del campione dopato. Alla fanghiglia del calcio italiano ci stiamo abituando – tappate la bocca al fetente del calcio scommesse che vuole il lasciapassare dello stinco di santo – ma al colpo basso di Schwazer no. Al di là dello steccato del linciaggio pubblico sul web, si finisce sempre a fare il giochino dello strizzacervelli tra la fragilità dell’atleta e il desiderio spasmodico di vincere, di essere a qualsiasi costo primo tra i primi.

Il perdono o l’assoluzione stanno al di fuori del perimetro di queste riflessioni. E se questo non è il caso di giudicare, risulterebbe (dis)umano non concedersi il lusso di un’opinione. Chi tradisce la lealtà dello sport pensa di cavarsela con la squalifica dalla gara. Invece no. Non sa che la discesa agli inferi comincia dopo, quando con il passare tempo si prende coscienza che perdere la “sportività” significa rinunciare per sempre all’umanità, l’unica medaglia che dovrebbe restare per sempre sul petto di un vero campione.
Degli esseri bionici non sappiamo che farne, perché come cantò Lucio Dalla al suo amico Ayrton “un vincitore vale quanto un vinto”. Alex Schwazer non ha perso il titolo di campione inghiottendo “le false vitamine”, ma rinnegando l’unica ragionevolezza che fa di un atleta olimpionico il poeta dello sport.

Diario d’estate: “Si’ vo’ Ddio” perchè il Padreterno ha voglia di folk!

Non si sa bene perché il folk nelle notti d’estate se la dia a gambe e arrivi al di là delle montagne. Eccomi nell’ennesimo viaggio per acchiappare ad oltranza i Terrasonora, band campana prodigiosa, in un paese montanaro della provincia di Benevento. Ci risiamo con i soliti ed immancabili luoghi comuni: il folk è la musica da consumare in compagnia di un panino e birra nella cornice di una sagra. La gente mormora, mostra diffidenza all’inizio – si aspetta magari il solito neomelodico da piazza – e poi invece si lascia prendere dalla tribalità e sensualità di quel ritmo. Quello è l’unico sound con “i piedi per terra”, attaccato ai sogni delle radici.
Eppure finita la sagra paesana, si torna con nonchalance sui propri passi, senza capire che il folk andrebbe vissuto anche alla fine del concerto: spiando da un angolo i musicisti che mettono via gli strumenti, parlottano tra di loro, adocchiano il fonico per capire se qualcosa sia andato storto.

Ne vale la pena fare tanti chilometri per corteggiare la musica popolare, soprattutto in un viaggio che vorresti fosse solo d’andata. Ed ecco che ti capita un viandante. Mi ferma, mi riconosce. Piuttosto, avrei dovuto riconoscerlo io: il musicista è lui, io sono solo uno scrivano. Sebastiano “Miciariello” Ciccarelli entrò nella mia vita attraverso un vinile di ‘E Zezi, il gruppo operaio folk che tatuò nella mia adolescenza un’altra mappa per raggiungere gli scantinati dell’eternità popolare.
Allora mi è tornata in mente quella vecchia canaglia indiavolata di Marcello Colasurdo, che all’ombra del Vesuvio, portò il folk sopra gli altari, facendo ballare preti e suorine. E così gli stessi sacerdoti che mezz’ora prima sussurravano l’Alleluja, appena potevano se la svignavano di nascosto ad ascoltare la musica di ‘E Zezi.

E poi diciamoci la verità. Persino il Padreterno sbadiglia appena sente il pop parrocchiale alla maniera di Giuseppe Cionfoli – ve lo ricordate il finto prete cantautore dei primi anni ’80? – perché dopo tutto l’arte cantautoriale non sta né in terra né in cielo, ma per la strada, nei vicoli. “Si vvo’ Ddio”, come recita il titolo dell’ultimo album dei Terrasonora: Perciò nei miei viaggi c’è sempre il raggiro della speranza. Diamo alla memoria ciò che è della memoria, diamo a Dio ciò che è di Dio: il folk, appunto, perchè questa musica il Padreterno vorrebbe ascoltare.

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