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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

“Stupendo, mi viene il vomito… Non lo so se sto qui o se ritorno.”

Svolta in quella strada. Rallenta, lo vedi il perimetro in cui ci siamo giocati la partita dell’infanzia, tra casa tua e quella di nonna? Forse questi trentott’anni d’amicizia li abbiamo fatti correre troppo velocemente come degli acrobati accovacciati tra le corde della strafottenza che ci accomunava.
Non era superficialità la nostra, piuttosto la leggerezza ribelle che ci ha fatti crescere sovversivi nella provincia mediocre infangata dal vivere per apparire.

Guardando una fotografia
mi rendo conto che il tempo vola
e che la vita poi è una sola…
E mi ricordo chi voleva
al potere la fantasia…
erano giorni di grandi sogni… sai
erano vere anche le utopie.

Fermati al semaforo anche se è verde, così i clacson delle auto impazzite orchestreranno l’ennesimo concerto del fuje fuje.
Guarda, alla tua sinistra, la panchina di via Diaz dove ti venivo a cercare nelle serate di giugno stiracchiata su quella vespa bianca. I tramonti d’estate, che avevano spettinato la fine dell’anno scolastico, ci facevano galoppare sui nostri sogni, sul futuro difeso a denti stretti, niente ce lo avrebbe scippato, neanche la morte.

Ma non ricordo se chi c’era
aveva queste queste facce qui
non mi dire che è proprio così
non mi dire che son quelli lì!

E ora che del mio domani
non ho più la nostalgia…

Andiamo contromano, non c’è nessuno in quella piazza, ci siamo io, tu ed Elisabetta che cantiamo a squarciagola Stupendo di Vasco, proprio come in quella sera d’autunno in cui la gente ci guardò come se fossimo ammattiti.
Poi sulla via del ritorno, dal sedile anteriore della mia 127 ciondolante, mi sussurrasti: “Ti piace la mia amica?”. Fu allora, sull’onda dei miei vent’anni, che mi convinsi: tu sapevi leggermi dentro, perforavi il mio cuore come solo una ragazza sa fare con un caro amico.

E cosa conta “chi perdeva”
le regole sono così
è la vita ed è ora che cresci!
devi viverla così…

Rallenta pure, guarda gli alberi, le foglie morte, come hanno ridotto il paesaggio della nostra adolescenza.
Li vedi quei faccioni sui cartelloni giganti che elemosinano voti per le prossime elezioni amministrative? Sono figli e nipoti di coloro che svendettero il diritto alla vita e alla salute in cambio di potere, poltrone, incarichi, posti di lavoro. Gli spargimenti di veleno nella nostra terra oggi generano morte senza pietà.

Però ricordo chi voleva
un mondo meglio di così!
ancora tu che ci fai delle storie…(ma dai)…
cosa vuoi tu più di così…

Siamo arrivati. Cosa fai, scendi dall’auto? Non chiedermi di guidare, di tornare indietro da solo nella terra dei fuochi governata da assassini in giacca e cravatta, non ce la faccio, sei la mia vita, sei la mia famiglia.

Mi viene il vomito,
è più forte di me
non lo so
se sto qui
o se ritorno.

Aspetto qui. Non voltarti indietro, Maria Grazia. Che luce abbagliante, allora Dio esiste davvero.

Ciao Antonio, amico e dono della “strada” di periferia

antonio-amico-strada

rosario_pipolo_blog_2Ci ho messo mezza vita per bollare la consapevolezza che la strada mi ha donato la maggior parte delle persone che hanno abitato la mia esistenza. Non ho detto un condominio, un appartamento, il terzo piano di un palazzo. Ho detto la strada, una strada di periferia, punto. L’infanzia ti dona gli amici, ma poi con il passare del tempo te li sottrae.
La strada no, li spinge tra le braccia della quotidianità e li lascia vivere lì, in un angolo, anche quando te ne vai, anche quando sei dall’altra parte del mondo, illudendoti che nei posti in cui sei cresciuto tutto resti immobile e la memoria sia protetta da una forzuta campana di vetro.

Quella con Antonio è stata un’amicizia fiorita per strada, lì alla periferia di Napoli, anche se con suo fratello minore c’eravamo conosciuti tra i banchi dell’asilo. Con il passare degli anni mi divertiva il fatto che io e Antonio avremmo potuto comunicare con i segnali di fumo, perché i nostri balconi erano dirimpettai in linea d’aria.

Il posto dove lo rincorrevo era un polveroso campetto di calcetto, soprannominato da noi ragazzini “campetto dell’Avis”, perché si trovava a pochi passi dall’associazione dei volontari donatori di sangue. Io con il pallone non c’entravo nulla, ero assolutamente imbranato e l’unica scusante era il destino da piccolo occhialuto “quattr’occhi”. Antonio era sempre garbato in occasione di quelle poche partitelle in cui mi tiravano dentro.
Quando anni dopo lo ritrovai con i fratelli a gestire un negozio di noleggio video – lì respiravo l’atmosfera del film indipendente Clerks – me ne uscii con questa battuta per cui mi attribuirono un futuro da pubblicitario: “Altro che Warner Bros, tutt’altro cinema con i Cerbone Bros”.

Antonio prese in sposa una mia adorata compagna delle scuole elementari ed io mi convinsi che “la strada” era capace di cucirti addosso una nuova famiglia, fatta da quelle stesse persone che costellavano la tua quotidianità e soltanto in apparenza erano delle comparse.
Le amicizie da strada,
come quelle tra me e Antonio, non hanno niente a che fare con queste odierne misurate tra i mi piace convulsi di Facebook o le logorroiche chat di WhatsApp. Erano tutt’altra storia, avevano il tanfo dell’asfalto, il rialzo di un lungo marciapiede, il recinto di una panchina dove ritrovarsi a chiacchierare e spingere i sogni di quelli della nostra generazione.

Il dolore e la rabbia ti assalgono quando ripensi all’ultima volta che lo hai incontrato, qualche anno fa, senza immaginare che quella sarebbe stata l’ultima. Nessuno ti avverte quando un’amicizia da strada finisce lassù, perché nessuno immagina quanto conti ancora davvero per te.

Adesso chi glielo dice ad Antonio che non ho mai smesso di volergli bene? Gli ho fatto un bel dispetto per questo doloroso scherzo, ho fregato una sua bella foto. La guardo e me lo ritrovo accanto in una notte milanese. Piango lacrime di marzo. Sono sempre io, l’amico di strada con i capelli brizzolati, occhialuto come allora.

Giornata Internazionale dei Diritti dell’Infanzia: basta allo sproloquio su Facebook!

Rosario PipoloPiù di cinquant’anni fa sui rotocalchi di mezzo mondo circolavano gli scatti degli inquilini della Casa Bianca con i propri pargoli. Questo di JFK è uno dei tanti. Chissà se oggi, nell’epoca del consumismo usa e getta dei social network, le stesse immagini cadrebbero nella trappola che fa dell’infanzia “la merce” dell’egocentrismo di mamma e papà.
Il 20 novembre si celebra la Giornata Internazionale dei Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Sarebbe “cosa buona e giusta” far pulizia nel marasma di Facebook e rottamare l’abuso di immagini e racconti che trasformano i nostri figli in piccoli super-eroi.

I primi a farsene promotori dovrebbero essere insegnanti ed educatori. Si sa però che è arduo intromettersi, perché la paternità e la maternità si alimentano di piccole soddisfazioni che vanno assolutamente condivise. Ai tempi del telefono SIP si chiamava la suocera e si raccontava che “il pupo aveva fatto il primo caccone”.
Ai tempi di Facebook si inizia dalla gravidanza con un racconto quotidiano. Poi arrivano le foto della nascita e gli status dei primi mesi di vita, finché scatta il campanello d’allarme: le immagini del bimbo seminudo e il primo bagnetto.

Ai tempi delle scuole elementari, in attesa che suonasse la campanella, origliavo discorsi raccapriccianti. “Il mio secondo è davvero un genio. Fa la cacca profumata”, proclamava il papà di un mio compagno di classe. E l’altra mamma, dallo sguardo invidioso, replicava: “La cacca deve puzzare, altrimenti che maschio è?”.
Oggi ai tempi dei social network, i pupi si ritrovano in prima elementare un bell’account di Facebook tutto per loro, con gli elogi di mamma e papà, che li vogliono tutti bravi “cantanti, ballerini, musicisti, calciatori” e la promessa di spedirli presto dalla regina del talent show Maria De Filippi, che farà di loro una vedette.

Il primo passo potremmo farlo proprio in occasione della Giornata Internazionale dei Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza: spegnere tutto questo e mandare in corto circuito la giostrina virtuale. Potremmo rincasare prima, goderci in privato il sorriso dei nostri cuccioli. Non sono “supereroi” perché sono bravi in questo o in quello, ma semplicemente perché sono la meravigliosa espressione della generosità della vita nei nostri confronti.

Diario di viaggio: Fondi, ricordo di un’estate

Resto sempre convinto che Ricordo di un’estate (Stand by me) di Rob Reiner sia uno dei film più belli sull’adolescenza. Non mi riferisco tanto alla storia, ma al fondale estivo che lascia un segno nei quattro ragazzi protagonisti. Ognuno ha il suo ricordo di un’estate: il mio è a Fondi. Vi sono tornato dopo più di vent’anni e mi è sembrato che il tempo si fosse fermato a quell’agosto del 1988. Certo, nel paesotto in provincia di Latina vi avevo trascorso una memorabile vacanza nell’82, proprio nei giorni in cui l’Italia vinse i Campionati del Mondo di calcio.
Tuttavia, l’ultima estate era stata diversa: non c’erano i miei genitori e forse fu proprio quest’assenza a farmi spingere, con la complicità dei miei cuginetti Massimiliano e Andrea, oltre i canoni dell’ingessata adolescenza, verso una forma di ribellione interiore che mi permise di vivere un legame profondo con le persone del posto, in una contaminazione affascinante tra campagna assolata e spiagge selvagge.
Sono tornato nella stessa casa e in quella bottega era rimasto quasi tutto uguale, ma al banco di lavoro non c’era più Guido. Mi piaceva osservarlo mentre grattugiava in silenzio le sue tavolozze di legno. Una volta me ne regalò una, accompagnata da un pensiero: “Faccio il falegname perché, tutte le volte che il legno prende forma, mi sembra di restituire l’anima anche all’oggetto più insignificante”. Sono tornato a Fondi perché avevo voglia di dire al mio amico falegname che quell’estate dell’88 mi trasformò da burattino in un bambino vero, proprio come nella favola di Pinocchio. Purtroppo non ho fatto in tempo, perché mi hanno detto che era partito per sempre. Pare che sia scomparso nello stesso mare in cui noi ragazzi nuotavamo e ci sentivamo liberi come mai saremmo stati.
L’ultima volta che ho lasciato Fondi, Mirella era affacciata al balcone, Dina seduta su una panchina e Gionathan accovacciato su un albero. Furono proprio loro i compagni d’avventura e i protagonisti del mio ricordo di un’estate. Riabbracciandoli ho ritrovato Guido, il loro papà, e mi sono convinto per l’ennesima volta che gli affetti nati sotto il cielo estivo durano per tutta la stagione della vita e ci fanno sentire forti anche quando il dolore e la tristezza tentano di offuscare le nostre esistenze. Risalendo sul treno, ho capito che i figli di Guido mi avevano restituito la fragranza dell’estate al posto di un tenero ricordo, allo stesso modo in cui il loro papà dava l’anima a tutti quei pezzetti di legno.