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Tag arredamento

Caro vecchio divano…

Quando mi sono disfatto del vecchio divano e sono venuti a ritirarlo per far spazio a quello nuovo, ho visto un pezzo della mia vita andarsene via. Direte un divano?
Nessun attaccamento tipico del feticismo da amante d’arredamento. Anzi, se ci ripenso gli arredi della mia vita sono stati le fermate d’autobus, le panchine, gli angoli delle stazioni, le vecchie cabine telefoniche perché da viaggiatore mi hanno fatto conoscere altri viaggiatori della vita.

Quando ero piccolo il divano era rinchiuso nella lontana stanza-salotto che noi gente del Sud usavamo aprire soltanto nelle grandi occasioni. Otto anni fa mi trasferii nella nuova casa e volli il divano nel cuore del soggiorno con una penisola che il più delle volte finiva per ridursi a scrivania.
Per carità non sono un pantofolaio e i divani mi hanno sempre dato l’aria di quella pigrizia e noiosa indolenza da cui sono stato alla larga.

Per questo è stato diverso, la fodera è stata una sorta di moviola di condivisioni: ci sono passate decine e decine di persone che all’inizio lo scambiavano per un divano letto. Invece no, non era trasformabile, era un divano punto e basta.
E chi ci ha dormito in questi anni si è adattato con uno stato di provvisorietà che faceva dei cuscini presi a Londra, la città dove sono rinato da adolescente, e della coperta dell’ospite un barlume di provvisorietà che ti faceva  sentire in un mini accampamento fatto in casa.

Quel divano, se ci ripenso, è stato l’isola che mi ha fatto viaggiare stando fermo: migliaia di vinili ascoltati, letture, film rivisti e poi bivaccato con le dita sulla tastiera del pc a scrivere, correggere, riscrivere, sbobbinando interviste, imbastendo i capitoli del mio romanzo, cacciando i biglietti per i nuovi viaggi, appuntando itinerari, scarabocchiando sogni della mia nuova vita in una terra che non era la mia. Chiacchierate e segreti condivisi con i miei interlocutori come se fosse la seduta di un talk show intimo per svelare la nostra specie in estinzione, avvinghiare aspettative, raggomitolare progetti futuri, cambiando magari posto perché la penisola ti permetteva di stendere le gambe.

Il divano era lì fermo e immobile a raccogliere vita su vita, pattumiera di sconfitte o sputafuoco di successi, notizie belle o brutte, il dolore immenso per la notizia di persona cara scomparsa, come una puntura endovena; la gioia nel vedere la tua nipotina, per la prima volta a casa, riconoscere nello spazio del divano la libertà negata da una minuscola culla.
E poi lo smaltimento di coccole e tenerezze tra lei che guardava la televisione nella zona della penisola ed io che puntualmente mi addormentavo sulle sue gambe senza mai riuscire a ricordare il finale del film.

Il pavimento è vuoto ora e c’è ancora il segno del vecchio divano. Spero che ritardino la consegna del nuovo. Non fraintendetemi, non è nostalgia per un pezzo d’arredo. E’ piuttosto la consapevolezza che un divano sa essere cantastorie ed io ho imparato ad usarlo come un tappeto volante sulla mia esistenza.

Abitare nel tempo: l’arredatore ritrovato

C’è il sole, tutti a mare ed io invece faccio il solito stravagante. Finisco in un delizioso negozio di arredamento e lo ritrovo tutto per me. Mi tuffo su un lettone rotondo in esposizione e giocherello con l’iPad, senza accorgermi di essere in vetrina. Insomma, desto la curiosità dei passanti, che pensano sia rimasto prigioniero in una domenica pomeriggio sulla soglia della calda stagione.
Invece no, ci sono capitato di proposito per ritagliare una pagina del mio diario: quell’estate di trenta anni fa e passa in cui mamma e papà mi portarono a scegliere la cameretta. Osservando i due titolari di Abitare nel Tempo di Assago che guidavano una giovane coppia nella scelta del proprio arredo, mi è tornata alla mente quella scena e ho pensato: adesso che siamo diventati tutti “pazzamente ikeizzati”, se fossi nato in questi anni mi sarei trovato immerso nel marasma dell’Ikea a scegliere il lettino e l’armadio. Insomma, è finita l’epoca della consultazione e presi dalla voglia matta del low cost a tutti i costi ce ne sbattiamo del resto. Ormai si va per l’omologazione e in molte della case che vado mi ritrovo la solita libreria Billy.
Senza togliere nulla al design svedese, forse dovremmo tornare ad affacciarsi dai mobilieri nostrani che si sforzano di ritrovare un equilibrio tra qualità e prezzo. Abitare nel tempo mi ha restituito un ricordo, quello di un giovane arredatore partenopeo che diede alla mia cameretta un’impronta che andasse al di là del tempo in cui l’avrei vissuta, lontana dalla crudele filosofia dell’usa e getta. Sarà pure una visione eccessivamente poetica, ma preferisco restare “prigioniero” nell’esposizione di quella vetrina e spacciarmi per l’under 40 anti-Ikea che fa l’impostore e rivaluta un mestiere dimenticato: l’arredatore.

Salone Internazionale del Mobile, la mia sedia ideale

Mi è rimasta addosso la passione per “la sedia”, nonostante non sia un tipo da stare fermo. Al Salone Internazionale del Mobile di Milano mi sono messo a caccia della mia sedia ideale.  Ripensandoci bene, ho rivalutato quella che c’era nella cucina dei miei alla fine degli anni’70. Rispetto alle oscenità delle amiche di mamma, la nostra aveva un pizzico di design che non guastava. Ne combinavo una dietro l’altra ed era lì sotto che mi rifugiavo, quando non volevo farmi trovare da papà. E poi con una sedia potevo farci di tutto. Una volta la collocavo al centro del palcoscenico e mi sbizzarrivo ad inventare monologhi; adesso mi siedo col Pc sulle gambe e scrivo.  La mia sedia ideale? Resistente per salirci sopra e protestare come un matto. Contro chi? Contro chi fa lunghi viaggi per portarci dall’altra parte del mondo seggiole low cost, mortificando un realtà di casa nostra: Manzano, la città della sedia italiana. Dovremmo fare una capatina lì perchè anche “sotto il culetto” fa bene sentire il made in Italy.