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Archives Gennaio 2016

La mia Giornata della Memoria al Rifugio antiaereo n.87 di Milano

Rosario PipoloIn una gelida e grigia mattina di metà gennaio ero in viale Bodio a Milano, davanti al cancello della scuola primaria Giacomo Leopardi. Attraversai il cortile, i bimbi avevano iniziato le lezioni già da un pezzo. Scendendo una ventina di gradini, mi ritrovai nel sottosuolo. Simona Di Rocco, la mia guida, aprì la porta, non ero in uno scantinato.
Nel Rifugio antiaereo n.87, che aveva salvato dalle bombe centinaia e centinaia di uomini, donne, bambini, mi sentii improvvisamente un cavernicolo della memoria, come quando avevo camminato a carponi lungo il Tunnel di Sarajevo, luogo simbolo di sopravvivenza della guerra serbo-bosniaca.

Le mura, le scritte, lo spazio dove le ombre erano trafitte dal buio: qui inghiottii pensieri proprio come avevo fatto ad Auschwitz e Birkenau, dopo il lungo tragitto che mi aveva condotto con un autobus locale da Cracovia. Tuttavia, il sottosuolo di viale Bodio non era luogo di morte, ma un enorme spazio seppellito , casa per tanti durante la Seconda Guerra Mondiale.
Mi venne in mente il suono delle sirene, sentito tra i racconti di nonno Pasquale e nonna Lucia, che correvano ai ripari dalle bombe sotto il tunnel al confine napoletano tra Mergellina e Fuorigrotta.

Mi distrassi facendo scivolare il palmo della mano sinistra sul legno tarlato di una cattedra di allora, come se fossi finito in una pellicola di Rossellini. Per contrasto mi rividi nell’aula delle mie elementari, alla periferia di Napoli, da dove si sentiva il rumore lontano delle bombe, lanciate dalla Nuova Camorra Organizzata, nella faida fratricida dei clan. In paese vigeva l’omertà, perché i “brutti ceffi” portavano valanghe di voti ai papponi politici del territorio.
Ogni generazione ha le sue bombe, ogni generazione ha guerre vissute e taciute.

I cartelloni colorati degli alunni della Leopardi, su una parete del Rifugio 87,  recitavano a caratteri cubitali “Sopralluogo”, in poche parole il motivo per cui ero venuto. Mi ero ritrovato invece a fare l’ennesimo viaggio dell’altro giorno della memoria, per cui vale la pena ricordare ai nostri bambini che un rifugio antiaereo non è purtroppo un luogo dismesso del passato, perché in tante parti del mondo, non molto distanti da noi, proteggono in questo momento tanti rifugiati.

Oggi, nella Giornata della Memoria, il risveglio è guardingo e fa da sentinella ai genocidi intorno a noi che non vediamo. Che il Rifugio 87 di Milano, grazie all’impegno di scuole, associazioni, volontari, diventi sempre più meta di tutti. Non è mai abbastanza il tempo per riflettere.

Oggi ritorno qui, perchè anche una profonda riflessione può prendere la forma di una preghiera.

Cartolina dai Campi Flegrei: Franco e i Pooh, 50 anni di vita e musica

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Rosario PipoloA Napoli porta bene se il tuo cinquantesimo compleanno coincide con quello della band musicale seguita da una vita. Mentre Roby Facchinetti, Dodi Battaglia, Red Canzian, Stefano D’Orazio e Riccardo Fogli si preparano ai festeggiamenti di mezzo secolo di Pooh, io ritrovo il fan napoletano che proprio oggi spegne cinquanta candeline.

Avevo conosciuto Franco ai tempi dell’università, si era trasferito dal Vomero nel condominio dei Campi Flegrei dove abitavano i miei nonni. Attraversando il cortile dello stabile del ’59, sentivo spesso sottovoce quelle poesie in musica composte dal compianto Valerio Negrini, al tempo in cui le canzoni in Italia non venivano prese troppo sul serio se non erano “politicamente” impegnate.

Ho imparato a conoscere le piccole storie della vita di Franco attraverso la passione per i Pooh. Quante volte ci siamo fermati nel cortile del palazzo a condividere aneddoti: un amore musicale nato nel 1978 da un juke box al lido Bikini di Minturno e poi da allora tante fughe per i concerti dei moschettieri della musica italiana.
A quindici anni Franco scappò a Roma per il primo live della band, mentre la mamma dormiva sonni tranquilli, sapendolo a casa di un amico. Si cresce con ricordi musicali come Eleonora mia madre, senza sapere che, anni dopo, avrebbe conosciuto di persona Red Canzian, voce di quella canzone.

Toccò proprio al fan partenopeo togliere una curiosità al polistrumentista trevigiano, spiegando il significato della parola napoletana cazzimma. Quando Red gli chiese cosa fosse, Franco replicò alla maniera di Alessandro Siani: “Nun t’o voglio dicere. Chest’è ‘a cazzimma.”

Le canzoni hanno il merito di avere appese al collo le pagine del diario del quotidiano, circoscrivendo gli imbarazzi della memoria nel ricordare gli amori della nostra vita. Franco ne ha avuto uno, Rosa, fidanzata di ieri, moglie per sempre, mamma di Umberto, Marco e Sara.
Oggi, nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, posso fare una confessione a colui che è rimasto l’unico amico di quel condominio ai Campi Flegrei, custode di una parte meravigliosa della mia vita: negli anni in cui affannavo entrando in quella casa, vuota, buia, senza la luce dei nonni Pasquale e Lucia, le chiacchierate e le canzoni condivise con Franco hanno reso meno faticosa la scalinata verso il sesto piano.

E’ proprio vero, 50 anni di vita e musica quelli tra Franco e i Pooh. In mezzo è diluita anche qualche goccia della mia memoria.

Ritornerà il Duca David Bowie, “Lazzaro” della musica che sbeffeggiò la morte

Rosario PipoloAlla fine dello scorso settembre in tanti ci consolammo con i vinili restaurati del primo David Bowie 1969-1974, sbucati da un elegante cofanetto. Non fu la fissazione per il feticcio, quanto la voglia di interrogarsi sul perchè quella materia musicale di oltre quarant’anni fosse reincarnazione del futuro.

Quando alle 8.30 di questa mattina ho lanciato incredulo il tweet sulla scomparsa del Duca Bianco, mi sono pentito degli ultimi 14 caratteri spazi inclusi: “…ci ha lasciati”. Ci ha lasciati l’alter ego Ziggy Stardust, Halloween Jack, the White Duke o Glass Spider?

Bowie si è preso gioco di noi, che avevamo visto in lui una scheggia impazzita dell’universo, facendo credere che l’album Blackstar fosse un bel regalo per il suo sessantanovesimo compleanno.
Invece no, il testamento dissacratorio era già tutto scritto nel brano Lazarus e nel video onomino diretto da Johan Renck, che lo vede in un letto di un ospedale psichiatrico nelle vesti del personaggio evangelico, amico di Gesù di Nazareth. Tra le bende si intravede il Bowie malato che sbeffeggia la morte.

Quelle che un tempo furono camaleontiche trasformazioni, oggi restano l’abbagliante resurrezione di un artista del XX secolo che ha aggredito il melanoma dell’omologazione, di cui siamo ammalati cronici, attraverso ogni forma d’arte della re-invenzione.
David Bowie ha fatto della musica, dal glam rock al rock sperimentale, dal proto-punk alla new wave, il midollo spinale della pittura che mescola avanguardismo, classicismo,  street-art, fantascienza. David Bowie ha reso i testi delle canzoni delle incandescenti sceneggiature da cinema, trapiantate al posto dei nostri occhi miopici e strabici, per un ritorno alle origini con lo sguardo interiore sull’esistenza.

Il trasformismo e i travestimenti di David Bowie non sono stati capricci di edonismo futurista, ma il teatro dell’ultimo jedi dell’esistenzialismo che si è sforzato di affrontare la depressione umana della morte circoscritta nell’epitaffio “polvere siamo e polvere ritorneremo”. Ritornerà il ragazzotto di Brixton che ha folgorato il XX secolo, unendo monarchi, proletari, borghesi, arcivescovi protestanti, laburisti e conservatori.
Ritornerà L’uomo caduto sulla terra perchè “puoi semplicemente guardare ai miei dischi e capire cosa provo”. Ritornerà il Duca Bianco perchè “è anche vero che la vita stessa è artefice di noi stessi”. State a vedere.

Cartolina da Napoli: Epifania senza ‘a Maronna e ‘o bambiniello

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    Foto di Ivana Pipolo

Rosario PipoloQuest’anno i Magi non hanno trovato ‘a Maronna e ‘o bambiniello nel giorno dell’Epifania. Nella Napoli troppo distratta dal torpore della fine delle festività – la Befana tutte le feste porta via – e dagli affannosi auguri porta a porta in vista delle prossime elezioni comunali, neanche i turisti si sono accorti della fuga premeditata della ragazza madre e del suo bambino.

Scampato il pericolo dell’aborto, dovrà vedersela con gli assistenti sociali che prima o poi tenteranno di scipparle il pargolo, proprio come fece Erode più di duemila anni fa. La riterranno incapace di ricoprire il ruolo di madre, senza chiedersi semmai ci fosse stato qualcuno a metterla in condizione di svolgere il mestiere più utile e complicato nella società.

Mentre tutti erano incantati ad osservare il presepe, ‘a Maronna e ‘o bambiniello se le davano a gambe lungo via Cabonara, via Duomo per poi arrampicarsi, dopo la rincorsa di Spaccanapoli, sui Quartieri Spagnoli.
Per fortuna che a documentare questa natività dei giorni nostri c’era l’occhio fotografico di Ivana Pipolo, scivolando su quello stadio interiore della sospensione, lontano dalla nostra inguaribile frenesia.

Osservando questa foto mi sono tornati in mente gli assistenti sociali prevenuti e con i paraocchi dell’Inghilterra thatcherista, denunciati da Ken Loach nel commovente film Ladybird, Ladybird. Napoli non è Londra, ma questa Maronna cela sotto il velo l’emerginazione galleggiante che spodesta la sicurezza di essere guidati da una coscienza civile.

Oro, incenso e mirra, i doni di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, p’a Maronna e ‘o bambiniello, ragazza madre sedotta e abbandonata nella Napoli dei giorni nostri.

Il mio Capodanno 2016 sulla strada di Memphis

Rosario PipoloNon abbassare gli occhi. Me lo ripeto spesso osservando la gente distratta per strada, ipnotizzata da un touchscreen. Nel mio recente vagabondaggio in USA ho staccato la spina dai labirinti virtuali. La mia vita è tornata sulla strada, come quando da ragazzo mollavo il condominio e mia madre puntualmente mi dava per disperso.

A Memphis, pelle nera del Tennessee, sembravo una sentinella. Avevo quaranta minuti a piedi sulla Union Avenue per rincasare. Nell’oscurità della notte non abbassavo mai la guardia, qualcuno aveva tentato di convincermi che quei cinque o sei mendicanti sulla strada, pur di avere un fucking dollar, avrebbero potuto darmi delle grane. Nella città dove fecero fuori il profeta Marthin Luther King, ci sono ancora i graffi dell’odio razziale.

Avevo confessato ad una donna delle pulizie del mio motel che volevo la pelle nera, perchè volevo far parte di quella comunità, mescolarmi, a qualsiasi costo. Le luccicavano gli occhi. Avevo rimproverato il portiere di colore di un lussuoso hotel per aver snobbato il trasporto pubblico perchè la middle class viaggia in taxi. Avevo sbraitato: “Dovrebbe tornare ad appoggiare il culo su un autobus, perchè i suoi genitori hanno battagliato per usare il trasporto pubblico”.

Girovagando a Soulsville, a pochi passi dagli studi di registrazione della Stax, mi sentivo spogliato con gli occhi. Ero entrato a prendere una birra in un supermercato della zona. Ero l’unico bianco in fila alla cassa. Una bimba teneva stretto un bambolotto nero. Ripensavo a mia sorella, in classe con la mia bambola di pezza di colore della Lousiana, che spiegava ai suoi piccoli alunni la ricchezza della diversità.

Arrivato sulla McLemore Avenue, mi sono fiondato su un marciapiede. Senza GPS, senza le mappe di google, senza gli occhiali virtuali che ti fanno vedere l’agorà sulla timeline di un social network, ho spotato in avanti le lancette dell’orologio fino al 1 gennaio 2016. Ho aperto la lattina, l’ho alzata verso il cielo. Era il brindisi di Capodanno anticipato. In fine dei conti non ero solo: dalle finestre di fronte c’erano occhi che curiosavano. Da quanto tempo non si vedeva a Soulsville un bianco ammattito?

Sulla strada finalmente avevo la pelle nera, senza per forza bisogno di sbiancare la coscienza con il soul indiavolato di Otis Redding o con lo slogan presidenziale “Yes, We can”. I pantofolai da resort sono convinti che Sulla strada sia il titolo di un romanzo del fancazzista Kerouac.

Sulla strada è la prospettiva per vivere il tessuto reale del mondo. Spero che il mio calzolaio legga quest’articolo e giustifichi la riparazione delle mie scarpe bucate a Memphis. Riparto da qui. Cin, cin.