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Archives Aprile 2013

Diario di viaggio: In silenzio con PierPaolo Pasolini

Rosario PipoloOstia me la ricordavo in bianco e nero. Saranno stati tutti quei film italiani girati lungo il litorale ostiense a partire dagli anni ’50. Ostia è a colori invece, anche se dal pontile del lido Plinius vedo la stessa spiaggia di “Una domenica di agosto” di Luciano Emmer: le facce della borgata romane sono cambiate, lo spirito è quello. Le lambrette che arrivavano lì dal centro di Roma sono una foto ingiallita così come i juke-box che sparavano ad alto volume le canzoni di Califano.

Il caffè è rimasto lo stesso. Al bar me lo servono in un bicchierino di plastica perchè, come mi spiega Eva, “er romano vero” lo sorseggia in riva al mare. L’accento colorito della cantante di jazz tra i locali della capitale mi fa ricordare che devo spingermi oltre il mare dell ‘Idroscalo. Ci sono i ragazzi delle borgate che seguono la traiettoria del pallone; le case popolari; gli anziani su una panchina; le aiuole abbandonate, senza neanche un fiore sopravvissuto. Io cerco altro. È lì, in mezzo alla desolazione dell‘Idroscalo, lungo uno stradone che sembra non finire mai. C’è un una scultura che ci rinfaccia le contraddizioni della memoria. Impugno con rabbia il cancello che mi separa da quella zolla di terra, che raccolse il corpo trucidato di PierPaolo Pasolini.

Ci sono pochi modi per dare un significato profondo ad un viaggio disorganizzato. Tornare ad essere noi stessi e rimetterci alla ricerca della nostra coscienza civile, sputando fuori i rospi che ci hanno fatto ingoiare. Ostia me la ricordavo in bianco e nero. Adesso so per certo che è a colori.

Addio Fnac Italia! Via Torino a Milano non sarà più la stessa…

Rosario PipoloAddio Fnac Italia. E’ amaro, ma è così. Uno come me divoratore di musica, film e libri non può che essere affezionato ai tuoi scaffali. Perché? Perché una parte del mio cuore è francese, essendosi trasferita nel Sud della Francia un pezzetto della famiglia di papà. Nel 1996 mia cugina Gabrielle mi portò per la prima volta in una Fnac, era quella di Tolone. Mi regalò alcuni libri di grammatica francese, che mi hanno giovato all’università. E poi era lì che, durante le estate francesi, andavo a rovistare per cercare a prezzi modici la musica di Serge Gainsbourg.

I miei primi dieci anni a Milano sono stati decisamente uno per uno “fnaciani”. Ricordo nel gennaio del 2003, appena sbarcato a Milano, mi precipitai a via Torino per scoprire la sede milanese – era la prima che visitavo in Italia – e cogliere al volo i cd con il bollino “Affare FNAC”. Pure con pochi soldi in tasca, riuscivo ad uscire con qualcosa di buono.

Addio Fnac Italia. E’ amaro, ma è così. I rumor ormai sono certezza e uno di questi giorni troveremo Trony al tuo posto. Via Torino a Milano non sarà più la stessa senza Fnac. Per me è come dire Parigi senza i Magazzini LaFayette. Mi mancheranno le chiacchierate con gli addetti del reparto musica, grandi conoscitori della materia, le mie incursioni in compagnia di mio cugino Massimiliano,  i sorrisi delle cassiere da cui ogni volta portavo via una piccola storia per il mio diario.

Lo so, Fnac Italia, che non bisogna essere sentimentali al giorno d’oggi. Mi toccherà espatriare in Francia, perché senza Fnac io non posso stare. Il motivo è uno solo: sulle tue scale mobili ho fatto salire e scendere un mucchio dei miei sogni. Alcuni li ho riposti nei tuoi scaffali, tra libri, dvd e cd. Un giorno tornerò a riprendermeli.

Habemus il Presidente: Re Giorgio e la disfatta della classe politica di Pierluigi Bersani

Un caricatura dal web

Rosario PipoloNella nostra storia repubblicana non si è mai visto un teatrino così ridicolo come questa elezione del Capo dello Stato. Giorgio Napolitano, l’ultimo volto istituzionale, ritratto in questa vignetta di Portoscomic.org, sopravvissuto ai balletti del Belpaese movimentista, ci ha salvati dal naufragio. Ha accettato di essere rieletto Presidente della Repubblica. Speriamo che il Quirinale non prenda esempio del Vaticano e che “Re Giorgio” non segua le orme di Papa Ratzinger per un ritiro anticipato.

Su tutto questo ambaradan si sono espresse troppe voci, persino quelle discordanti che vacillano fuori dal coro, ma nessuna ha centrato la stonatura. Lo ha fatto invece con la classe e l’ironia di sempre Lady Luciana Littizzetto, che ieri sera a “Che tempo che fa” ha letto a “Re Giorgio” una letterina con un post scriptum emblematico: “Napolitano torna al Quirinale, si mormora di Amato come Presidente del Consiglio, se le gemelle Kessler accettano una prima serata su Rai Uno, siamo veramente un paese proiettato verso il futuro!”.

Dall’altra parte dell’ambaradan ci sono le “lacrime” romanzate di Pierluigi Bersani, dimissionario in esilio dopo aver ridicolizzato Marini e Prodi , che ci hanno rimesso la faccia cascandoci come due pesci lessi: i due santini della Prima Repubblica pensavano davvero di poggiare il culo sulla poltrona del Quirinale. Questa elezione presidenziale ha dimostrato con i numeri alla mano che in Italia, con il tiro alla fune tra Destra e Sinistra, siamo in pasto ad una grande armata Brancaleone. Neanche un pianto alla Fornero, potrebbe convincerci del contrario.

Mentre il PD cerca alla svelta la scorciatoia di un congresso per farsi passare il più dolorso mal di pancia degli ultimi vent’anni, qualche vecchia volpe socialista se la ride e se la canta. E’ come dire che la storia repubblicana è una ruota che gira e i tradimenti prima o poi si pagano. La classe politica che, dopo l’uragano di Tangentopoli, intortò il Belpaese confezionando le vecchie falce e martello con il decalogo del socialismo europeo e lo scudo democristiano, è pronta per andare in pensione. Basta vedere le facce trafitte di un Massimo D’Alema o di una Rosy Bindi.

Consoliamoci. Abbiamo un Presidente della Repubblica quasi novantenne, la cui autorevolezza non basta a far sentire l’Italia un Paese “ringiovanito”. Ammettiamolo. Viviamo in un Paese ammalato di nostalgia cronica per gli inciuci in stile Pentapartito, che non sa affrontare le sfide del futuro. E l’ironia sopra le righe di Luciana Littizzetto ce lo ha ricordato con garbo.

Londra saluta Margaret Thatcher e dimentica gli angeli caduti in volo

Rosario Pipolo“Oggi siamo tutti thatcheriani”. Le parole di Davi Cameron, nel giorno in cui Londra ha dato l’ultimo saluto a Margaret Thatcher, sono inesatte. Non è così e lo sanno bene il volto pallido della storia britannica, sulla coda del ‘900, così come i minatori che hanno organizzato una festa folk dall’altra parte del Paese. Mentre il feretro della Lady di Ferro si muoveva lento verso St. Paul, ripensavo ad un altro funerale affollato, quello di Lady Diana Spencer, la principessa amata dal popolo e osteggiata da Buckingham Palace.
Quella era la fine di una favola da fotoromanzo popolare con la regina coronata, che non sapeva se abbassare il capo dinanzi al passaggio del feretro. Qui si trattava di un capo di Stato, di un ex ministro che aveva tenuto in pugno, dal 1979 al 1990, il destino della Gran Bretagna. Persino il Big Ben si è ammutolito. Non accadeva dai tempi dell’addio a furor di popolo a Winston Churchil.

Troppa scena per dare solennità al momento, per restituire smalto ai nuovi rampolli del partito Conservatore, per fare uscire dallo zoo della politica d’oltremanica le scimmiette come Tony Blair, che fecero crogiolare i progressisti sulle gambe del thatcherismo. “Oggi non siamo tutti thatcheriani”, ribadirei, aggiungendo però che la Sinistra blairiana lo è stata quando non sapeva più che pesci prendere.

La regina Elisabetta in testa, era lì nel silenzio tombale che ha trasformato la ciurma dei capi di Stato invitati come un set di manichini da vetrina. La verità spetta di diritto alla voce delle nostre coscienze. Quando la bara è uscita da St. Paul avvolta dalla bandiera, mi sono convinto che in quella cassa di legno pregiato non c’era Margaret Thatcher. C’erano tutti i corpi e gli spettri dei morti sotto il suo regime tra tensioni sociali, aggressività colonialista e vecchi rancori tenuti a marcire in Irlanda. Non ho più visto la folla che salutava Lady di Ferro, ma le urla di donne, uomini e bambini che si sono visti strappare un caro dalla loro famiglia, negli anni in cui quel pugno di ferro sfigurò il volto della Gran Bretagna, privandolo di umanità e facendolo a pezzetti nella più grande macelleria sociale.

Maggie riposa e basta. Se esiste una giustizia divina, la pace spetta agli angeli spediti all’inferno durante il tuo regime.

“L’ultima neve alla masseria” a Roma, analisi tra autobiografia, psicologia e immaginazione

Assieme a Massimo Calanca alla presentazione del libro


Ospito sul blog il testo integrale dell’intervento di Massimo Calanca, in occasione della presentazione a Roma del mio libro “L’ultima neve alla masseria” presso la sede dell’Associazione Centro Internazionale CinemAvvenire.

Mi fa piacere presentare il libro “L’ultima neve alla masseria”, perché Rosario Pipolo è stato uno dei primi partecipanti alle iniziative di CinemAvvenire alla Mostra del Cinema di Venezia. La nostra iniziativa veneziana ha avuto fin dall’inizio l’obiettivo di trasmettere ai giovani, attraverso l’arte cinematografica, non solo la conoscenza e l’amore per un cinema “che aiuta a capire la vita ed a viverla meglio”, come diceva Gillo Pontecorvo, il maestro che ha fondato insieme a noi l’associazione; ma anche il desiderio e il piacere della creatività, applicata sia all’arte vera e propria, sia alla propria esistenza individuale, “per fare della propria vita un’opera d’arte”, come ha detto Antonio Mercurio, il maestro a cui si è ispirato gran parte del nostro lavoro di psicoterapeuti.

Il libro di Rosario è un misto tra l’autobiografia e il romanzo. Lo potrei definire una ricerca autobiografica di fantasia. A ben vedere, ogni opera d’arte è in qualche misura autobiografica, anche se parla di mondi lontani dall’esperienza di vita dell’autore, perché questi non può fare a meno da un lato di mettere dentro l’opera se stesso e la propria esperienza di vita, e dall’altro di ricercare un senso alla propria vita addentrandosi nei pensieri e nelle vicende dei personaggi di finzione. Ha scritto Luigi Pareyson: “L’arte è l’attività formativa per eccellenza….. La persona dell’artista è al tempo stesso “contenuto” e soggetto formante; mentre, nell’interpretazione, la persona del fruitore “si fa organo di accesso all’opera e, rivelando l’opera nella sua natura, esprime nel contempo se stessa”. E poiché la vita umana è tutta invenzione, produzione di forme, “l’arte modifica la nostra capacità formativa e quindi lo stesso nostro modo di vedere e formare la realtà e la vita.” (L. Pareyson, Teoria delle formatività”).

Ma, se ogni opera è in qualche modo autobiografia, esistono tuttavia opere, come questa di Pipolo, più chiaramente e direttamente figlie del pensiero autobiografico. Capita a tutti, prima o poi, di sentire il bisogno di ripensare alla propria vita passata e di raccontarsela e raccontare se stessi a se stessi (e qualche volta agli altri) in modo diverso dal solito. E’ quello che viene chiamato “pensiero autobiografico” (Duccio Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore). “Il momento in cui sentiamo il desiderio di raccontarci è segno inequivocabile di una nuova tappa della nostra maturità. Poco importa se ciò accada a vent’anni piuttosto che a ottanta. E’ l’evento che conta, che sancisce la transizione a un altro modo di essere e di pensare.” (Ivi.) Il pensiero autobiografico è quell’insieme di ricordi della propria vita trascorsa, di ciò che si è stati e che si è fatto, che ripercorriamo in cerca di un nuovo senso. Anche quando tale pensiero si rivolge verso un passato doloroso, di errori o occasioni perdute, è un’occasione di un “ripatteggiamento”, di una riconciliazione, a volte con sentimenti di maliconia o di compassione, ma comunque di rappacificazione con se stessi. “Ciò che è stato poteva forse compiersi altrimenti, la storia potrebbe aver avuto altri finali, ma, comunque sia, ora quella storia è ciò che è. E si tratta di cercare di amarla, poiché la nostra storia di vita è il primo ed ultimo amore che ci è dato in sorte” (Duccio Demetrio, op. cit.).

Paradossalmente questo non ci porta alla chiusura individualista o egocentrica, ma al contrario ci aiuta a sentire che condividiamo l’essere al mondo di tutti gli altri. Il pensiero autobiografico in qualche modo ci cura. Mentre ci rivediamo alla moviola (“sviluppiamo i negativi della nostra vita”, come ha detto Marcel Proust), ci riprendiamo tra le mani, “ci prendiamo in carico (in cura) e ci assumiamo la responsabilità di tutto ciò che siamo stati o abbiamo fatto e, a questo punto, non possiamo che accettare” (D: Demetrio). Ma questo non significa rassegnazione. Da un lato significa accettazione, cioè amore per noi stessi. Dall’altro può significare decisione di cambiare o di lasciare andare qualche parte di noi, proprio alla luce dell’esperienza passata rivisitata, meglio compresa e “metabolizzata”. Cioè è un’occasione di trasformazione esistenziale che guarda al futuro.

Infatti il ricordo non è mai soltanto un semplice rivivere il passato. Da un lato, certo, è una riedizione, cioè ci fa rivivere, mentalmente ed emozionalmente, situazioni già vissute, che ci richiamano e ci legano in qualche modo al passato, e a volte rischiano di farci rimanere dentro il circolo vizioso della “coazione a ripetere”. Dall’altro, poiché noi non siamo più quelli di un tempo ed inoltre il nostro Sé ci spinge ad evolvere e a crescere, il ricordo è sempre qualcosa di rivisitato, di nuovo, di diverso, di inventato, che già contiene in parte quello che siamo diventati oggi e quello che vogliamo diventare domani.

L’autobiografia non va intesa come una specie di farmaco che ci aiuta a liberarci dal nostro passato prendendone le distanze. Questo può valere in parte per le situazioni traumatiche che abbiamo rimosso o dimenticato, di cui fatichiamo a prendere coscienza, e che quindi ci condizionano senza che ne siamo consapevoli. Allora, rivisitarle con il ricordo e oggettivarle con l’autobiografia, può servire non a liberarsi di loro, ma a liberarsi del conflitto inconscio che continuano a generare, per integrarle armoniosamente nella nostra personalità. “L’autobiografia non è soltanto un tornare a vivere: è un tornare a crescere per se stessi e per gli altri…è un viaggio formativo e non un chiudere i conti” (D. Demetrio). “Io pongo il mio passato come mio avvenire, mi sottraggo alla minaccia della dispersione e stabilisco l’unità e la coscienza del mio io” (Nicola Abbagnano, “Introduzione all’esistenzialismo”, Mondadori).

“E’ vero che scruto nel mio passato per trovare chi sono, da dove vengo, chi mi ha aiutato ad essere ciò che poi sono divenuto; però è pure vero che, già con quest’opera di scavo, mi apro al mondo, ad altre possibilità” (D. Demetrio). “Entrare in autobiografia” (come la definisce Vincenzo Masini) è superare la paura del tempo, perché l’atto autobiografico è sempre al presente. S. Agostino, nel suo interrogarsi sul tempo, scrive: “… Futuro e passato non esistono… impropriamente si dice: tre sono i tempi, il passato, il presente e il futuro. Più esatto sarebbe dire: tre sono i tempi: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Queste ultime tre forme esistono nell’anima … il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuizione diretta, il presente del futuro è l’attesa.” (S. Agostino, Le confessioni) Lo stesso poeta Gibran non si allontana da S. Agostino quando, interrogato sul tempo, risponde: Vorreste misurare il tempo, l’incommensurabile e l’immenso. Vorreste regolare il vostro comportamento e dirigere il corso del vostro spirito secondo le ore e le stagioni. Ma l’eterno che è in voi sa che la vita è senza tempo. E sa che l’oggi non è che il ricordo di ieri, e il domani il sogno di oggi.

Ma se col pensiero volete misurare il tempo in stagioni, fate che ogni stagione racchiuda tutte le altre. E che il presente abbracci il passato con il ricordo, e il futuro con l’attesa.” (Kahil Gibran, Il profeta). Come è noto, il concetto di Sé è molto importante in psicoterapia. Un elemento caratterizzante del Sé è il suo manifestarsi in forma narrativa. Ha scritto lo psicoanalista junghiano Robert H. Hopcke: Essere umani significa raccontare storie, vivere e usare dei simboli per dare senso alla nostra vita, cercare un’esperienza profonda e diretta di ciò che trascende la nostra limitata esistenza mortale…(Robert H. Hopcke, Nulla succede per caso. Le coincidenze che cambiano la nostra vita, Mondadori, Milano, 1998). Scrive Andrea Smorti, uno psicologo cognitivista che ha studiato il pensiero narrativo: “Che cosa è il Sé? Non è facile definirlo. Ce lo possiamo però rappresentare come un testo che giorno dopo giorno viene scritto dal soggetto stesso e dagli altri”.( Andrea Smorti, Il Sé come testo. Costruzione di storie e sviluppo della persona, Giunti, Firenze, 1997. Il corsivo è mio)

Lavorare alla propria autobiografia non significa soltanto affastellare insieme una serie di ricordi che emergono alla mente alla rinfusa, ma anche ricercare le connessioni, i nessi, le coerenze tra i ricordi, ricomponendoli in figure, disegni, architetture. Ogni singolo ricordo è un segno, che ha “graffiato” la nostra vita come una lastra da incisioni, ma appartiene ad una rete che tende a ricomporlo in una scena, in una storia dotata di senso. La mente non si limita a rievocare immagini tra loro isolate e distinte. L’intelligenza retrospettiva ricostruisce, collega e quindi colloca nello spazio e nel tempo, riesce a dar senso agli eventi solo se li colloca in un processo e in un percorso. L’autobiografia, sia quella che rimane ad uso personale, sia quella che ha ambizioni letterarie, viene scritta perché l’autore ha bisogno di attribuirsi un significato, e forse più di uno, e di presentarsi in modo nuovo a se stesso e, qualche volta, al mondo.

Ma ho detto che il romanzo di Rosario Pipolo è anche fatto di immagini fantastiche. Sia nella storia che il protagonista racconta di sé, dei suoi familiari e della sua terra, sia in alcuni dei personaggi tra il reale e l’onirico che incontra nel suo ritorno a casa, sia nella sua ricerca documentaria delle proprie origini, a figure della realtà, che hanno il sapore inconfondibile del vissuto personale nella terra e nella cultura del suo paese, si mescolano immagini della fantasia. Lo stile di questo “melange” mi ricorda quello del Fellini di “Otto e ½” o di “Amarcord”, film dove realtà, sogno, immaginazione e prefigurazione, si inseguono sulla base di associazioni più analogiche che logiche, più emozionali che razionali; anche se l’insieme finisce per comporre un “puzzle”, o meglio un affresco, in cui pian piano emerge il senso faticosamente cercato dal protagonista e dall’autore riguardo la propria opera e la propria vita. Ho pensato che non a caso Rosario, anni fa, si è impegnato nel progetto “Fellini 2000”, evento omaggio al grande regista, realizzato in collaborazione con la Fondazione Fellini e Mediaset.

Ma, al di là delle suggestioni e dei rimandi, la parte fantastica del romanzo di Pipolo è altrettanto, se non più, interessante di quella del ricordo reale per la ricerca di senso di cui sto parlando. Infatti, la fantasia – quando non è impacciata da intenti didascalici o dimostrativi, ma si esprime con associazioni libere guidate da autentiche emozioni – è capace di illuminare di senso e di nuovo significato fatti, eventi e situazioni che nella semplice ricostruzione del vissuto ci appaiono inesplicabili ed oscuri. E’ il potere del pensiero primario, che attraversa facilmente nei due sensi il confine tra l’inconscio e la coscienza, mettendo in comunicazione mondi separati e diversi e creando collegamenti e nessi che mettono in luce aspetti nuovi e significati inediti di eventi, cose, persone.

E infatti è dall’intreccio di ricordi reali e fantastici che emerge a poco a poco il senso che Pietro, il protagonista, ritrova. Non è tanto importante portare fino in fondo la ricerca delle radici reali, quanto metabolizzare i ricordi del passato integrandoli nella propria personalità unificata, filtrandoli e risanandoli, affinché non ingorghino il futuro, attraverso il sogno del padre, “quell’ultima neve alla masseria” rimasta ancora intatta nonostante il degrado del tempo e di uno sviluppo sociale ed economico senz’anima. Discorso che io interpreto così, nel mio linguaggio La ricerca di senso è indispensabile per uscire dal nichilismo disperante. La distruzione di tutti i valori operata dalla razionalità occidentale, se da un lato ci ha liberato da schemi mentali e di comportamento limitanti e spesso soffocanti, aprendoci a nuove possibilità di libertà, dall’altro ci ha privato di ogni punto di riferimento e, soprattutto, del senso e del significato della realtà e della vita. Sembra che manchi il motivo e la direzione del nostro agire e del nostro stesso stare al mondo. E ciò, al di là dell’illusione di riempire questo vuoto con il consumo, con “quell’edonismo di massa” di cui ha parlato Pasolini, non può che produrre disperazione.

Ma davvero la ragione deve limitarsi a togliere senso? – si è interrogato Eugenio Scalfari. – Non potrebbe invece avere un’autonoma capacità di dare senso e valore, cioè contrastare il nichilismo con le forze dell’illuminismo invece che con quelle del mito? Secondo me, da sola, la ragione non basta, anche se può dare un grande contributo a questa ricerca. Occorre addentrarsi anche nei territori oscuri dell’inconscio, degli archetipi, dei miti; confrontarsi con le parti oscure che ci abitano come esseri umani, nei ricordi personali della nostra infanzia ma anche in quelli ancestrali della specie che sono stampati dentro di noi. Contrastare la rimozione e l’oblio, per portare queste parti alla luce, non per eliminarle in quanto parti oscure, ma per unificarle con le nostre parti luminose e diventare così persone intere.

In fondo ogni opera d’arte è il frutto di una sintesi di opposti. Questo vale sia per l’arte vera e propria, sia per l’opera d’arte della nostra vita. E ognuno di noi oggi deve fare questo percorso in parte insieme agli altri, cioè ai personaggi del suo passato, del suo presente e del suo futuro, perché “l’Io senza il Tu non esiste”, come ha detto Martin Buber. Inoltre deve farlo riallacciando i nessi con il padre, con quel “principio paterno” che è insieme garanzia di radicamento nella storia evolutiva dell’uomo e prospettiva di ulteriore evoluzione verso nuove proprietà emergenti dello spirito. Ma, nella “Babele” del mondo contemporaneo, è inevitabile che ognuno debba fare questa ricerca in parte anche da solo.

E’ quello che mi pare dica il libro di Rosario Pipolo alla fine. E in questo mi pare in piena sintonia con quanto ha scritto Joseph Cambell, il grande mitologo americano: “è il cuore dell’uomo (e della donna) oggi il luogo creativo del mito moderno, il centro focale dello sguardo divino”. Di “quel Dio che in parte siamo noi e che in parte dobbiamo ancora diventare”, come ha scritto Antonio Mercurio. Senza deliri di onnipotenza, perché non nasciamo dal nulla ma veniamo dalla materia e dalla vita che agiscono secondo leggi che ci precedono. Ma anche senza rinunciare alla responsabilità che ci compete, quantomeno come co-autori della creazione nostra e del mondo in cui viviamo.

Roma, 13 aprile 2013

Massimo Calanca*

Psicologo e psicoterapeuta


* Nato a Roma nel 1947, è stato segretario nazionale dell’ARCI, organizzando tra l’altro la tournèe dei fratelli Taviani in America Latina, il viaggio di Gillo Pontecorvo in Nicaragua ed in Salvador alla ricerca delle idee per un film e fondando la ONG di cooperazione allo sviluppo Arci-Cultura e Sviluppo. Laureato in lettere moderne, si è specializzato in comunicazione sociale. Nel 1992 ha fondato con Gillo Pontecorvo alla Mostra del Cinema di Venezia l’associazione CinemAvvenire, per promuovere l’amore e la conoscenza del cinema tra i giovani e gli studenti, divenendone presidente alla scomparsa del fondatore. Vive e lavora a Roma, dove si occupa di psicoterapia, counseling e formazione.

Il successore di Napolitano: Paz, ci riprendiamo il partigiano Pertini?

Sandro Pertini di Andrea Pazienza

Rosario PipoloTanto rumore per nulla con tutti gli uomini del Presidente. Accostare una commedia di Shakespeare al titolo di un film per giocare con le parole appare proprio una scostumatezza. Mai come questa volta la scelta del Capo dello Stato ci sembra un’impresa napoleonica, tra le Quirinarie grilline, rallentate da un flop di sistema, e gli inciuci di palazzo, con facce della vecchia guardia bene in vista. Augurandomi che non spediscano D’Alema o la Bindi al Quirinale, vorrei buttare ad indovinare chi sarà il successore di Napolitano alla Presidenza della Repubblica.

E con un Papa Argentino sotto la Cupola di San Pietro, bissare uno smacco ci starebbe bene: ripetere quello del 1978 – all’epoca ero viziato dalle coccole della maestre d’asilo – che regalò all’Italia un Partigiano come Presidente. Ah, se mi leggesse Andrea Pazienza in questo momento. Gli chiederei in ginocchio di disegnarmi tanti manifesti, uno diverso dall’altro, con il faccione di Sandro Pertini. Paz sì che mi capirebbe. E su ognuno scriverei a caratteri cubitali: “Ridatemi il mio presidente partigiano”.

Lo rivoglio, con il suo sorriso sornione, condimento di uno sguardo saggio. Restituitemi il Pertini acuto, sensibile, sempre con una parola pronta per dare conforto ai giovani.
Restituitemi il Pertini con la sacca zeppa di memoria, quella che si è intrufolata nel cinema neorealista, sopravvissuto alla censura democristiana. Restituitemi il Pertini tifoso della Nazionale che balzò dagli spalti come un ragazzino la prima volta allo stadio. Restituitemi il Pertini socialista, della razza a favore del bene comune prima che il fango “apparentemente” riformista spazzasse via un sogno in quel congresso della fine degli anni ’70.
Restituitemi il Pertini che se ne andava a passeggiare in montagna con un polacco parroco del mondo o quello in mezzo alla gente, in lacrime di fronte al pozzo in cui smise di respirare il piccolo Alfredino Rampi.
Restituitemi il Pertini che fu definito “squilibrato”, spesso “sopra le righe” e che avrei voluto come nonno. Lui è stato il nonno della mia generazione e ci ha indicato la strada per scappare dall’ovvio conformismo di pensiero.

Paz, a che ora passo a prenderti per appiccicare questi manifesti? Me lo disegni sì o no Sandro Pertini?

A ripetizione di teatro da Regina Bianchi, l’ultima grande Filumena Marturano

Rosario PipoloNel 1988 mi presentai in camerino a fine spettacolo. Avevo un piccolo registratore a cassette. Regina Bianchi mi rimproverò: “Guagliò, vai a giocare con quelli dell’età tua. Che ce fai a sentì ‘na vecchia comme me?”. L’attrice era della stessa generazione di mia nonna Lucia. Le dissi che non mi interessava quello che facevano i miei coetanei. A quindici anni volevo capire da lei di che materia fosse fatto il teatro.
Regina cominciò a struccarsi. Il mio sguardo incrociava il suo attraverso lo specchio di un teatro alla periferia di Napoli, mentre mi accennava all’incontro con il palcoscenico e all’esperienza con Eduardo. Alla fine di questa breve lezione, precisò: “Guagliò, il teatro è sacrificio costante e quotidiano. E’ come la vita. Finché non lo avvertirai sulla tua pelle, non capirai mai questo mestiere”.

Ogni stagione teatrale capitava che la incontrassi, puntualmente alla fine dello spettacolo. Mi ricordo una volta la sua assistente: “Signò, c’è quel ragazzino con gli occhiali. Ve lo ricordate?”. E lei, dopo avermi riconosciuto, ripeteva: “E tu ccà nata vota staje”. Regina Bianchi aveva capito che il mio “toc toc” alla porta del camerino assomigliava alla voglia di prendere ripetizioni di teatro. Si trasformò in un piccolo rito e una volta aggiunse: “Mi sento una nonna che racconta il teatro al nipote incuriosito”.

Per diversi anni la persi di vista. La incrociai a metà degli anni Novanta. Lei non lo riconobbe quel giovane giornalista, che fu annunciato per una breve intervista. Le chiesi della severità di Eduardo De Filippo e dell’aneddoto che circolava tra noi addetti ai lavori: pare che Eduardo l’avesse buttata fuori dalla compagnia perché, dopo una rappresentazione di Filumena Marturano, chiamata dal pubblico che la acclamava, avesse fatto un passo in avanti per prendersi gli applausi. Secondo il rigido protocollo, non avrebbe dovuto commettere questa gaffe perché sarebbe toccato al capocomico, Eduardo in questo caso, prenderla per mano e condurla verso il pubblico.

Regina Bianchi fu molto diplomatica e replicò: “Crede pure agli aneddoti?”. Cambiò discorso. Io per smorzare i toni, le rivelai chi fossi. Sorrise e si ricordò. Anzi, mi chiese anche di mia nonna Lucia,  perché una volta aveva apprezzato un suo maglione all’uncinetto che indossavo. Quando avvertì il mio dolore – l’avevo persa da pochi mesi – mi diede una lunga carezza. Mi guardò con lo stesso sguardo della sua Filumena Marturano, come a voler dire che “io la soddisfazione di piangere l’avevo potuta avere perché il bene lo avevo conosciuto”.
L’accompagnai all’auto, tenendola sottobraccio. Quella fu l’ultima volta che la vidi. Scomparve nel buio l’attrice Regina Bianchi, che con il suo stile recitativo sobrio e interiore aveva dato voce all’anima di Napoli,  e riapparve la sagoma di donna Regina D’Antigny. Adesso il sipario è calato, per sempre. Per me no, che ho avuto la fortuna di prendere qualche ripetizione di teatro da lei.

  E’ morta Regina Bianchi, grandissima del teatro napoletano.

Perché racconterò la Milano City Marathon 2013 con la T-shirt “El purtava i scarp del tennis”

Rosario PipoloNon sarò mai un maratoneta. Questo lo so. Da qualche anno a questa parte però mi capita di raccontare la Milano City Marathon attraverso i social network. Ripesco così le mie origini di cronista d’assalto per i quotidiani e le mescolo a tutte quelle diavolerie tecnologiche, che poi sono gli attrezzi del mio mestiere. Nella mia “social marathon” di domenica 7 aprile indosserò la maglietta degli staffettisti in una versione unica e speciale, con la scritta sul retro “El purtava i scarp del tennis”.
È buffo pensare ad un napoletano che se ne va in giro per Milano con il titolo di una canzone milanese. Quando gli organizzatori dell’evento sportivo hanno presentato un prototipo di t-shirt per omaggiare Enzo Jannacci, scomparso la settimana scorsa, ne ho chiesta una tutta per me.

Sono stato esaudito. E non l’ho fatto per il legame privilegiato avuto con le canzoni del cantautore milanese e per gli incontri condivisi con lo stesso Jannacci nella Milano degli ultimi dieci anni. L’ho fatto perchè nella sportività della Relay Marathon, che fraziona il percorso della Milano City Marathon in più tappe, si intravede la generosità artistica di Enzo Jannacci. Le sue canzoni hanno attraversato Milano per mezzo secolo lasciando nei punti di cambio una staffetta per la generazione successiva: il valore del pensiero e della riflessione aggiunti all’ironia, alla surrealtà, all’ilarità. La staffetta si vince se c’è il team, proprio come il canzoniere di Jannacci, che continua a fare gioco di squadra con gli stati d’animo del nostro tempo.

“El purtava i scarp del tennis” non è solo il titolo del famoso brano che riascolterò puntualmente ad ogni punto di cambio della Relay Marathon. È soprattutto il titolo assegnato ad “un pretesto”, quello di “correre” con la fierezza di un podista ma che ha nel cuore le poesie musicate di Enzo Jannacci.

Roma e l’addio al suo Califfo: “Tutto il resto è noia.”

Rosario Pipolo“Ciao, Franco. Ora senza te, tutto il resto è noia” non ha l’aria del solito striscione di un concerto allo stadio. E’ l’epigrafe che la borgata romana dedica al suo cantore, Franco Califano, con un vezzo da balera che mischia l’esistenzialismo di un Moravia agli eroi della borgata pasoliniana.

Franco Califano è stato la controindicazione della voce nazional-popolare degli anni ‘70 o l’anti-divo della discografia italiana d’autore, con la spavalderia di un teddy boy della Fontana di Trevi. Dicevano che nella vita privata il Califfo ancheggiava tra la fama di sciupafemmine e quella di legami con brutti ceffi, per giunta dalla “sniffata” facile. Sul palco, dietro gli occhiali scuri, diventava il neomelodico da fotoromanzi popolari con la romanità sotto la lingua, capace di sciogliere il cuore di chi popolava il quartiere.

Nonostante ciò, senza falsi moralismi né intellettualismi sofisticati, il Califfo aveva preferito legare la sua storia privata e pubblica a quella dei farabutti da borgata, i quali nell’urlo “maledetta noia” si erano fatti traduttori dell’esistenzialismo. “Tutto il resto è noia” non è un vecchio brano dimenticato in cantina ma il manifesto di uno stato d’animo che può far sprofondare la vittima negli abissi.

Esistere vuol dire anche osare per rincorrere le vittorie e le sconfitte dei giorni fugaci. Franco Califano intraprese più di quaranta anni fa una crociata contro quella “maledetta noia”. Si è dovuto ricredere chi lo accusava di nascondersi dentro un paio di occhiali scuri. La borgata romana però è andata oltre l’irrisoria apparenza. Il Califfo li metteva per capire di che forma fosse fatto il cuore del suo pubblico, che non lo hai mai lasciato solo, neanche quando la solitudine ha tentato di divorarlo e farlo a pezzetti.

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