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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

C’era una volta in America e Giamaica il viaggio con mia moglie

C’era una volta in America in 32 giorni di viaggio senza tralasciare una storia che pochi conoscono. Lo scorso dicembre stavo per realizzare il sogno di Luisa, mia moglie, di trascorrere Natale a New York. Era tutto pronto, un mese prima mi sono accorto che l’ESTA non era valido. Cuba, da cui ero appena rientrato, era stata inserita dagli USA nella lista dei Paesi “sponsor del terrorismo”. Ho smosso mari e monti ma non c’è stato modo di anticipare il colloquio in Consolato a Milano. A grande sorpresa, dopo lamentele e disappunti, hanno esteso il mio Visto da uno a dieci anni.
Una medaglia al valore che, nei giorni in cui New York è stata stordita da una tempesta glaciale, mi ha spinto a riorganizzare il viaggio da Sud a Nord lungo la East Cost americana. Mentre gli altri brindavano al Nuovo Anno e i nostri bagagli erano in un angolo, il sottoscritto azionava i superpoteri da re del lowcost. “Donna di poca fede – le dissi a suo tempo – ho preso con una delle compagnie aeree top in altissima stagione andata su Miami e ritorno da Chicago a meno di 600 euro. E ci sono anche i tuoi amati bagagli da 23 chili. L’America non sarà più di due settimane in una città ma di 32 giorni da girovaga.”
Sette mesi dopo, nel giorno del mio 50 compleanno, come in un racconto di Henry James, Luisa ha cambiato le carte in tavole con i suoi risparmi: “Doveva essere la mia prima volta in America ma è anche la tua. Ci torni per la quinta volta e il biglietto aereo del tuo primo viaggio dei 50 voglio sia il mio regalo.”

C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA

Trentadue giorni incredibili lontani dai viaggi confezionati o da catalogo. C’era una volta in America di decenni e decenni di ritorni vissuti, che volevo presentare a mia moglie, lontano dal cliché di Paese guerrafondaia o landa del cibo spazzatura. I miei Stati Uniti, attraversati in oltre 30 anni di viaggi, restano quelli dei versi di Dylan Thomas, le pagine di Kerouac, Bukowski e Hemingway tradotti sulle orme di Nanda Pivano intervistata su un divanetto milanese. E poi ancora il cinema di Chaplin, Scorsese e Allen, l’arte di Warhol, le provocazioni di John & Yoko, il rock di Springsteen, le poesie musicate di Bob Dylan e Lou Reed, il blues di B.B. King. E cosa dire dell’incontro a Chelsea con Susan Sarandon, l’altra metà delle nostre “Thelma & Louise”, o delle saette musicali e antifricchettone di Zappa? Queste ultime le dedico ai radical chic che volevano farmi andare di traverso l’hot dog in cambio di una scodella di riso delle vecchie e moderne dittature asiatiche. Sono come San Tommaso, viaggio per vedere con gli occhi, altrimenti resto a casa e sto zitto.

DA MIAMI A NEW YORK


Il nostro viaggio dalla Florida condivisa con i cubani immigrati fuggiti dalle schifezze dei regimi di Fidel e Raul Castro, all’affacciata sul balcone di Hemingway a Key West, punta estrema degli USA con lo sguardo rivolto al mare dei Caraibi. Dalla Miami speciale nel giorno dell’onomastico di Mimmo, un nostro caro amico, al terzo rientro a New York (mio padre sacrificò due stipendi da operaio per mandarmi la prima volta nel ’92). Senza l’effimera sapienza dei gruppi facebookiani, il faretto per mia moglie è stato il mio vissuto nella Grande Mela, della Statua della Libertà, di Ellis Island e del museo degli immigrati, della nuova amicizia con Vincenzo, emigrato con la famiglia a Brooklyn negli anni ‘60 da Pomigliano d’Arco, orgoglio di essere un italiano in America attraverso una vita fatta di sacrifici, onestà, lavoro e amore per la famiglia.
E quando a sorpresa ce lo siamo trovati all’aeroporto di JFK è come se mio padre da lassù lo avesse telefonato: “Vince’ mi nasconderò dietro di te, sarò la tua ombra, così gli sembrerà che sono tornato a prenderlo in aeroporto.”

GLI USA TRA VITA QUOTIDIANA E AMARCORD


Luisa, distante dalla goliardia degli odiosi “viaggi instagrammati”, si è ritrovata a cominciare le giornate newyorchesi in una stanza di Queens, a sorridere al nuovo vicinato multietnico, a passeggiare nella Brooklyn periferica di Bay Ridge assieme a Tony Manero di “La Febbre del Sabato sera”. E poi a girare tra le giostre poetiche di Coney Island e non nelle disneyane costose e affollate di Orlando, ammutolita nel silenzio di Ground Zero dopo averle anticipato che la mia New York del ‘92 non sarebbe più tornata indietro.
L’emozione di vedere Luisa, la ragazza di periferia di cui mi sono innamorato tredici anni fa, nel Village a New York nello stesso punto dello scatto della copertina di un disco di Bob Dylan, al tramonto sull’Interstate 41 del Wisconsin o con il gps a cercare i luoghi del film Rocky in un sobborgo malfamato di Philadelphia. Era lei a tifare per i Cubs ad una partita di baseball a Chicago, a passeggiare nel lungo flashback della Milwaukee di Happy Days e Laverne & Shirley, improvvisata criminologa tra le ombre dei gangster e di Al Capone nella Chicago del Proibizionismo, ad un passo dal gigante Buddy Guy in un club di blues dell’Illinois.

L’ALTRA GIAMAICA TRA PERICOLI E DISUGUAGLIANZE

E poi la virata della settimana in Giamaica, ispirata dalle canzoni di Bob Marley e Peter Tosh. Giamaica non è il mare caraibico o il confort dei resort spuntati come funghi negli ultimi decenni, oppio del turismo di massa e dei crocieristi. È la povertà vista nel nostro pellegrinaggio, un’isola stremata, pericolosa e piena di disuguaglianze, che si porta dietro ancora lo sfruttamento e gli scheletri nell’armadio del colonialismo inglese. Indimenticabili emozioni sugli spalti dello stadio di Kingston a condividere con i giamaicani la Festa dell’Indipendenza. Questa parentesi di sette giorni è racchiuso in un palmo di mano, nel gesto di generosità da parte di una famiglia di Ocho Rios: “Signora, non abbia paura. Vi riportiamo a casa. Salga in auto al posto mio, tanto nostro figlio si infila nel cofano, c’è spazio per tutti.”

VIAGGI E RINASCITE


Dopo questi episodi di generosità gratuita, in ogni rinascita e nuova vita che ciascun viaggio mi dona, torna con prepotenza la mia strafottenza verso i legami imposti perché la famiglia e le amicizie si allargano on the road, “sulla strada”.
I viaggi indimenticabili non li fanno un biglietto aereo o l’ansia di prenotare alberghi nel posto giusto ma i viaggiatori che sanno farsi passeggeri del mondo e dell’esistenza.

Casa Azul, Frida Kahlo

Frida Kahlo è viva nella sua Casa Azul a Città del Messico

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Alla casa museo di Frida Kahlo ci sono arrivato a prima mattina. Ero in viaggio a Città del Messico. Casa Azul si trova a Coyoacán, una delle mie colonie preferite nella capitale numero 58 del mio giro del mondo. Dov’è nato desiderio di un incontro spiriturale con la pittrice messicana?

DAL FESTIVAL DEL CINEMA DI VENEZIA A CASA AZUL

Nel settembre 2002 ero al Festival del Cinema di Venezia per la prima di Frida, il film diretto da Julie Taymor. Della mia intervista all’attrice protagonista Salma Hayek mi colpì il racconto del suo lavoro di preparazione all’interpretazione di Frida Kahlo, personaggio femminile molto complesso.
Mi disgustano le infatuazioni nazional popolari, allora in tanti a stento conoscevano l’arte di Frida. Il film di Taymor ha avuto il merito di aver illuminato la mia generazione. Qui è germogliato il seme del desiderio di visitare la casa-museo a Città del Messico che custodisce la memoria di Frida e del marito Diego Rivera.

INCONTRO SPIRITUALE CON FRIDA E DIEGO

Ho sempre nutrito dubbi sulle case-museo e spesso hanno deluso le mie aspettative. Casa Azul, dove Frida nacque nel 1907 e si trasferì con il grande pittore e muralista messicano nel ’40, ha un nonsoché di magico.
Entrandovi scatta un’immersione totale tra il visitatore e chi è riuscito a mischiare arte e vita, facendo della propria evoluzione il motore artistico di ua riflessione esistenzialista e ideologica. Casa Azul non è un luogo di antiche memorie o spettri soggiogati dal turista avido di selfie, è piuttosto la corsia preferenziale per un incontro spiriturale con Frida Kahlo e Diego Rivera, di cui si avverte la presenza.

FRIDA KAHLO E DIEGO RIVERA SONO VIVI

Frida Kahlo e Diego Rivera sono vivi attraverso gli oggetti e le opere d’arte che abitano le stanze della casa, le suppellettili, lo scrittoio, il tavolo e gli arnesi di lavoro, la sedia a rotelle di Frida sulle cui ruote è in sosta ancora il dolore e la sofferenza di una vita.
Mentre ci cammino ho tra le mani una pubblicazione rara stampata in pochi esempleari. Me lo ha procurato un vecchio libraio del centro storico di Città del Messico. Si tratta del catalogo della prima mostra nella capitale di Diego Rivera realizzata nel 1958, ad un anno dalla sua scomparsa.
Esco e mi fermo nel giardino, mi siedo, mi guardo intorno. Apro il taccuino, prendo la biro, mi sembra di averli di fronte a me. Comincia l’intervista desiderata, immaginata.

Marcello Colasurdo

Marcello Colasurdo, buddha del folk, ritornerà sul suo Monte Somma

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cover foto di Jeanbruno Maccotta

In Messico mi arriva la notizia in piena notte: Marcello Colasurdo non c’è più. Faccio finta di niente fino al giorno in cui rientro in Italia. All’aereoporto di Milano Malpensa mi fermo sulla scaletta dell’aereo, il sole mi acceca e nell’abbaglio rivedo mio padre, all’alba degli anni ’80, che mi porta un vinile da una riunione sindacale alla periferia di Napoli.

TAMMURRIATA DELL’ALFA SUD TRA POMIGLIANO E LIVERPOOL

Allora andavo alle elementari, non avevo il giradischi per ascoltare “Tammurriata dell’Alfa Sud” del gruppo operaio di E’ Zezi e lo conservai con la promessa che da grande lo avrei fatto. Nel 1990 fu il primo vinile solcato dalla puntina del mio giradischi nuovo di zecca insieme a un vecchio disco dei Beatles trafugato in un mercatino londinese: Marcello, ‘E Zezi, il Vesuvio operaio di papà da una parte; John (Lennon), i Beatles, la Liverpool delle fabbriche buie della Gran Bretagna dall’altra.
Anni dopo questo passaggio all’Università, all’esame di Storia della Tradizioni Popolari, mi valse la richiesta di una tesi su Colasurdo e gli Zezi. La declinai, con rammarico, avevo già un progetto di Letturatura e Cinema nel cassetto.

COLASURDO L’ANTIDIVO

Nel ’95, prima dell’uscita di Marcello dagli Zezi, la redazione mi spedì ad un loro concerto memorabile. Ero alle prime armi. Al termine mi barcamenai tra la folla in delirio, conobbi Marcello, scese dal palco, mi abbracciò e mi disse: “Guagliò io non sono un maestro. Quando vuoi ci vediamo e facciamo una chiacchierata, ma senza quell’arnese (si riferiva al mio registratore a cassette)”. Non se ne fece mai niente. In quella notte all’ombra del Monte Somma, tra musica folk e tammorre, capii che quelle erano le radici di tutti noi messi assieme, giovani e meno giovani. Marcello Colasurdo è stato un punto di riferimento per tanti artisti del territorio e ciascuno gli deve qualcosa: da Enzo Avitabile a Daniele Sepe, da Eugenio Bennato ai 99 Posse.

IL FOLK DI MARCELLO DALLA FABBRICA ALLE LOTTE OPERAIE NEGLI ANNI DI PIOMBO

Le tammurriate di Marcello Colasurdo sono nate nei sotterranei di una fabbrica e chissà quanti benpensanti provinciali di allora erano convinti che il percorso musicale di ‘E Zezi sarebbe finito da lì a poco, inciampando in un gogliardico “dopolavoro operaio”.
Non è stato così e dal 1975, attraversando gli anni di piombo dei Paesi Vesuviani, la musica folk di Marcello ha accompagnato l’infanzia, l’adolescenza e la gioventù di quelli della mia generazione, che hanno visto la sanguinaria ascesa criminale di Raffaele Cutolo e della Nuova Camorra Organizzata fiancheggiata dalla mala politica dei papponi della vecchia e gradassa “Balena bianca”.

DEVOZIONE ANTICLERICALE TRA MUSICA E RELIGIOSITA’

Il folk di Marcello Colasurdo è stato un urlo contro il malaffare e la corruzione, una ricerca continua della libertà artistica e di pensiero, la musica che ha imbarazzato il clero bigotto dell’arretrata diocesi del territorio nolano, dilaniata da tanti rimorsi, inclusa l’orrenda fine dell’anticlericale Giordano Bruno, bruciato vivo come le streghe.
Marcello Colasurdo è stato un antieroe come se fosse, in quella fiseonomia baffuta, un discendente diretto dei Maya e degli Incas, valorosi combattenti ad oltranza contro il fanatismo dell’assassina Spagna cattolica. La sua devozione tra musica e religiosità a Mamma Schiavona, la Madonna di Motervegine, fu colta raramente dai prelati. Eccezione è stato don Peppino Gambardella, il prete scomodo e ribelle della diocesi all’ombra del Vesuvio, che di Colasurdo non ha mai smesso di elogiare sincerità, passione, autenticità.

MARCELLO, MARCELLO, MARCELLO

Scendo dalla scaletta dell’aereo. Piango. Tra un singhiozzo e un altro sento una voce chiamare: “Marcello, Marcello, Marcello.” Non è la voce felliniana della Ekberg che chiama Mastroianni ma quella soave della Madonna di Montevergine che accoglie tra le braccia il suo Marcello.
Oscar Wilde amava ripetere: “Siamo tutti in una fogna, ma alcuni di noi guardano le stelle.”
Marcello Colasurdo non ha mai smesso di guardarle e da “buddha del folk” ritornerà, prima o poi, sul suo Monte Somma.

Chiapas

Messico e nuvole in 5.400 chilometri da Sud a Nord

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Messico e nuvole in viaggio, nei 5.400 chilometri in bus in 26 giorni emozionanti e difficili da organizzare tra Sud, Ovest, Centro fino al Nord. Il mio Messico, lontano dal turismo di massa di Cancun e Playa del Carmen delle coppie di sposini confinate dai tour operator nello Yucatan dei gatti e delle volpi.

DALLO YUCATAN AL CHIAPAS

Messico e Nuvole da Valladolid fino alla poco taccheggiata Merida, superando il marketing turistico di Chichen Itza, grazie a cui completo le 7 meraviglie, per eleggere Uxmal a Meraviglia del Mondo. Messico e nuvole alla ricerca dei Maya e degli Aztechi, i battiti archeologici tra Palenque e Monte Alban, la traversata dello stato di Campeche, le ombre dei Narcos al confine con il Guatemala, giorni e notti burrascosi nel pericolosissimo Chiapas, noi su quel mini van con la polizia che ci ha instradato, la pittoresca San Cristobal de la Casas, spiritualità Maya-cristiana a Chamula, i fantasmi dell’Esercito Nazionale di Liberazione Zapatista e lo spettro della guerra civile del ‘94 che qualcuno qui vorrebbe ridurre a una bravata di quattro anarchici messicani.

OAXACA, FOLCLORE E IL PACIFICO DI ACAPULCO

Messico e nuvole nel centro del Paese, dove regna l’autenticità, nello stato di Oaxaca e il suo folclore, le tradizioni spalmate in riti meravigliosi, io che mi affaccio in un matrimonio locale, fino alla virata difficoltosa per strade e sicurezza verso il Pacifico.
La Puerto Escondido dell’omonimo film di Salvatores, l’Acapulco e la sua incantevole baia, nell’immaginario collettivo Messicano regina indiscussa del turismo balneare tra gli anni ‘50 e ‘70 che schiaccia Cancun e Tulum, sorellastre di una Cenerentola destinata a restare principessa per sempre.

CITTA’ DEL MESSICO TRA PROFUMI DI CIOCCOLATO E FRIDA KALHO

Messico e nuvole nella capitale n.58 del mio giro del mondo, sognata e desiderata fin dall’infanzia, tra le più pericolose del mondo. La mia Città del Messico, inespugnabile in bellezza e autorevolezza come la Madrid spagnola, diventa pagina di un indimenticabile diario di viaggio: l’incontro con la Maitre Chocolatier Sophie Vanderbecken che mi ospita sul laboratorio della famosa cioccolateria Le Caméléon Chocolates.
Giorni indimenticabili, condivisione di storie di cioccolato d’autore e vagabondaggi per il mondo, pellegrinaggio laico a Guadalupe, incontro spirituale con Frida Kalho e Diego Rivera a Casa Azul, l’archeologia che ti toglie il fiato al Museo Nazionale di Antropologia.

DAI SORSI DI TEQUILA IN JALISCO AL NORD TEXANO DI MONTERREY

Messico e nuvole nello stato del Jalisco – chi non arriva fino a qui non può capire cosa sia il Centro America – tra allegria e calore delle persone, i sorsi di storia della tequila, le danze, gli orizzonti perduti dell’America texana e le piazze sconfinate di Guadalajara che impongono bellezze, socialità, conoscenza come i due deliziosi studenti Miguel e Myriam.
Messico e Nuvole negli ultimi 800 chilometri pericolosi verso il Nord industriale che guarda il Texas di Houston e Dallas. La mia Monterrey, il mio traguardo, gli stivali messicani, le montagne cinematografiche del Cerro de la Silla, a meno di 200 chilometri dal confine con gli Usa, dove ho rivisto allo specchio il mio on the road Coast to Coast del 2005 e il ricordo dolce delle 36 ore trascorse con la prozia Olga Mautone Bakely, ammalata di Alzheimer.

LA GENEROSITA’ DEL POPOLO MESSICANO

Grazie alla generosità del popolo messicano, di tanti incontrati in questo mese indimenticabile che mi hanno aiutato a superare ogni difficoltà. Un abbraccio e un grazie speciale al generoso Walther, alla dolcissima Diana, al bellissimo Walther jr, che oggi voglio salutare come gli amici speciali del Jalisco.
Il Messico resterà una delle tappe del cuore tra i 61 Paesi del mio mappamondo. Sulla via del ritorno, scatta il conto alla rovescia che vorrei fermare, mancano pochi giorni ai miei 50 anni.
Grazie a Luisa, la mia First Lady, per aver capito, accompagnato un sogno che si allarga sempre di più, per il supporto con il fuso orario, per aver gestito ansie e preoccupazioni procurate da questo Ulisse giramondo. Adios, Mexico con un trofeo consegnatomi dagli stessi messicani: averti vissuto come volevo in questa immensa traversata.

Cap Skirring, Casamance

La mia Africa tra Senegal, Gambia e Mauritania

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La mia Africa resterà scritta nel viaggio di 1.600 chilometri on the road e 17 ore di navigazione tra Senegal, Gambia e Mauritania. Dopo il grande viaggio nel Sudafrica di Nelson e Winnie Mandela, questo tris di Paesi africani mi ha messo a dura prova perché l’Africa non è un selfie “instagrammabile” o il bunker dei grandi resort.

L’AFRICA E IL NUOVO COLONIALISMO ECONOMICO

L’Africa è quella vissuta con le persone locali, con le quali mi sono mischiato per vivere uno stile di vita lontano dalla mia cultura. Nonostante lo sconsiglio della Farnesina, ho vissuto zolle di territorio ancora rischiose con le cautele di un viaggiatore che vanta con orgoglio 35 anni di esperienza alle spalle.
Ho visto bellezze, nella gente conosciuta, ma anche le bruttezze tra corruzione, gli sguardi poco rassicuranti dei militari e poliziotti, il nuovo colonialismo economico, gli abusi di potere in Gambia, alla frontiera.

DALLA CASAMANCE ALLA MAURITANIA

In Casamance, la regione senegalese dalle aspirazioni indipendentiste, ho visto ancora gli spettri di 40 anni di guerra civile, i check in della gendarmerie lungo la strada, i controlli, il braccio di ferro politico tra il sindaco di Ziguinchor e il governo centrale di Dakar.
Sono passato dalla pacifica convivenza tra musulmani e cristiani del Senegal al vessillo dello Stato Islamico della Mauritania, dai posti di blocco del Gambia con le atmosfere buie di una dittatura alle manifestazioni antigovernative lungo tutto il Senegal, presagio di chissà quali risvolti nelle prossime elezioni del febbraio 2024.

ALTRUISMO E ACCOGLIENZA

Nonostante tanta “nebbia” ovunque, mi ha accecato il sole dell’accoglienza e dell’altruismo degli africani, dei senegalesi prima di tutto. Ogni giorno una dimostrazione d’affetto, non ho mai fatto tante amicizie come in questo tragitto. E quando esclamavano: “Chi sei veramente? Non sei come gli altri turisti.” Dall’altra parte io rispondevo come se recitassi un mantra: “Sono un bianco caduto dal piedistallo che vuole vivere con voi e come voi nel Paese che vi appartiene del tutto, è il vostro, neanche una briciola di questa terra deve tornare nella grinfie degli ex colonialisti.”

NEL VILLAGGIO DI BOUYOUYE

La giornata indimenticabile nel villaggio di Bouyouye, in Senegal, insieme a grandi e piccini, è stata speciale. Sono sbucato senza guida e senza essere l’anonimo turista che distribuisce caramelle e chupa chupa per lavarsi la coscienza.
Ho vissuto nel villaggio ore indimenticabili in un rapporto paritario con tutti gli abitanti e il grande affetto dei bimbi, castigando l’odioso cliché dell’Africa povera tra pietà occidentale e commiserazione. Alla fine l’ho spuntata, sono stato un osso duro, africano dal primo all’ultimo istante di questo viaggio, anche quando i tassisti mi lasciavano a piedi perché maggioravano il prezzo di cinque volte e io urlavo i miei vaffa in francese, inglese e napoletano.

Durante la ma Africa ho guardato spesso l’Atlantico, compagno di viaggio nel mio giro del mondo. Ho ritrovato la sua sponda africana come quella tatuata sulla pelle di un vagabondo, il cui stivale che calza con orgoglio si chiama Italia. Oggi mi ritrovo 60 Paesi sul mio mappamondo e 50 anni di vita vissuta alle porte.

Tina Turner, locandina film

Tina Turner e la stretta di mano che conservo nel cuore

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Tina Turner non c’è più. Non mi sembra vero perché la sua musica è stata la colonna sonora dei miei lunghi viaggi negli USA verso il mondo afroamericano. A lei mi lega un bellissimo ricordo, al Lido di Venezia, nella cornice della Mostra del Cinema di Venezia.
L’emozionante film Tina – What’s Love Got to Do with It di Brian Gibson, presentato in anteprima al Festival del Cinema di Venezia del 1993, mi illuminò sulle enormi sofferenze di questa donna afroamericana. Quanti di voi sapevano che dietro la voce da leonessa nascondeva i lividi e le ferite dei maltrattamenti dell’ex marito e partner musicale Ike Turner?

TINA – WHAT’S LOVE GOT TO DO WITH IT

Allora Tina Turner non è stata protagonista di un biopic costruito a tavolino, come accade in alcune effimere operazioni di marketing cinematografico dei giorni nostri. Tina – What’s Love Got to Do with It è stato un bel film tra musica e privato, tra palco e casa, che ha saputo raccontare una delle voci più graffianti del rock e della black music.
Nel dicembre 2005 un bus americano della Greyhound mi condusse da Nashiville a Memphis. Attraversando il suo amato Tennessee scorsi i paesaggi dell’infanzia e della giovinezza di Anne Mae Bullock, in arte Tina Turner, per chi l’ha amata spassionatamente semplicemente Tina. Il cinema stimola riflessioni acute e la musica diventa pane per i denti dei viaggiatori ammalati come me degli on the road.

TINA, TESTIMONE CONTRO LA VIOLENZA SULLA DONNE

Sono passati trent’anni esatti dalla proiezione in anteprima in Sala Grande del film dedicato a Tina Turner e su un punto voglio essere chiaro. Ai tempi non si parlava di femminicidio o si denunciava la violenza sulle donne con la disinvoltura dei giorni nostri. Tina – What’s Love Got to Do with It resta un titolo manifesto. Lo avevo guardato già in mattinata alla proiezione riservata a noi della stampa ma bissai la sera stessa, ritrovandomi con un gran regalo tra le mani.
A mezzanotte Tina Turner arrivò a sorpresa in sala e tutto il pubblico della Mostra del Cinema di Venezia le tributò un’interminabile valanga di applausi e standing ovation. I suoi bodygard non le davano un attimo di respiro.

QUELLA CAREZZA DELLA SERA

Le urlai: “Grazie, Tina. Che il tuo coraggio sia un esempio per tutte le donne che hanno paura di denunciare la violenza degli uomini farabutti e vigliacchi.” Lei si voltò, incrociò il mio sguardo da ventenne, fece cenno alle guardie del corpo e si avvicinò. Mi diede una carezza e mi strinse forte la mano.
Dal 1993 conservo ancora nel cuore quegli istanti. Ad accompagnare tanta vita dell’uomo cinquantenne che sono oggi, c’è stata anche la musica di Tina Turner, tra graffi e ferite, sofferenza e tanto coraggio. Il coraggio di continuare ad amare, nonostante tutto, sempre.

Carlo e Camilla, The Crown, Netflix

Quali segreti ci riserva The Crown di Netflix sull’incoronazione di Carlo?

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L’incoronazione di Carlo a sovrano d’Inghilterra di sabato 6 maggio scrive una nuova pagina nella storia della monarchia inglese. Mi chiedo: quali segreti ci riserverà The Crown di Netflix?
Ormai è risaputo che la seguitissima serie tv, giunta alla quinta stagione, sia una spina nel fianco a Buckingham Palace. Vi vorrei vedere nei panni di un reale inglese, inclusa la compianta Regina Elisabetta, a litigare dal 2016 con il vostro alter ego sul piccolo schermo tra verità e immaginazione.

SESTA STAGIONE E POI THE END

Scusate l’impazienza. Quanto tempo dovrò aspettare affinché gli sceneggiatori di The Crown spifferino i retroscena dell’incoronazione di Carlo?
La sesta stagione, di cui sono in corso ancora le riprese, dovrebbe essere l’ultima della serie. I battenti si chiuderebbero sui primi anni Duemila fino all’incontro fiabesco tra William Kate.

CARLO, CAMILLA E GLI INCIUCI DI THE CROWN

Se così fosse Re Carlo III tirerebbe un sospiro di sollievo. Nella quarta e quinta stagione, tra il divorzio dalla principessa Diana e l’amore clandestino di una vita con Camilla non ne era uscito un figurino.
Spulciando tra gli aneddoti di palazzo mi è giunta voce che ormai Carlo sia stufo di guardare la serie tv di Netflix. Dall’altra parte mi sembra preoccupato. Re Carlo avrebbe detto a un gruppo ristretto di parlamentari scozzesi “di non essere la persona raccontata nella serie televisiva di The Crown“. A differenza sua Camilla ci ride su. Pagine di tabloid l’anno scorso la hanno ritratta al fianco della sua fotocopia televisiva, la brava e affascinante attrice Emerald Fernell, che ha constatato quanto la futura regina consorte fosse una donna di spirito.

PANE DA SCENEGGIATURA

Quale dito nella piaga si teme di più a Buckingham Palace sull’incoronazione di Carlo? Io non mi preoccuperei tanto dei 100 milioni di sterline spesi per la cerimonia che ricadranno fitti fitti sulle tasche dei britannici. Piuttosto sarei vigile sul prossimo brutto tiro di Henry e Meghan.
Del resto l’ultima sconcezza del principino ribelle non è andata proprio giù a Re Carlo: veleni e veleni messi nero su bianco nel libro Spare. Lo avete letto?
Questi ultimi farebbero l’acquolina in bocca a qualsiasi sceneggiatore.

NETFLIX, RIPENSACI!

Sul set di The Crown hanno appena finito di girare le scene del matrimonio di Carlo e Camilla, che potremmo vedere solo nel 2024.
Nel frattempo godetevi in tv l’incoronazione di Carlo, con una speranza, l’ultima a morire: che il nuovo Re sia quantomeno all’altezza della mamma Elisabetta e convinca quelli di Netflix a non chiudere l’amata serie tv con la sesta stagione.

Pino Daniele, scudetto napoli

Napoli nel pallone tra canzoni di ieri e di oggi

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La febbre scudetto sta a Napoli come Napoli alle canzoni. La musica popolare accompagna da sempre la squadra partenopea e ci sono diversi brani che vanno ricantati da soli o in buona compagnia. Torniamo ad essere canterini sul balcone come nei mesi grigi del lockdown? Ho scelto quattro canzoni di ieri e di oggi per accompagnare il sogno azzurro.

OJE VITA, OJE VITA MIA

Oje vita, oje vita mia oje core ‘e chistu core
si’ stata ‘o primmo ammore e ‘o primmo e ll’urdemo sarraje pe’ me!

è il ritornello della famosa canzone napoletana ‘O surdato ‘nnamurato. Quante volte l’avete sentita cantare in coro senza aspettare la febbre scudetto del Napoli?
Scritta nel 1915 da Aniello Califano sulle musiche di Enrico Cannio, è un testo triste di cui il ritornello, cantato a squarciagola sugli spalti dell’ex San Paolo di Napoli, ne stravolge il significato. In realtà questa poesia musicata, che ha avuto interpreti d’eccezione come Anna Magnani e Massimo Ranieri, racconta della sofferenza di un soldato al fronte, durante la Prima Guerra Mondiale, per la lontananza dalla sua donna.

FORZA NAPOLI

Nino D’Angelo ha dedicato alla squadra azzurra la canzone Napoli, colonna sonora del film Quel ragazzo della curva B, uscito al cinema nel 1987 e ambientato nell’annata del primo scudetto. Versi come

Viecchie e giovani cercano rint’a nu pallone Nu poco ‘e pace nu juorno nuovo Ca se chiamma libertà

esprimono bene come i trofei siano un grande riscatto per tutta la comunità partenopea. Il brano è inserito nella discografia ufficiale di D’Angelo, comparendo all’interno dell’album Fotografando l’amore del 1986.

DA PINO A DIEGO

Tango della Buena Suerte di Pino Daniele, uscito nel 2004 all’interno del disco Passi d’autore, è un omaggio sottovoce all’ex capitano del Napoli Diego Maradona. Sotto le vesti di un tango e con venature malinconiche la canzone di Daniele fotografa bene la persona nascosta dietro al personaggio. In un certo senso è anche profetica rispetto alla morte prematura del campione argentino:

E a luci spente suona il tango
per magia resterà qui per sempre come un fermo immagine.

IL DIO DEL PALLONE IN UN RAP

Maradona è il titolo di una canzone di Geolier, contenuta nell’ultimo album Il coraggio dei bambini e pubblicata lo scorso gennaio. Il rapper di Secondigliano ha dedicato al Pibe de Oro un brano intenso in cui si sente forte la voglia di rinascita e di riscatto. Il dio del pallone in terra diventa così per Emanuele Palumbo l’interlocutore privilegiato nel nostro tempo complicato e pieno di contraddizioni:

Vogl duij rilog Dieg Armand Maradona
Tie vir bro vir che or song
Fat nu mlion rop lag mis aggir
E bast cu sti sold so volgare e so imbattibil
.

Murales, Napoli calcio

Napoli, dove fare i selfie a “regola d’arte”

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A Napoli sale la febbre scudetto e un bel selfie ci sta bene per onorare la squadra di calcio partenopea. In alternativa all’ambita foto con il calciatore del cuore, si può optare per un murale, un graffito, un’opera d’arte a cielo aperto.
Ecco cosa la street art napoletana vi mette a disposizione per il prossimo selfie.

JORIT TRA SAN GENNARO E MARADONA

Cominciamo con la benedizione scudetto del Santo Patrono di Napoli. Nel quartiere Forcella splende il San Gennaro di Jorit e, dai suoi 15 metri d’altezza su piazza Piazza Crocelle ai Mannesi, rivolge lo sguardo su Spaccanapoli. L’arte del partenopeo Jorit Agoch, di madre olandese, ha conquistato il cuore di tutti i napoletani che hanno reso il suo San Gennaro uno dei murales parteopei più diffusi in Rete.
Jorit ha fatto colpo ancora con il maxi murale dedicato a Diego Armando Maradona nel quartiere periferico di San Giovanni a Teduccio. Apprezzato dallo stesso Pibe de Oro, l’opera gigantesca di Jorit è stata realizzata nel 2017 su una facciata delle vecchie case popolari in via Taverna del Ferro.

STREET ART E MOVIMENTO

Il murale dedicato a Maradona nei Quartieri Spagnoli è meta di pellegrinaggio da sempre. Su un vecchio palazzo di sei piani, in via Emanuele De Deo, Diego corre per segnare un goal, nel cuore della città che ha amato tanto. Street art e movimento evocano l’infinito sentimento partenopeo per il grande campione argentino scomparso prematuramente. L’opera è stata relaizzata nel 1990 da Mario Filardi in occasione del secondo scudetto vinto dal Napoli.
Meno noti, sempre in zona, sono i murales dell’artista argentino Juan Pablo Gimenez in via Trinità degli Spagnoli. I protagonisti sono Kim, Anguissa, Di Lorenzo e Kvaratskhelia e l’mpronta artistica movimenterà il vostro selfie.

DALLA STAZIONE DELLA CUMANA AI BAMBINI CON LA MAGLIA DEL NAPOLI

La fermata Mostra-Stadio Maradona della ferrovia Cumana di Napoli è un altro posticino da tenere in considerazione per un selfie a regola d’arte. Un’antologia di murales racconta la storia centenaria del Napoli Calcio fino ai giorni nostri. Qui avrete soltanto l’imbarazzo della scelta tra vecchie e nuove glorie che hanno indossato la maglia azzurra, da Cavani a Higuain.
Infine, si segnala l’omaggio artistico di Rosk & Loste al mondo dell’infanzia e alla passione per il pallone nell’opera gigantesca che campeggia in periferia, nel Parco dei Murales a Ponticelli. Le maglie della squadra del Napoli indossate dai due bambini, protagonisti del murale dei due artisti siciliani prima della febbre scudetto, trasmettono un forte segno di appartenenza, l’importanza della propria identità e delle radici comuni.

Napoli, Stadio Maradona, Ex San Paolo

4 luoghi storici nel cuore di un tifoso del Napoli

Occhiali

Scattata da un bel pezzo la febbre per il terzo scudetto, ci sono almeno 4 luoghi storici da vedere se sei un tifoso della squadra del Napoli. La società sportiva Calcio Napoli si prepara a festeggiare nel 2026 i cent’anni e in giro ci sono alcuni posti che appartengono alla storia di una squadra di calcio che ha segnato la storia del pallone in Italia. Sei o non sei un tifoso degli azzurri?

IL VESUVIO, IL PRIMO STADIO NON SI SCORDA MAI

Il rione Luttazzi, conosciuto al grande pubblico per la serie televisiva di L’amica geniale, ha ospitato il Vesuvio, primo e storico stadio della squadra del Napoli Calcio. Inaugurato nel 1930 a pochi chilometri dalla Stazione Centrale, fu completamente distrutto dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale dodici anni dopo.
Vita corta per il campo, intitolato successivamente ad Ascarelli, il fondatore della società calcistica partenopea scomparso prematuramente. Oggi a ricordare lo stadio e le sue gesta calcistiche c’è una targa ubicata nella via Vesuvio.

LO STADIO COLLANA

Al Vomero, quartiere collinare della città Napoli, c’è lo stadio Collana che ha contribuito a scrivere la storia degli Azzurri parteonpei negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso. Pochi sanno che l’ex stadio del Littorio con i suoi 8.000 posti ha ospitato la squadra del Napoli dopo la distruzione dell’Ascarelli sotto le bombe della guerra.
Doveva essere una location provvisoria. In realtà il Napoli ha giocato qui per 17 lunghi anni. Nel 1959 avvenne il trasferimento nel nuovo e grande stadio del Sole, battezzato poi San Paolo.

LO STADIO SAN PAOLO

Batticuore allo Stadio San Paolo, inaugurato nel lontano 1959 e intitolato dal 2020 all’ex capitano del Napoli Diego Armando Maradona. Ristrutturato in occasione dei Mondiali di Italia 90, lo stadio partenopeo è ubicato nel quartiere di Fuorigrotta, il più popolato del capoluogo campano. Nel corso dei decenni è riuscito ad ospitare per una partita anche 90.000 spettatori: si trattava del match tra la Nazionale italiana e la Germania Est del ’70.
Su questo campo si sono disputate partite degli Azzurri entrate nella mitologia del calcio di tutti i tempi. Chi non ricorda la mitica punizione del 1985 che portò alla vittoria gli Azzurri di Maradona contro la Juventus di Platini o il 4-1 del Napoli di Bianchi e Maradona contro il Milan di Sacchi e Van Basten del 1988?

IL CENTRO SPORTIVO PARADISO

A Soccavo c’è una pagina di storia del Napoli Calcio dei tempi di Maradona. Il Centro sportivo Paradiso, costruito nel 1977, è ormai abbandonato e lasciato morire a sé stesso da vent’anni.
Questo luogo potrebbe raccontare annali di allenamenti.
Siete tra coloro che ai tempi frequentavate il quartiere alle pendici della collina dei Camaldoli? Allora avete rubato i palleggi di Diego o portate ancora nel cuore il ricordo dei bambini gioiosi assiepati lì per strappare un abbraccio al loro dio calcistico.