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Paul Newman, addio agli occhi blu dell’America sincera

I suoi occhi blu hanno avuto il colore di un’America pulita e sincera, il suo sex appeal ha frantumato i cuori femminili di mezzo mondo, la sua presenza attoriale ha bucato il grande schermo consegnando al cinema ruoli memorabili. Paul Newman, scomparso all’età di 83 anni, resta uno dei miti tra realtà e immaginario collettivo, che soltanto il XX secolo ha saputo procreare. Dell’attore dell’Ohio non ci piace ricordare questo o quel personaggio, ma colui che è stato dentro e fuori dal set: semplicemente Paul Newman. La sua prima arrampicata cinematografica è legata agli anni cinquanta, un decennio idilliaco per gli USA. Ed è proprio quella serenità che i suoi occhi hanno trasmesso fino a ieri, lo stato interiore di un americano che voleva vivere una vita tranquilla, senza troppi grattacapi, distaccandosi dagli errori e i traumi dell’America dei decenni successivi. Mia madre è stata una sua grande ammiratrice e me lo ha presentato in un pomeriggio di trenta anni fa: “Vieni qui, che ti presento Paul Newman… quel signore lì”. Alla tv davano “Lassù qualcuno mi ama”: dietro la macchina c’era il grande Robert Wise e Paul con i suoi guantoni dava vita all’incredibile storia di Rocky Graziano. Crescendo, ho imparato ad apprezzarlo in “La gatta sul tetto che scotta”, “Lo spaccone”, “Furia Selvaggia” e “Butch Cassidy”. Da adolescente, l’ho detestato perché “per colpa sua” mi andava sempre male con le ragazze. “Mi spiace, ma non hai gli occhi blu come Paul Newman”, mi dicevano. Ed io quatto quatto me ne andavo con la coda tra le gambe, maledicendo i miei occhi castani! Ahimè, le ragazze a cui facevo il filo non avevano capito che non si trattava solo del colore degli occhi, ma di una verità misteriosa oltre il suo sguardo. Una verità che adesso l’America non rivedrà mai più.

Gomorra, l’Oscar mi rende nervoso!

Ogni anno è una tribolazione per trovare un accordo sul film che rappresenterà l’Italia gli Oscar. E il malcontento rischia di essere all’ordine del giorno per alcune candidature passate, azzardate ed ingiustificate: il Pinocchio di Benigni nel 2003 o La sconosciuta di Tornatore quest’anno. Sarà Gomorra di Matteo Garrone, il film tratto dal libro cult di Roberto Saviano, a restituire all’Italia il 22 gennaio 2009 la speranza di rientrare nella rosa delle nomination per l’ambita statuetta. Tradotto in 33 lingue con quasi 2 milioni di copie vendute, il libro dello scrittore e giornalista partenopeo è una radiografia sconvolgente, in bilico tra saggio e inchiesta, sulle attività criminali della camorra. La trasposizione cinematografica di Garrone è un racconto epico, una tragedia in stile classico che trasforma quei mostri localizzati tra Napoli e la sua degradante periferia in un dramma universale. Non dimentichiamo che la maggior parte degli Americani guarda l’Italia come il Paese di “spaghetti, sole, pizza, mandolino e mafia”. Quel film è un coraggioso atto di denuncia, e non una radiografia pittoresca o folcloristica del morbo cronico di una città e del Sud Italia. L’ambita statuetta – che tutti ci auguriamo – acquisterà un valore culturale e artistico soltanto se rientrerà nei parametri di questa riflessione: il popolo napoletano non ha più bisogno di finire in pasto alle prime pagine dei tabloid di tutto il mondo per autorevoli critiche, compassione o commiserazione. Napoli, oggi più di ieri, ha bisogno di una presenza costante delle istituzioni e del sostegno a persone come Saviano, piccoli grandi eroi dei nostri giorni bui. Se così non fosse, allora vi diciamo: “No grazie, l’Oscar ci rende nervosi”.

L’altro 11 settembre, la fine del Cile di Allende

L’11 settembre è una data in rosso nei nostri diari: nel 2001 l’organizzazione terroristica di Al-Quaida fa schiantare due aerei civili sul World Trade Center, le Torri Gemelle di New York. Da allora ogni anno in questo giorno tutto il mondo commemora le vittime di quella tragedia e il dolore degli Stati Uniti.

C’è l’altro 11 settembre che abbiamo dimenticato: 35 anni fa l’esercito cileno rovescia con un golpe a Santiago del Cile il governo di Salvador Allende. Con l’appoggio diplomatico degli USA, sale al potere il dittatore Augusto Pinochet e comincia per i cileni un lungo periodo di buio, fatto di delitti, atrocità e torture (i desaparecidos). Come fa un capitolo di storia così drammatico a sfuggirci? Perchè i media di mezzo mondo piangono il lutto degli Americani e non anche quello dei Cileni?

Riflettiamo con l’episodio diretto da Kean Loach nel film corale del 2002 dal titolo “11′ 09” 01″. Uno scrittore cileno scrive agli americani, concludendo così la lettera: “Oggi, 11 settembre, noi ricorderemo i vostri morti, ma voi, per favore, ricordate anche i nostri”. E’ solo così che gli angeli torneranno a volare, lasciando alla storia un saggio “Mea culpa”.

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Denti, la vendetta della “figa” al cinema

Pubblico e critica divisi a metà, nonostante il premio al Sundance Festival. Denti di Mitchel Lichtenstein (figlio del profeta della pop art) non è il banale teen movie che tutti pensano. E’ una sfuriata grottesca in stile horror per focalizzare il rapporto complicato tra adolescenti e sesso, sulla scia di un surrealismo che fa un baffo a Dalì, di uno splatter che stuzzica i primi film dei Cohen, di un vangelo di citazioni da far impallidire Tarantino (Evviva “Psycho” e “L’invasione degli ultracorpi”). A casa mia il sesso era un tabù: io e il mio compagno di banco delle medie ci siamo chiesti se le ragazze rosse avessero una peluria rossiccia! In una mattina di giugno ne abbiamo spiata qualcuna da sotto il banco e ci siamo dati una risposta. E se la “rossa” dei nostri sogni proibiti avesse avuto una vagina dentata? Al diavolo i falsi moralismi e le repressioni da scuola clericale: ci sarà pure una volta che sesso e sentimento si incontrano in un maledetto giorno speciale! E se questo non accade, ben venga la protesta della “figa”, sbandierando femminismo a più non posso. Ben venga la vendetta di Dawn (Jess Weixler è la biondina con cui tutti avremmo voluto passare una notte proibita da liceali) contro il dilagante arrapamento degli uomini di qualsiasi età e quell’assassino maschilismo che ancora mercifica il corpo della donna, annichilendo l’universo femminile. “Luisa, non è che stasera mi fai brutti scherzi? Magari ce l’hai cariata…”. Non è una citazione del film, ma la battuta cult del mio vicino di posto alla sua amorosa!

Le cronache di Narnia: il principe Caspian

Il principe Caspian, secondo capitolo delle Cronache di Narnia, è uscito alla vigilia di Ferragosto. Chi non era spaparanzato in spiaggia sotto il Sol Leone, sgranocchiava pop corn in sala col sostegno dell’aria condizionata. La Disney si consola con il fantasy e segue le orme del ciclo di Il Signore degli anelli. Rispetto agli ultimi tonfi della major americana, Narnia è stato una boccata d’aria, anche se questa seconda parte non mi ha convinto. Noiosa e prevedibile all’inizio, si riprende dopo un’oretta e offusca quella magia a cui c’eravamo abituati. Insolito il ruolo affidato al nostro Sergio Castellitto e troppa l’attesa per rivedere due personaggi a cui tutti noi ci siamo affezionati: il leone e la strega. La piccola Georgie Henley (Lucy) è cresciuta, ma ha perso quella tenerezza che mi ha incantato nel primo film. Comunque vale la pena vederlo. E gli altri sequel? Hanno già messo mano per non far crescere troppo gli attori. E’ davvero difficile che un ciclo di film mantenga sempre alte le aspettative. Speriamo che il terzo round vada meglio…

La banda di Eran Kolirin

La banda musicale mi riporta nei piccoli paesi di provincia, specialmente quelli del Sud Italia. Un tempo far parte della banda cittadina era prestigioso e un onore da difendere con gli artigli. Il bel film di Eran Kolirin mi ha fatto ritrovare quelle atmosfere. La banda, produzione franco-israelita, è un film che merita di essere visto, sorseggiato col contagocce inquadratura dopo inquadratura: una banda delle polizia egiziana è invitata in Israele per suonare, ma sbagliano destinazione e si ritrovano in un paese sperduto e desolato. Sono ospitati da una coppia del posto e così una giornata iniziata male diventa un pretesto per riportare sullo schermo un succo di poesia. Popolazioni separate da un confine possono superare una montagna di diversità e sentirsi uniti al di là della politica, religione, cultura e lingua.