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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Sabina Guzzanti, Draquila e il post-terremoto dell’Abruzzo

E’ riuscita a far tremare l’Italia, per fortuna senza vittime innocenti, facendo imbarazzare le cariche più alte delle istituzioni, facendo affacciare dalla finestra anche papà Guzzanti (Paolo), “fiero” o “rassegnato” di avere come figlia una piccola peste.  Mi riferisco a Sabina Guzzanti, superstar al Festival del Cinema di Cannes con Draquila, il suo film-documentario  sul terremoto che ha messo in ginocchio l’Abruzzo l’anno scorso. La scena mediatica e televisiva di allora finisce in soffitta, perchè la Guzzanti, dietro e davanti la macchina da presa, ci dà dentro con un pesante controscena documentaristico tra irriverenze e denuncia, dove il backstage della tragedia ci fa vedere il dramma vero degli aquilani. Qui c’è poco da ridere, anzi forse c’è da piangere. L’uragano Guzzanti trionfa alla Croisette, riporta l’Italia al centro dei riflettori con un cinema-verité molto più francese di quanto non sia quello di largo consumo che ci propinano nelle nostra sale. Mi riferisco a quei film “cazzutti” che ogni tanto tirano fuori, come per dire agli italiani che possono permettersi il lusso di non pensare, tanto stanno tutti bene (citando una pellicola di Giuseppe Tornatore). Non stiamo bene, e non va bene un bel niente.  Il Ministro della Cultura Sandro Bondi ha disertato Cannes e questa assenza ha rialzato il polverone. Corre voce che la Guzzanti sia “una svergognata”, così come lo erano i padri del Neorealismo italiano, testimoni di cosa fosse davvero l’Italia di quel tempo. E se i veri “svergognati” fossimo noi, rassegnati ad un’Italia addomesticata dal populismo e dalla volgarità?

Addio, Vianello gentiluomo. Arrivederci, Raimondo della porta accanto!

E’ morto Raimondo Vianello e con lui quella pagina del ‘900 che ha fatto grandi Televisione e Varietà. Una vita spesa per un lavoro affascinante e difficile assieme alla compagna di sempre, Sandra Mondaini. Io, per fortuna, appartengo alla generazione degli anni ’70 e, nel mio baule privato, riesco ad arraffare ricordi, prima ancora di Casa Vianello o della memoria popolare imprigionata su YouTube. Il ricordo personale si muove a carponi  nelle domeniche pomeriggio tra il ’78 e il ’79, tra la cucina e la mia cameretta, nella gioia di passare dal piccolo televisore in bianco e nero al primo schermo a colori e ritrovarsi Raimondo e Sandra sul loro divanetto, in Rai. Chi si è fatto contagiare dalla malattia del teatro, si è emozionato tra le sequenze ingiallite di Raimondo Vianello al fianco di Ugo Tognazzi, Macario e Bramieri. Ed è prorpio ad una commemorazione per il suo amico Gino che l’ho incrociato alcuni anni fa. Un ricordo tenero, di un anziano signore, gentile e cordiale, dal sorriso sornione e dalla battuta facile. Sandra ha perso il suo Raimondo, noi il vicino della porta accanto, il dirimpettaio con il quale ci siamo intrattenuti piacevolmente per decenni e decenni. Lo hanno conosciuto i nostri nonni, lo hanno amato i nostri genitori e lo rimpiangeremo noi, figli del “dio minore della volgarità”.

Leggi l’articolo correlato: Addio a Raimondo Vianello.

Al cinema con Mine vaganti

Il titolo mi piace forse perchè mi ci ritrovo: mi sento una mina vangante. E mi piace pensare allo scompiglio che questo vagare comporta,  assalendo certi ambienti ingessati, piccolo borghesi di provincia, dove pensano di farla franca i predicatori che razzolano male. Lo ammetto: Mine vaganti, l’ultimo film di Ferzan Ozpetek, non mi ha entusiasmato. Quando vedi l’ennesima pellicola dello stesso regista finisci col fare i confronti con i titoli  precedenti. Saturno contro era un’altra cosa, Le fate ignoranti meglio ancora. E’ inutile fare i “paraculi sapientoni”, ma il gay-oriented funziona oggi, in letteratura come al cinema o in tv. Ci fa sentire guariti da quei fottuti pregiudizi che consegnano alla nostra superbia il diritto usurpato di dire se sia giusto o no.  In Mine vaganti lo humor ci sta ed è pure incalzante; il cast ci sta e Ilaria Occhini, nei panni della vecchia nonna, è raggiante, Riccardo Scamarcio e Alessandro Preziosi pure ci stanno e si sono rifilati nella nuova tendenza hollywoodiana che ha trasformato sciupafemmine come Sean Penn e Colin Firth in sex simbol gay. Si fa quel che si può. Ozpetek mette troppa carne a cuocere e i soliti girotondi della macchima da presa si sono già usurati. Il film è un ottimo biglietto da visita per la città di Lecce, che fa da sfondo alla storia e non ha bisogno di “raccomandazioni” per essere scelta come meta delle nostre prossime vacanze estive.

Sophia Loren, da un autografo alla fiction

Si dice che dalla grafia si possa capire l’anima di una persona. Vale anche per l’autografo di una diva? Guardando ieri sera la prima puntata di La mia casa è piena di specchi, la fiction di Raiuno che racconta una parte della vita di Sophia Loren, mi è tornato in mente l’unico incontro con lei, nel 2002 al Festival del Cinema di Venezia. Mi ha fatto tenerezza la Loren in quell’occasione: teneva per mano il figlio Edoardo e gli faceva da “mamma-madrina” per la presentazione del suo film. Di quell’incontro mi resta un autografo su una vecchia videocassetta, quella del film “Una giornata particolare” di Scola a cui mi sento particolarmente legato.  In quella firma tremolante non riesco a leggere niente più di Sofia Scicolone, perchè è come se gli anni da diva d’oltreoceano avessero offuscato la persona. Eppure nel film televisivo diretto Vittorio Sindoni la vera eroina si conferma la mamma di Sofia, donna Romilda Villani. Dietro un’attrice di successo c’è una grande mamma (Romilda) o un grande uomo (il produttore Carlo Ponti)? La fiction si inceppa in qualche stilema troppo edoardiano, tra i traumi di Napoli Milionaria e la leggitimità dei figli di Filumena Marturano, ma ci lascia un interrogativo: Oscar per la Ciciora nel 1962. Sarebbe mai accaduto se dietro la macchina da presa non ci fosse stato un grande regista come Vittorio De Sica? Nel “ph” di Sophia ci sono davvero allora dei grandi uomini, altrimenti forse quella ragazza di Pozzuoli sarebbe rimasta un volto dimenticato di un fotoromanzo in bianco e nero. E non c’era bisogno di questo tributo televisivo per scoprire l’acqua calda!

Muro contro muro, Berlino 20 anni dopo

L'abbatimento del Muro di Berlino

Rosario PipoloIl 5 novembre gli U2 suonano gratis a Berlino per ricordare i 20 anni della caduta del Muro. Chi lo avrebbe detto il 9 novembre del 1989 che Bono e compagni, reduci allora dalla pubblicazione del loro primo album-documentario (Rattle and Hum), si sarebbero trovati a suonare anni dopo davanti alla Porta di Brandeburgo. Io mi ricordo le immagini in tv di quel giorno: un fiume di persone si spingeva lungo la Bornholmer Strasse. L’abbattimento fisico della cortina di ferro fu fiseologico, quel passaggio da Est a Ovest richiamò all’appello i misfatti della storia, e la gioia e gli abbracci tra le persone furono incontenibili.  Eppure nessuno ha saputo spiegarmi davvero cosa ci fosse dietro e davanti al Muro. L’ho capito soggiornando a Berlino, riflettendo alla Casa museo del Checkpoint Charlie, un luogo intimo per raccogliere storie, testimonianze raccapriccianti, soffermarsi sui particolari. Berlino, 20 anni dopo, ha lasciato in giro pochi brandelli di muro. In un sondaggio dei primi mesi del 2009 risulta che il 51% dei tedeschi rimpiange la cortina di ferro perchè dopotutto la massima vale ovunque: si stava meglio quando si stava peggio. Il muro del “disfattismo” sotto le vesti del rimpianto si scontra con l’altro muro religioso e ideologico, eretto in Europa tra l’89 ed oggi. La nostalgia non porta da nessuna parte, ma la spericolatezza di chi dovrebbe guidarci  è ancora più disastrosa. Vivrò questo anniversario con una punta di ironia, riguardando il bel film  di Wolfgang Becker Goodbye Lenin!.

Margherita Buy e l’attesa di “Lo spazio bianco”

la locandina di "Lo spazio bianco"

Rosario PipoloAl cinema a Margherita Buy le appiccicano sempre il solito clichè: quello della “sfigata”. E questa tendenza me la ricordo fin dai tempi della sua partecipazione al film Fuori dal mondo di Giuseppe Piccioni. Stessa cosa accade nella nuova pellicola di Francesca Comencini Lo spazio bianco, tratta dall’omonimo romanzo di Valeria Parrella. Tuttavia, qui è passabile perchè la Buy è davvero convincente nel ruolo di questa mamma che deve attendere mesi per sapere se la sua bimba, nata prematuramente, riuscirà a sopravvivere. Non vi aspettate il solito cinema al femminile con quei luoghi comuni melodrammatici. Il taglio della Comencini è quasi “documentaristico”, asciutto e asettico, sospeso nel vuoto. Persino Napoli, città-sfondo della storia, è irriconoscibile senza stereotipici e la colonna sonora dalle intrusioni jazz è azzeccata. Lo spazio bianco mi ha riportato a riflettere su un anello ricorrente della nostra vita: l’attesa. Ogn giorno ci viene chiesto di attendere e “sapere aspettare” è davvero un dono. E non venite a dirlo a me che sono impaziente per natura!

Al cinema con Baarìa per tornare in Sicilia

Una scena dal film "Bariia"

Rosario PipoloIl cinema può solleticarti l’idea di fare un viaggio; un viaggio fatto alcuni anni prima può spingerti ad andare al cinema per ritrovare quei luoghi. Baarìa è l’omaggio di Giuseppe Tornatore alla sua Sicilia in un canto visivo e corale dove quasi tutto il ‘900 si consuma ai margini di vita vissuta.  Sì è vero: ci sono i paesaggi ampi di Sergio Leone; ci sono i connotati storico-politici di Bernardo Bertolucci e del suo Novecento; ci sono eccessi di uno sfilacciante sentimentalismo tipico di Nuovo Cinema Paradiso; ci sono i picchi musicali ruffiani di Morricone e altre combinazioni che potrebbero renderlo già da “Oscar” agli occhi degli Americani. Tuttavia, nel nuovo film di Tornatore c’è una gestione calibrata del tempo e dello spazio che allontana in parte una comunità dai soliti stereotipi e da quella stemperata iconografia. Baarìa ha riscattato alcuni ricordi dei miei viaggi in Sicilia, e sicuramenti non quelli turistici e da cartolina legati a Taormina, Cefalù, la Valle dei Templi o Siracusa. Ha riscattato il mio viaggio di un pomeriggio d’agosto nell’entroterra arido e deserto tra la visita riflessiva in un piccolo cimitero di San Giuseppe Jato, la rilettura di una lapide a Portella della Ginestra e il retrogusto acidulo della ricotta a Piana degli Albanesi. E’ quella la Sicilia che voglio ricordare. Non penso che “percorrendo avanti e indietro per anni poche centinaia di metri, puoi imparare ciò che il mondo intero non saprà mai insegnarti”. Prima o poi bisogna andarsene, percorrere distanze chilometriche e prendere coscienza di quello che credevi fosse “l’ombelico del mondo”. Giuseppe Tornatore avrebbe fatto meglio a risparmiarci “le tette” della Bellucci per un cammeo di tre siciliani dimenticati: Lando Buzzanca, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.  

Dove sono gli 007 come John Sawers? In mutande su Facebook…

bondblog

Rosario PipoloChissà se James Bond, ai tempi di Sean Connery, si sarebbe fatto incastrare dei social network, tra la fame del gossip e il motto dei curiosi della rete che sbandierano: “Perchè dovremmo farci i cazzi nostri?”. La moglie di un agente britannico ha peccato di ingenuità, mettendo a repentaglio la carriera di suo marito. Nel centro del mirino c’è John Sawers, capo supremo degli 007, che adesso potrebbe vedersi tagliato fuori dalla sua superpagata posizione lavorativa: Sua Maestà si è arrabbiata perché la sicurezza britannica è in pericolo. Mettiamoci un pizzico della nostra immaginazione. “Dove è Sawers?”, avrà esclamato dal suo trono.  “Maestà, non abbiamo sue notizie da qualche giorno. Qualcuno giura di averlo visto giocare a frisbee su Facebook”. Infatti, la signora Sawers ha pubblicato alcune foto imbarazzanti del suo uomo. Un agente segreto vestito da Babbo Natale ci può stare, ma “in mutande” no. Non ne va dell’orgoglio cazzimmoso degli inglesi? E adesso chi glielo dice a Sua Maestà che un altro simbolo del Regno Unito si è “sputtanato” per sempre?

Napoli, Totò e l’oltraggio al cimitero cittadino

tomba150Ha destato scalpore la notizia di alcuni giorni fa del furto dello stemma nobiliare sulla tomba di Totò. Nessuno si sarebbe mai aspettato che i napoletani oltraggiassero il luogo dove riposa il Principe del sorriso. Per fortuna l’oggeto è stato ritrovato, ma Liliana De Curtis picchia duro e minaccia di chiudere il sepolcro. Comprendo l’indignazione e la rabbia, ma privarci di porgere il nostro omaggio a questo grande artista sarebbe un grave errore. Piuttosto bisognerebbe mettere in discussione la pessima gestione del cimitero da parte del comune di Napoli.  E non mi riferisco soltanto all’area del monumentale, ma anche a quella del “cimitero vecchio” tra Poggioreale e la Doganella. Ci sono passato alcuni giorni fa a visitare i miei nonni e ho ritrovato alcune zone totalmente abbandonate. A questo punto mi chiedo: non è forse più “oltraggioso” il totale disinteresse da parte delle istituzioni locali e la strafottenza di alcuni dipendenti a tutelare lo storico cimitero cittadino? Eduardo De Filippo aveva ragione a sostenere che “i vivi fanno più paura dei morti”. In questo caso, aggiungerei infangando la memoria dei nostri cari defunti!

Harold Pinter, quell’incontro mi cambiò la vita

harold-pinter150Alcuni giorni fa è scomparso il Nobel Harold Pinter (1930-2008), astro della drammaturgia britannica del ‘900. In un piccolo teatro di provincia sono stato spettatore di un suo testo, Tradimenti, e me ne sono innamorato. Per Pinter ho fatto follie. Nel 1996 sono andato dal compianto Prof. Franco Carmelo Greco a chiedergli una tesi sul suo teatro. Avevano scritto fiumi di parole. Ho svoltato in direzione cinema, focalizzando sul rapporto tra le sceneggiature pinteriane e il cinema di Joseph Losey. Per Pinter ho rischiato. Nessun professore della Federico II voleva firmarmi una tesi che avevo progettato a mio modo per filo e per segno. Nel luglio 1997 sono partito su un autobus Roma-Londra per andare a raccogliere materiale. Per Pinter ho sfiorato una tirata d’orecchi da parte della polizia londinese. Mi sono messo con le braccia incrociate sotto casa sua per intervistarlo e la povera governante di casa Pinter era lì a ripetermi: “Lo vuole capire che il signore non c’è?”. Io ero lì ad osservare lo studio dalle vetrate, immaginando quell’incontro che sarebbe avvenuto quattro anni dopo. Mi sono laureato con quella tesi, alle mie condizioni, e nel 1999 la Facoltà di Sociologia ne autorizzava la pubblicazione. Per Harold Pinter sono stato davvero cocciuto: avevo in mano il mio primo libro “Harold Pinter sceneggiatore per il cinema di Losey tra letteratura, cinema e multimedialità” e nel 2001 sono stato invitato a relazione ad un convegno a lui dedicato. Quando gli ho consegnato il mio saggio, gli ho sussurrato: “Il suo teatro, la sua scrittura, la sua coerenza politica hanno aperto nuovi varchi nella mia coscienza con prospettive simultanee, innescando nella mia formazione un misto tra ragione e sentimento”. Mi mancherà Harold Pinter così come a tutti coloro che gli hanno dedicato anni di studio. Le passioni non vanno mai barattate con niente, qualsiasi sia il prezzo da pagare. Quei testi sono un grande tesoro, per noi e per le prossime generazioni, a cui potremmo raccontare che ci sono stati uomini capaci di dare un significato profondo alla cavalcata misteriosa della vita.