Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Archives 2021

La Genova di De André nel silenzio della pandemia

Genova per noi nel silenzio della pandemia, come se questo viaggio di ritorno in una delle città che più mi appartiene fosse una soffusa liberazione dalle catene dei lockdown a colori. La mascherina agevola la mescolanza nel flusso di coscienza della comunità e, allo stesso tempo, impedisce alle mandibole e al respiro di muoversi liberamente. Il mondo di Fabrizio De André diventa la tua ombra, passo dopo passo.

DAL LETAME NASCONO I FIOR

In via del Campo – conosco a memoria ormai ogni angolo – di Bocca di Rosa neanche il fantasma e mi chiedo abbassando lo sguardo quanto tempo Faber abbia impiegato per scrivere quella strettoia poetica divenuta patrimonio dell’umanità: “Dai diamanti non nasce niente Dal letame nascono i fior“.
C’è sempre qualcosa che profuma di De André in questo silenzio pandemico e surreale, in questo vuoto dei crocieristi di un tempo sbarcati dalle navi con l’affanno di collezionare selfie: “Come è bello il mare, quanto dura una stanza. È troppo tempo che guardo il sole, mi ha fatto male”.

IN UNA MULATTIERA DI MARE

Risponderebbe l’altra anima salva, Ivano Fossati, che “Chi guarda Genova sappia che Genova Si vede solo dal mare Quindi non stia lì ad aspettare Di vedere qualcosa di meglio, qualcosa di più”.
Sì, tutto viene fuori per ritornare nel mare, come quello del viaggio musicale di Faber e Mauro Pagani in Creuza de mä, uno degli album più pittorici della nostra discografia:

E ‘nt’a barca du vin ghe naveghiemu ‘nsc’i scheuggi
emigranti du rìe cu’i cioi ‘nt’i euggi
finché u matin crescià da puéilu rechéugge
frè di ganeuffeni e dè figge
bacan d’a corda marsa d’aegua e de sä
che a ne liga e a ne porta ‘nte ‘na creuza de mä.


STAGLIENO

Tradurre questo genovese è una bestiemma, sembra quasi di sbucciare la poesia: “E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli emigranti della risata con i chiodi negli occhi finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere fratello dei garofani e delle ragazze padrone della corda marcia d’acqua e di sale che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare.
Sì, tutto ritorna nel mare, come le ceneri di Faber. E quando mi perdo nel cimitero monumentale di Staglieno, tra il ricordo risorgimentale di Mazzini e l’incontro indimenticabile con Nanda Pivano, mi rendo conto che è una lurida sciocchezza cercare De André oltre una lapide gelida, adesso che le sue ceneri appartengono al mare di Genova, che la difesa del suo patrimonio cantautoriale rimane un faro nella traversata del vuoto di oggi e delle sue strambe ovvietà.

NEL SILENZIO DELLA PANDEMIA

La Genova di De André nel silenzio della pandemia mi appartiene comunque e non occorre essere un genovese di razza per notare le ambulanze senza sosta, che in direzione del Pronto Soccorso del San Martino ci raccontano anche che la guerra contro il Covid è ancora in corso e non bisogna smettere mai di abbassare la guardia. Eppure in questo silenzio struggente, amalgamato al mondo poetico di Fabrizio De André, c’è un mucchio di luride parole che dissacra la memoria delle vittime del Ponte Morandi:

“Io non ci ero mai andato a Genova a vedere questo ponte mi han detto: ‘Fai l’analisi dei rischi catastrofali’. E io: ok”.

Questa intercettazione del 28 marzo 2019, che incastra l’incaricato di classificare il rischio del ponte crollato con 43 vittime, rimbomba nella Genova pandemica e batte l’ennessimo colpo d’ascia alle famiglie delle vittime e a tutti noi che aspettiamo giustizia.

Principe Filippo, un passo indietro please!

Ho messo piede la prima volta a Londra nel 1988, non avevo compiuto ancora 15 anni, per me era come essere arrivato sulla luna. Il Principe Filippo di Edimburgo era già coetaneo di mio nonno.

LE MUG SENZA IL PRINCIPE FILIPPO

Allora la popolarità dei Windsor si misurava con i souvenir in vendita su Oxford Street: le mug, i famosi tazzoni inglesi, erano le più gettonate e i volti più popolari erano la regina Elisabetta, la quasi novantenne Regina Madre e Lady Diana. Del Principe Filippo quasi niente e i turisti, sulla via del ritorno, si sarebbero giocati a sorte una delle “tre mug tutte al femminile.”
Io sono stato più diplomatico, ho dissipato le ultime sterline per regalare a mia madre una piatto da appendere alla parete che ritraeva Big Ben e Buckingham Palace, due icone londinesi, senza far torto a nessun reale.

IL CONSORTE DAL PASSO INDIETRO

Del Principe Filippo non se n’è parlato mai in questi ultimi 99 anni come in queste ore dopo il trapasso o nel ’47 quando il suo sangue greco si mescolò a quello di velluto di una delle dinastie reali più influenti d’Europa.
Non bisogna conoscere a memoria gli ultimi settant’anni di monarchia inglese per sapere che il Principe di Edimburgo sia “il consorte dal passo indietro”. Tuttavia, resta davvero infelice uno dei titoli dei nostri giornali: “Addio al Principe Filippo, ombra discreta della Regina Elisabetta per 70 anni”.

LE OMBRE NON SONO MENO IMPORTANTI DELLA LUCE

Ripeteva Charlotte Brontë, tra le mie scrittrici preferite dell’epoca vittoriana, che le ombre non sono meno importanti della luce”. Filippo sarà stato pure l’ombra di Lilibeth – questo era il soprannome di Sua Maestà appiccicatole dal principe consorte – ma ha saputo difendere fino alla fine il ruolo istituzionale nonostante il cinismo, le gaffe, l’aplomb a tratti altalenante, un lungo matrimonio reale fatto di rose e insidiose spine.
Appartiene a una razza in estinzione il Principe Filippo, che non uscì bene neanche dal pungente film The Queen dell’acuto Frears, interpretato dall’impeccabile James Cromwell. Lo ricorderemo nei libri di storia, lontano dai suoi nipoti e pronipoti schiavizzati da consorti volgari.
La Regina di Elisabetta ha perso “la sua fedele ombra” e il cammino in solitaria sarà faticoso.

Asterix e Obelix e la Francia allo specchio

Asterix e Obelix mi riportano alle estati nel Sud della Francia dalla mia famiglia, al mio studio matto e disperatissimo all’università della lingua francese e di tutta la storia che vi gira intorno. Proveniente da Parigi, questo è il primo albo della premiata ditta Goscinny (1926-1977) e Uderzo (1927-2020).

Albert Uderzo, uscito di scena il 25 marzo 2020 in piena emergenza Covid-19, aveva disegnato con la scrittura del compianto Goscinny pagine e pagine della storia a fumetti d’oltralpe. La Fille de Vercingétorix, disegnato da Conrad e pubblicato nel 2019, è l’ultimo album supervisionato dallo stesso Uderzo.

Quando ho incontrato Gérard Depardieu qualche anno fa ad un festival di cinema a Firenze, mi ha detto a proposito della versione cinematografica che ogni francese, attore o non, se si guarda allo specchio ritrova un po’ di Asterix o Obelix.
Nel 1997, all’ultimo esame di Francese all’università, portai tra i classici del ‘900 anche un albo del guerriero gallico e del suo fidato amico. Pensavo che avrei pagato caro il conto di questa “provocazione”, in realtà il gesto fu apprezzato. Dietro questa coppia a fumetti d’oltralpe, che in punta di piedi è entrata negli albi nel lontano 1959, si nascondono la Francia e le sue contraddizioni socio-politiche. Asterix e Obelix restano due maschere di personaggi riconoscibili oggi come allora.

Ciao Fraintesa, buon viaggio nell’eternità!

Per la Rete che l’amava e la seguiva era Fraintesa, per noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerla come persona ed averla come amica era semplicemente Francesca. Prima che la conoscessi professionalmente a Milano una decina d’anni fa, Francesca Barbieri era una ragazza modenese energica e appassionata della vita, della natura, dei viaggi. Amava ripetere:

Si dice “I sogni nel cassetto fanno la muffa.” Io non voglio neanche correre il rischio che prendano la polvere.

Quando in Italia c’è stato il boom del travel blogging, Francesca si è tenuta distante dalle tendenze, spesso evaporate nell’edonismo, e ne ha ha fatto una professione con costante studio, compostezza e sobrietà. L’ Australia era la sua “terra promessa”, ci è ritornata più volte, l’ha raccontata come facevano gli inviati di un tempo, sdoganandola dai luoghi comuni.
Fraintesa è stata una travel blogger impeccabile, Francesca Barbieri è stata l’antropologa del viaggio e, senza l’affannoso raggiungimento della meta a tutti i costi, ha fatto del racconto analitico del tragitto peculiarità e innovazione del suo storytelling.

Ma questo è il bello: basta crederci. E qui in Australia puoi effettivamente credere e dire quello che vuoi, troverai sempre qualcuno che con la cantilena altalenante ti risponderà: «okay, mate».

Attraverso progetti benefici come #GoFraintesa, di cui ho scritto anche su Affaritaliani.it, Francesca ha sostenuto la ricerca sul Cancro e si è fatta instancabile guerriera nella lotta contro il brutto male da cui non si è fatta scoraggiare mai.
Quando le raccontai della mia rocambalesca traversata in treno della Cina, sfidando le invisibili censure di Pechino per raggiungere il Tibet, mi confidò che uno dei sogni da viaggiatrice era trascorrere almeno sei mesi nei monasteri tibetani. Sono convinto che il treno su cui adesso è salita la nostra Fraintesa si fermerà a Lhasa prima di proseguire verso l’eternità. La colonna sonora di questo viaggio, come ci ha ricordato il suo grande amore Andrea, sarà Save Your Tears for Another Day.

Take me back ‘cause I wanna stay
Save your tears for another
Save your tears for another day…

Mi spiace Francesca, non riesco a mantenere la promessa: ho gli occhiali appannati, bagnati di pioggia salata come sanno fare le lacrime umane. “Se si contribuisce alla felicità di altre persone, si trova il vero senso della vita.”, scrisse il Dalai Lama sul tuo cuore. E tu ci sei riuscita, Francesca.

Buon viaggio, Fraintesa. Non ti dimenticheremo!


#GrazieFraintesa è la raccolta fondi a favore dell’AIRC in memoria di Francesca Barbieri. Clicca qui per saperne di più.

Colapesce e Dimartino “vincitori morali” del Festival di Sanremo ai tempi del Covid

Antonio (in arte Dimartino) è cresciuto a Palermo e chissà se l’ho incrociato una quindicina d’anni fa, durante la mia estate a Mondello, dalle vecchiette che friggevano panelle a poca distanza dalla celebre spiaggia custode dei segni delle riprese gattopardiane.

Antonio aveva acceso una fiaccola in memoria dei giudici Falcone e Borsellino cantando in giro per la sua Sicilia insieme ai Famelika, ex compagni di viaggio, un brano a me particolarmente caro, Giovà, scoperto proprio durante quell’estate palermitana.
La canzone, che vi consiglio di ascoltare, sventolava in sordina la bandiera di protesta contro Cosa Nostra, omaggiando il cantastorie siculo Giova ucciso dalla mafia nel 1962.

Lorenzo (in arte Colapesce) è cresciuto a Solarino, ad una ventina di chilometri da Siracusa e come nome d’arte ha scelto quello di un’antica leggenda siciliana e delle gesta del figlio di un pescatore rimasto sott’acqua per non far sprofondare l’isola.

Pochi giorni prima del Natale 2009 mi capitò per sbaglio tra le mani la mitica Merry Christmas Darling dei Carpenter nella cover trasfigurata da una band siracusana, gli Albanopower. Su questa giostra strampalata di indie, new wave e pop c’era salito anche Lorenzo, il futuro Colapesce nel progetto da solista.

Colapesce e Dimartino, proprio in questi giorni Disco di platino per la loro canzone sanremese Musica leggerissima, hanno unito storie personali e artistiche della loro magica isola Trinakria.

Lorenzo e Antonio sono vincitori morali del Festival di Sanremo ai tempi del Covid prima ancora che a decretarlo fosse il Premio Lucio Dalla o il termometro della febbre musicale. Lo sono fin dall’esibizione della prima sera, in cui i baffetti alla Alan Sorrenti di Lorenzo ci hanno catapultati nella freschezza sperimentale degli anni ’70 e tra le elaborazioni melodiche degli anni ’80 di cui è cosparsa Musica leggerissima.

Per non parlare del bellissimo video, un fiume in piena di citazioni cinematografiche tra la poesia visiva di Fellini, il surrealismo di Buñuel infarcito del film beatlesiano di Magical Mistery Tour e l’introspettività di Bergman. Eppure la canzone Musica leggerissima è solo in apparenza il tormentone che ha contagiato i social e farà da colonna sonora alla prossima estate, perché nasconde la drammaticità di questo tempo covizzato sotto le ascelle dello slogan “andrà tutto bene”.

Colapesce e Dimartino hanno vinto Sanremo 2021 perché ci hanno fatto saltellare e ballare con leggerezza sugli assilli amletici del tunnel della pandemia come l’antimilitarismo di “Se bastasse un concerto per far nascere un fiore Tra i palazzi distrutti dalle bombe nemiche”, il precipizio della morte “Per non cadere dentro al buco nero Che sta ad un passo da noi, da noi”, la fede che vacilla “I tamburi annunciano un temporale Il maestro è andato via” o sugli squilibri del tempo della vita che corre veloce “Diventare adulti sarebbe un crescendo Di violini e guai”. Come hanno ribadito Lorenzo e Antonio:

La mortalità è un concetto oggettivo. Tutti vediamo i nostri corpi sparire, disintegrarsi, diventare altro.

Colapesce e Di Martino sono i nuovi outsider della Sicilia, figli della dea Giuni Russo e benedetti dallo Zeus dell’isola di Trinakria Franco Battiato, del quale ci hanno regalato l’emozionante cover Povera patria, dito nella piaga dell’Italia ammalata ancora dei corsi e ricorsi storici e “schiacciata dagli abusi del potere di gente infame, che non sa cos’è il pudore”.

Cara Procida, Capitale italiana della Cultura 2022

La bella notizia della nomina di Procida a Capitale italiana della Cultura 2022 mi aveva fatto balzare il cuore in gola. Sarà perché ho iniziato a scrivere sulle pagine di un quotidiano delle isole campane, sarà perché proprio a Procida ci sono ricordi lavorativi che si mescolano all’isola: insieme a Michele, procidano di nascita e di fatto, iniziai a muovere i primi passi nelle produzioni video e vissi i preparativi e le magiche serate del Festival del Mediterraneo.

Ricordo quelle mattine procidane soleggiate davanti al Mac, il panorama mozzafiato che bussava da una finestrella nel nostro ufficio, lo bisbiglio dei gabbiani, i miei arrivi periodici al porticciolo e Michele che veniva a prendermi con la motoretta. Puntualmente c’era un gruppo di pescatori a salutarci che gli ricordava “Miche’, quanto ci manca tuo padre.”

Michele mi nascondeva gli occhi lucidi e poi sgaiattolavamo su e giù per l’isola, con il vento tra i capelli. Mi sembrava di sentire la voce dell’amata Elsa Morante e svolazzare come il bucato appena steso le pagine di L’isola di Arturo, mandato giù durante la mia scapestrata adolescenza mentre marinavo le lezioni nozionistiche al ginnasio.

Da una finestra si affacciava un’anziana signora con i capelli innevati, era la mamma di Michele che ci salutava e tutte le volte che mi riconosceva, avendo dimenticato il mio nome, mi chiamava puntualmente uainé, che in dialetto procidano significa “ragazzo”.

Io conoscevo il corrispettivo napoletano, guaglio’, che mio padre mi aveva insegnato da bimbo stonando i versi di Carosone “Tu si’ guaglione, che t’hê miso ‘ncapa? Va’ a ghiucá ‘o pallone“.

Sì ero ancora guaglione e quando hai poco più di vent’anni fatichi a farti prendere sul serio. Procida mi guardò negli occhi e mi adottò in quelle giornate in cui ogni ora di lavoro al fianco di Michele era un’occasione per imparare, crescere, guardare al futuro con l’ottimismo come i palleggi spensierati tra me e un ragazzotto procidano: anni dopo ho scoperto che era diventato sindaco dell’isola.

La sorella di Michele uscì di corsa e mi offrì dei biscotti fatti in casa. Era di poche parole. Mi sorrise come fanno gli isolani, che all’inizio ti sembrano scorbutici e poi quando li conosci davvero ti danno il cuore.

Michele mi prestò il suo telefono cellulare – sembrava una radio trasmittente di 007 – e mi concessi una chiamata davanti al mare, un lusso ai tempi: “Mamma, sai cosa ti dico che resto qui per un po’, tornerò a Napoli per gli esami… stai tranquilla non la mollo l’università…certo che rientro stasera, è un progetto per il futuro…poi lo diciamo a papà… Sì, hai ragione chissà se si rassegnerà mai a vedermi sempre con la valigia in mano…”.

Quella sera rientrai, eravamo soddisfatti del lavoro di quei giorni, avevamo la lista di alcuni ospiti al Festival del Mediterraneo, tra cui la grande icona della musica folk Matteo Salvatore. Michele mi riaccompagnò al porto, mi mise dei soldi nel taschino della camicia: “Uainé, questo è un piccolo rimborso spese. Vedrai che i tuoi sacrifici saranno ricompensati, hai del talento”. Poi mi diede un biglietto dell’aliscafo, io di solito viaggiavo in traghetto per risparmiare.

Io e Michele appartenevamo a due generazioni diverse: allora io cavalcavo i vant’anni e lui, avendo abbondantemente superato la trentina, era quel fratello maggiore che non avevo mai avuto. Salito sull’aliscafo, mi voltai e balbettai qualcosa tipo “Ah, Michele, grazie… comunque ti voglio bene”.

Lui non mi sentì, era già andato via in motorino e in lontananza mi salutava con la mano sinistra come se sventolasse una bandiera.
Procida era alle mie spalle e, attraversando il golfo di Napoli, intravidi nel mio legame nascente con l’isola di Arturo quella prospettiva custodita nel fiore all’occhiello di Procida capitale italiana della cultura 2022: la cultura non isola, mai, oggi come ieri.

Sonia Battaglia, morire non è calcolare una percentuale

Cosa fai se leggi “Ma per ora niente rischi, su 17 milioni di vaccinati, 37 tra embolie e trombosi”? Cosa fai se in contemporanea tua moglie nell’altra stanza singhiozza perché una sua conoscente, Sonia Battaglia di San Sebastiano al Vesuvio, è in fin di vita dopo un vaccino?

AstraZeneca, 54enne napoletana in terapia intensiva dopo vaccino. I familiari: «Non aveva patologie pregresse»


Ti fermi un attimo, in silenzio, farfugliando con i tasti del PC: vaccino o non vaccino, ruolo istituzionale o non, chi può arrogarsi con nauseante prepotenza il diritto di sminuire un decesso, assecondando il valore numerico di una percentuale? Chi, me lo spiegate?
Neanche l’infermiera di turno della porta accanto che vorrebbe convincermi del contrario con la riflessione spicciola: ci sono più probabilità che all’uscita di casa sia investito da una moto che vada all’altro mondo a causa di una dose di vaccino.

Mia mamma, una donna di 54 anni finora sempre sana come un pesce una settimana fa si è sottoposta al vaccino AstraZeneca (LOTTO ABV5811) data scadenza 30.06.2021. Il giorno seguente al vaccino stava bene tanto che è andata a lavorare. Due giorni dopo ha avuto la febbre (nella norma, rassicurati dalla dottoressa). Il terzo giorno mia mamma ha iniziato a vomitare senza sosta, abbiamo chiamato l’ambulanza, le hanno messo la flebo per recuperare i liquidi che stava perdendo. Mia mamma dormiva in continuazione e non riusciva a parlare, si addormentava mentre parlava. Il giorno 12 sera abbiamo richiamato l’ambulanza la quale dopo aver controllato i parametri vitali si è rifiutata di portarla in ospedale e tenerla sotto controllo. La mattina seguente ovvero ieri 13 marzo ho chiesto a mia madre di muoversi e di alzare la gamba sinistra, lei era convinta di riuscire ad alzarla ma invece era totalmente immobile. L ho presa in braccio e portata in pronto soccorso (all’Ospedale del Mare di Napoli) dove è stata ricoverata d’urgenza per emorragia celebrale ed ha avuto anche un infarto… dopo essere riusciti a parlare con i dottori nel pomeriggio ci hanno informati che nel giro di due ore ha avuto una trombosi, una emorragia cerebrale e una occlusione dell’aorta.

(Mario, figlio di Sonia)

Andatelo a spiegare alla famiglia di Sonia che da un giorno all’altro ha visto morire sotto i suoi occhi la madre, la moglie, l’amica, la sorella. L’incubo è iniziato ai primi di marzo con la somministrazione della dose e i primi sintomi preoccupanti, il ricovero, il decesso e va avanti ancora mentre le indagini delle autorità giudiziarie faranno il loro corso dopo l’autopsia. Sonia non è l’unica in Italia a cui è toccata la stessa sorte.

E’ morta Sonia, i familiari denunciarono che stava male dopo il vaccino AstraZeneca


Siamo in guerra e il Covid è un nemico che abbiamo sottovalutato. In quante azioni militari hanno lasciato passare sotto i nostri occhi fiumi e fiumi di omertà, mandando a morire soldati di ogni parte del mondo, perché il XX secolo ha fatto della grandi e piccole guerre il motore economico di intere civiltà a discapito di altre.
La parola diritto alla salute passeggia in silenzio nella piccola bottega degli orrori: è bizzarro contrapporre il business delle multinazionali farmaceutiche a chissà quali azioni belliche di un tempo?


I parenti della donna, deceduta alcuni giorni dopo la somministrazione di una dose di Astra Zeneca, pronti allo scontro legale: “Non siamo no-vax, ma vogliamo che ammettano che quella fiala l’ha fatta ammalare.”

La partita è ancora tutta da giocare, ma chi come Sonia Battaglia potrebbe averci rimesso la pelle non può essere ricordata in un ritaglio di cronaca, al di là che ci sia un nesso tra il suo decesso, il vaccino o un lotto difettato. Tra l’altro lo scorso 22 marzo Aldo, un collega di Sonia a cui era stato somministrato lo stesso vaccino, è stato ricoverato per un’ischemia celebrale e qualche giorno dopo a Latina, una donna sulla trentina, è finita in ospedale per una trombosi. Effetti collaterali?

Le coincidenze si riducono a numeri, dalle nostre parti.

Il silenzio che fa rumore: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”

C’è un silenzio che fa rumore, questo del mio ultimo viaggio durato un anno e mezzo. In un tempo in cui straripa la bulimia di apparire sui social ad ogni costo e che spesso si riduce a goffaggine, svuotamento della sostanza, beffarda illusione di costruire un alter ego che non corrisponde alla realtà, c’è una strada maestra della vita che non dovremmo mai perdere di vista. Me l’aveva ricordata il vicino di posto nel lunghissimo viaggio in treno che mi portò dalla Cina in Tibet: Rumorosi sono i piccoli torrenti, il vasto oceano è silenzioso.

Ho navigato in questo oceano di silenzio senza barche a motore o lussuosi yacht. Se non avessi usato i remi sarei finito nella trappola della corsa sfrenata di abbattere il tempo, rinnegando il verbo del mio incontro fortunato con lo scrittore cileno Luis Sepúlveda al lido di Venezia: l’elogio della lentezza.
Dopo l’esame di terza media in una scuola alla periferia di Napoli, la cara professoressa Rosalba mi lasciò in eredità una riflessione che spianò la strada della mia crescita: “Tu non ami le mode perché il tuo animo è fuori moda. Cresci sempre anticipando i tempi e non avrai la smania di restare nel gregge”.

Ho anticipato i tempi con un lockdown interiore prima che arrivasse quello della pandemia, che ha messo in crisi tutti gli illusi mediocri in cima alla piramide di cartapesta di voler essere padroni del tempo.
C’è un silenzio che fa rumore e accade quando prende la piega inconsapevole di battaglia civile contro arroganze e soprusi, in difesa dei propri diritti, perché avere talento significa prima di tutto avere una personalità: “Ci sono solo due errori che si possono fare nel cammino verso il vero: non andare fino in fondo e non iniziare”.

Ringrazio tutti coloro che mi hanno accompagnato rispettando quest’oceano di silenzio, dimostrandomi vicinanza e solidarietà in punta di piedi, con un ricordo vissuto assieme, un messaggio letto in ritardo, una vecchia foto. Le amiche di gioventù come Mascia, Isabella, Concetta, Elisabetta sanno sempre come smuovere cuore e anima: “Non sempre è necessario incontrare e/o vedere una persona per volerle bene, e non leggerti più, non sapere come stai, non ricevere più in regalo foto dei tuoi viaggi e i tuoi racconti mi manca. Tvb”.
Un pensiero va anche a due persone importanti della mia vita, Massimo e zio Peppino, volate in cielo durante il lockdown ai quali non ho potuto dare l’ultimo saluto.

C’è un silenzio che fa rumore e mi torna in mente la parabola dello statista in esilio a cui fa visita un ex allievo. Quest’ultimo invece di trovarlo tra vecchie scartoffie alla scrivania, lo scova con le grambe incrociate davanti all’oceano: “Perché ti sei preso la briga di compiere questo lungo viaggio per venire a trovarmi?”, esordisce lo statista. “Perché dalle mie parti abbondano i pappagalli”, spiega l’allievo. “Torna indietro – conclude il vecchio in esilio – con la consapevolezza che prima o poi i pennuti ti accerchieranno per farti lo sgambetto. Tu fai finta di niente perché, quando meno te lo aspetti, arriverà il tempo della rivalsa”.

C’è stato un silenzio che ha fatto rumore, ma adesso è tempo della rivincita: Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.” (Divina Commedia, Canto III, Inferno)

Diego Armando Maradona, tutto in un abbraccio

Dal mio archivio l’edizione speciale dell’Intrepido: maggio 1987, scudetto n.1 del Napoli. Il 31 maggio 2005 ero tra i giornalisti accreditati alla Partita del Cuore a San Siro di Milano. Tra gli ospiti Maradona e di noi della stampa non ne voleva sapere. Passò negli spogliatoi, lo chiamai, pronunciai qualche parola in napoletano: “Diego, a me non puoi dire di no, nel 1984 c’ero anche io tra i bambini fuori dallo stadio San Paolo di Napoli ad aspettarti.”

Diego mi venne incontro, si era commosso, mi abbracciò, gli strappai una dichiarazione per l’articolo, i colleghi di Mediaset ripresero tutta la scena e a mia insaputa ne fecero un servizio tv.
Il giorno dopo l’abbraccio tra me e Maradona finì su Studio Aperto e TG5. Non mi accorsi di niente, la sera in una pizzeria milanese passando da un tavolo all’altro mi ripetevano: “Tu sei amico di Maradona?”. A risolvere il mistero fu la telefonata di mio zio Massimo da Napoli.

Non sono stato mai un giornalista sportivo ma quell’incontro fulmineo mi riportò ad anni indimenticabili della mia vita a Napoli, dove i goal artistici e unici di Maradona insieme a scudetti e trofei per la squadra della mia città si rivelarono un grande riscatto sociale e morale all’ombra del Vesuvio.

Il 25 novembre 2016 ero appena sbarcato a Buenos Aires, anche per mettermi alla ricerca dei suoi luoghi. Mi arrivò la notizia della morte di Fidel Castro. I giochi della vita. Qualche giorno dopo cazzeggiavo nel quartiere La Boca, a pochi passi dal mitico stadio di La Bombonera, casa calcistica del Pibe de Or.
Incrociai un gruppo di piccoli scugnizzi che palleggiavano. Mi chiesero da quale parte d’Italia arrivassi.
Appena pronunciai “Napoli” mi chiesero di Maradona. Gli raccontai allora del mio incontro e di quell’intervista di fretta e furia. Per un attimo ci fu silenzio e poi uno di loro mi battezzò con questo saluto: “Hola, amigo de Diego Armando Maradona”.