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Il voltafaccia ai tempi di Facebook

Rosario PipoloIl voltafaccia su Facebook è una ricorrenza di questi tempi. Una volta accadeva in strada, oggi nei vicoli dei social network. Quello più subdolo non riguarda la persona con cui abbiamo tagliato i ponti, ma il contorno. Si tratta di coloro che si intrattenevano a parlare con noi, sull’amaca dei sorrisi compiaciuti, delle pacche sulla spalla, della battuta facile, del “vediamoci più spesso”.

Poi ecco che arriva il primo taglio. Una volta lo notavamo per strada, perché il voltafaccia avveniva con gradualità: prima facevano finta di non vederci, poi fingevano di parlare al cellullare guardando avanti e, infine, passavano alla scelta più drastica, come a dire “chi ti hai mai visto prima”. Con l’avvento dei social network, Facebook ha dettato le nuove regole del voltafaccia, che corrispondono all’ eliminazione dagli amici.
Quelli più “quaquaraquà” però ci arrivano gradualmente con delle fasi intermedie. Basta giocherellare con i tasti della privacy e oscurare la bacheca a pezzetti. La maggior parte anticipa la censura di status e foto con un’altra azione: rendere invisibile la lista degli amici. Insomma, al massimo ci sarà concesso di capire quali siano quelli rimasti in comune.

Quale miglior pretesto per dare una bella sforbiciata alla nostra lista di contatti facebookiani? A parte il gusto di far numero, è inutile avere tanti nomi appesi, di cui magari non ricordiamo neanche il viso. Del resto, come accade in ambito culinario”, il “contorno” non è un piatto indispensabile e se ne può fare a meno, a qualsiasi pietanza appartengano le verdure grigliate.
Le azioni sui social network non fanno rumore, perchè abitano nello spazio invisibile della nullità. Ha valore il rumore dei passi che sentiamo dietro la porta, prima che si riapra, restituendo ad ogni legame il proprio ruolo e significato.

Facebook, l’osservatorio “osservato” delle amicizie quaquaraquà

Facebook è la gogna per smantellare le finte amicizie, quelle che sono state allevate con l’abuso del codice del clan: la parità regge la calma apparente. Per riflesso è la bacheca del social network più insidioso a diventare il ring dello scontro. Prima era il baretto lounge del paesotto dove ci si incontrava, sorseggiando drink e ripetendo a pappardella la filosofia buonista di “Eravamo quattro amici al bar”.

Ecco la trappola bella e pronta, quella del social: il fine giustifica il mezzo. Gli status smielosi di un dì, le chattate notturne, le fotine con le facce da bell’inbusti hanno ceduto il posto a frasette acide, inciuci nottambuli e nuovi scatti, che raccontano di nuove alleanze. Non bisogna essere uno strizzacervelli smanettone o un sociologo web-oriented per capire che è Facebook a scrivere le nuove regole del gioco e non gli ambasciatori inviati su commissione, che se ne tornano off-line con la coda tra i tasti del Pc.

Basta un pò di chiacchiericcio dai toni accessi e il branco è spacciato (“gruppo ristretto” secondo il glossario social). Chi se ne va cresce, perché fuori dal gioco della “comunella infantile” diventa osservatore privilegiato della meschinità, sintomo di fragilità e inferiorità degli illusi capoclan, ammazzati dalla vergogna per l’umiliazione da bacheca. Chi rimane isolato nel branco è condannato ad essere l’osservato sconfitto che canticchia “Adesso siamo pochi amici al bar”.

E quando quest’ultimo staccherà la spina dal social network, sarà la lealtà  – l’unica allevatrice delle sane amicizie – ad infastidire l’olfatto con quel puzzo di piscio, che renderà ancora una volta l’osservato sconfitto un servo di plagi, ventriloquo di libri mai letti. E’ arrivata l’ora. I messaggeri di pace si rassegnino: il branco é davvero spacciato. Pardon, “il gruppo ristretto degli ex compagni di merendine da discount”.

 Facebook, dunque sono.

 Amicizie su Facebook…

 Così finisce l’amicizia su Facebook

 

Facebook e le Over 30: in fuga dalle “zitelle” acide

Dimmi che bacheca hai e ti dirò chi sei. Ieri valeva per le Over 20, questa volta tocca alle Over 30. Un’altra bella traversata dello stivale italiano nei territori virtuali di Facebook, ma con le dovute precauzioni. Infatti, l’universo femminile è complesso e in balia degli sbalzi anagrafici si passa dal brio delle ventenni ad un’insolita acidità della generazione successiva. E’ tipico di alcune over 30 single – anzi io direi “zite” – che spiattellano in bacheca ciò che vorrebbero essere, ma non sono. Affollano le mura facebookiane con frasette preconfezionate, mentre gli ultimi principi azzurri superstiti fanno bene a darsela a gambe. Per fortuna quelle acide sono una ristretta minoranza, perché tra single, fidanzate, mamme e mogli ci sono comunque trentenni energizzanti. Quelle che cito di seguito rappresentano l’orgoglio delle trentenni perchè sono diverse dalla massa e sono piene di entusiasmo.
Calabria on my mind tra le assidue incursioni di Antonella M. e gli sbalzi frizzantini di Marida R., con una bella collezione di foto per entrambe che intravedono la famiglia come un bel nido. Annalisa C . non è “la bachecara assidua”,ma alterna la solarità abruzzese dei suoi post all’effetto nostalgia delle immagini che rincorrono i suoi vent’anni. Giada G. trasmette la passione vulcanica del suo Vesuvio con una presenza costante, post a 360° gradi, adeguato spazio alla famiglia e agli affetti. Si presenta così: “E’ da quando sono nata che cerco di capire come sono fatta e ancora non l’ho scoperto del tutto”. Di una cosa siamo certi: l’esplorazione dei territori del social network permette a Giada di essere sempre sé stessa ovunque sia.
Sabina C. è la campionessa dei “mi piace”, zigzagando tra le bacheche altrui e lasciando il segno gradito della sua presenza, mai invadente e con il pregio di spunti e riflessioni; Brigida M., mamma premurosa, si dondola tra provocazioni in sottoveste di aforisma e le segnalazioni di articoli a sfondo sociale; Alessandra N. sa sciorinare la sua romanità segnalando eventi “off” e coltivando il seme della maternità attraverso le foto della sua bellissima bimba. Le omonime giocano a fare ping-pong su i cambi delle stagioni più interiori. Stesso nome, stesso cognome, entrambe mamme, ma non sono parenti: Barbara P.! La prima è caprese e si barcamena tra aforismi nazional-popolari; la seconda è senese e galleggia su melodie e sentimentalismi. Attenzione, perchè si imbestialisce se sulla bacheca le postate un brano di Natale Galletta, nonostante sia cresciuta nei quartieri Spagnoli a Napoli.
Oltrepassando il Po ce n’è per tutti i gusti: Maria N., pugliese emigrata con l’inclinazione da poetessa e verseggiatrice di social network; Elisa D.B., impeccabile P.R., composta fino all’ultimo post in bacheca; Roberta V. con l’occhio fotografico ramingo e la semplicità dispersa tra i paesaggi dell’Oltre Po pavese; Rossella P. che difende con le unghie la bacheca da borseggiatori di tag e video fuori posto; Immacolta M. che anche su Facebook “parla in faccia” e lascia sussulti d’amore al suo brianzolo; Tania G., facebookiana mattutina, con un occhio sempre aperto ai soprusi e alle ingiustizie da segnalare e commentare; Daniela D.B. che al momento giusto piazza a singhiozzi parole e immagini della sua Sicilia.
E la sposa futura? Vi presento Sara P., il cui biglietto da visita è “Come me nessuno mai”. Foto del profilo solare (sorridente col suo cagnolino) e pronta a coinvolgere gli amici per il matrimonio imminente con l’adorato Gio: dopo il melodramma di abito bianco e bomboniere, è l’ora della prova trucco: riusciranno i nostri eroi a trovare un truccatore perfetto per questa deliziosa milanese dal cuore pugliese?
Nonostante non si conoscano tra loro, tutte queste over 30 hanno qualcosa in comune: sono nate negli anni ’70 e cresciute con i tegolini del Mulino Bianco, i cartoni animati di Lady Oscar e Occhi di Gatto, le mamme che le torturavano con Dallas e le telenovelas sudamericane, il rock grezzo di periferia di Vasco. E perdonatemi, se sono tornato a fare “lo spione da bacheca” per cucire altre storie da raccontare.

Facebook e le Over 20: Quello che le donne (non) dicono

Dimmi che bacheca hai e ti dirò chi sei. Sappiamo bene quanto Facebook sia abitata da tanti alter-ego virtuali che non corrispondono alla realtà, ma forse ci sono rare eccezioni. E se fare lo spione da bacheca è un peccato veniale, allo stesso tempo può essere anche un modo originale per attraversare l’Italia, dalla Sicilia alla Lombardia, e guardare la quotidianità con lo sguardo delle over 20.
Marika DM. si presente con l’aforisma “Il cinismo è l’anestetico più economico che sono riuscita a procurarmi”, ma poi in bacheca sprizza la sua solarità non lontana dalle falde dell’Etna. Non è una facebookiana cronica – pochi aggiornamenti e rari cambi di foto profilo – ma questo perché a volte i suoi impegni da studentessa glielo impediscono. Patrizia C. sa raccontare con scatti fotografici e tanti link la sua terra, la Puglia, a cui non rinuncerebbe mai per niente al mondo, nonostante in lei ci sia l’istinto da fotografa giramondo. Alessandra G. è la facebookiana col megafono e assomiglia un po’ ad una di quelle manifestanti, tipo Barbara Streisand nel film “Come Eravamo” di Sidney Pollack, che nei tempi dei social network protesta attraverso una selezione di notizie interessanti, che rischieremmo di perderci. Alla falde del Vesuvio c’è Luisa A.,facebookiana sporadica, quella che nasconde bene in bacheca i suoi stati d’animo. Spesso cambia la foto del profilo e trasmette dal suo l’album la sua solarità. Sbirciando il suo album fotografico, traspare il bisogno di stare assieme alle persone a cui è legata davvero. “L’amore non vive di parole né può essere spiegato a parole.” è il biglietto da visita di Luisa, che spesso condivide in bacheca i video musicali del suo Biagio (Antonacci), di cui è una fan sfegatata.
Giusy L. sa come movimentare la bacheca e la sua spigliatezza da blogger raggomitola molte frasi in argute riflessioni; Katia M., a detta sua “la gioia fatta persona”, condivide il profilo tra il marito, la dolcissima figlia e le persone care, la ciliegina sulla torta della vita di questa varesina emigrata in “terronia”; Amanda S., “scrive, guarda e ascolta” e si lascia andare ad innocenti evasioni che fanno della musica il suo pane quotidiano. Perchè non far evaporare i suoi sogni brianzoli verso gli spazi indefiniti metropolitani?
A pochi passi dal Po c’è Laura C., che sul terreno scivoloso dei social network grida ad alta voce: “Nella vita ci si innamora due volte: la prima pensando che sia l’ultima e la seconda sapendo che è la prima”. La sua bacheca assomiglia ad un diario work in progress sopra le righe e le foto del profilo non sono mai casuali, perché connotano gli interni dell’anima e i passaggi, dall’infanzia alla gioventù. Infine, le immagini prendono con prepotenza il sopravvento sulle parole sulla bacheca di Alice D.F., iphonista doc, in cui il mondo di questa milanese atipica viene circoscritto da scatti deformanti. Le foto sembrano un singhiozzante flusso di coscienza joyciano e lasciano i segni di un mondo interiore in continua evoluzione, come se Alice fosse uscita da un cartone animato – sottolinea attraverso la voce della scrittrice Ann Marie MacDonald “Sono perdutamente innamorata della mia vita” – o dall’omonima canzone di De Gregori.
Cosa hanno in comune tutte loro? Essere nate sotto lo stesso cielo, quello degli anni ’80 e adesso con la solarità dei loro vent’anni sono lì che lottano per realizzare piccoli sogni e dare concretezza al loro mondo interiore. Forse non si incroceranno mai, ma esistono nella realtà. Questa volta sono entrate a far parte di un piccolo racconto, cucito inconsapevolmente sul filo di quello che le donne (non) dicono!

Le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte

Le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte. Non tocca più solo ai personaggi famosi – criticano noi giornalisti e blogger perché tiriamo fuori dal cassetto “il coccodrillo” su misura – e alle vittime dei fatti di cronaca, ma a chiunque se ne vada all’altro mondo. Mi sembra di essere tornato nei piccoli paesi. Tutti mormoravano nella lettura del manifesto del defunto per capire chi fosse, a chi appartenesse (guai se il tipografo ometteva il soprannome per cui era conosciuta la famiglia), e se poi era un giovane strappato alla vita cominciava la litania collettiva. Eppure non si capiva bene se questa ostinata partecipazione comunitaria al dolore fosse la sindrome paesana dell’appartenere tutti alla stessa razza o si riducesse a una curiosità folcloristica che ci mette poco a diventare cialtroneria inviperita.
Torno a ripeterlo: le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte. Appresa la triste notizia, la morte diventa “social”: trovi un messaggio che ti invita ad andare su una tale bacheca per guardare la foto taggata, accertarti chi fosse il malcapitato e lasciare il tuo messagino di cordoglio o uno degli aforismi mielosi e preconfezionati che circolano nei social network. A questo punto mi permetto di suggerire alle pompe funebri la vendita di un nuovo servizio: una fan page-lapide o la gestione post-mortem del profilo della persona scomparsa secondo i canoni dell’animazione del villaggio turistico “facebookiano”, anzi pacchiano (fa pure rima!).
Il dolore è troppo serio per finire spiaccicato nella piazza rumorosa della rete; il dolore è privato e tale deve restare, e non può essere vissuto come un passaparola, ma con le persone a cui ci sentiamo davvero vicini. E i legami non si costruiscono sul quantitativo di pseudo-amici che abbiamo in rete, ma nella realtà che ci porta a condividere le emozioni e ci mormora l’amaro “fujetevenne” eduardiano da queste visioni grezze e meschine, a cui mi ribello da quando scalpitavo nel pancione di mia mamma.

J’accuse: L’orrore delle calunnie su Facebook

Mentre al cinema passa il film Social Network di Fincher sulla storia dei fondatori di Facebook, l’oasi del cazzeggio sociale più famosa del pianeta esplode con inciuci e cattiverie. Diceva Jong che “il pettegolezzo è l’oppio dell’oppresso”, ma io aggiungerei anche “del depresso”. Quale miglior zona franca, se non quella di Facebook, per trasferire l’istinto ciarlatano che si nasconde in noi?
Ogni volta che torno nel mio Sud, girovagando nei paesotti di provincia, non trovo più quelle situazioni colorite di una volta: il marito che improvvisa una scenata di gelosia alla moglie; il litigio furioso delle due vicine di casa o la disfatta chiassosa della coppia. Ormai è tutto finito su una bacheca virtuale ed il nostro destino è segnato da fatti e misfatti che si postano lì sopra. Quando capiamo che la gonnella di mammà non ci basta più per ferire il nostro avversario, diventiamo scorretti a suon di offese pubbliche. Ormai il megafono della rete è  lo status di Facebook: basta confezionare in meno di 150 caratteri una calunnia e il un “pacco bomba” è ben servito, non tanto per l’avversario, ma per tutti gli amici faisbukkiani, che dovranno decidere presto da che parte stare. E così le bacheche, che fino al giorno prima erano zolle morbide di video e pensieri deliziosi, si trasformano in fretta e furia in un territorio minato, con accesso privilegiato a tutti coloro che voglio partecipare alla guerriglia virtuale. La persona offesa esce allo scoperto, si difende con ironia e non fa sconti a nessuno.
Nel modo dei videogiochi e dei social network l’orrore delle calunnie sfiora il ridicolo, perché è nella vita reale che la meschinità viene davvero a galla. Al di là o al di qua dell’ “accusa infamante”, la priorità assoluta resta la salvaguardia della faccia col quesito “Che cosa penseranno gli altri di me?”. Il tempo attutisce la melma degli schizzi di fango, che con o senza Facebook, finirà per inzozzare “il sepolcro imbiancato”, l’artefice che ha messo in moto la macchina del pettegolezzo. Alla fine, a dura prova sarà messa la vittima offesa, che nei giorni infuocati della rivolta virtuale, non si è accorta che sotto il fango era sbocciato un fiore. E tutte le volte che uscirà da casa a testa alta, dimenticando che “lo sguardo basso è la virtù dei forti”, non noterà quel fiore cresciuto alle intemperie e lo calpesterà con furore. Sarà la rabbia di chi non ha intuito che per “fare un fiore ci vuole un fiore” come cantava Sergio Endrigo, ma bisogna anche innaffiarlo col silenzio per proteggerlo. “Non calpestare i fiori nel deserto” resta un sacramento sacrosanto. E questo vale pure per chi come la “Sally” di Vasco Rossi si porta ancora tanti graffi dentro.

Facebook e la sindrome ossessiva del “Mi Piace”

Ognuno ha le sue ossessioni e Internet ci vizia con quelle mode che possono diventare manie. E’ la volta del “Mi piace” facebookiano. I guru dicono che ha cambiato il nostro modo di comunicare, il termometro del business esulta perché misura i nostri gusti, e noi ci sentiamo inorgogliti quando li vediamo moltiplicarsi sulle nostre pagine di Facebook. Nei giorni della Seconda Repubblica di Internet, quella della democrazia dei social network, abbiamo ridotto e mortificato l’indipendenza e la libertà del nostro pensiero in nome dell”iconografia di “un pollice  all’insù”. Insomma il nostro punto di vista è stato stritolato nella riduttiva sintesi della nostra sacrosanta opinione.
I malati della “sindrome del Mi piace” si stanno infiammando nel falò della vanità. Una volta ce ne andavamo in giro a raccogliere pensieri per capire di che pasta fosse fatta la gente. Oggi spalanchiamo la finestra del pc e pensiamo di aver capito tutto dell’altro attraverso la collezione dei “mi piace”, impigrendoci pure a buttar giù un commento decente. Come se poi chi facesse il famigerato clic con la manina su un nostro pensiero, lo avesse realmente letto o compreso! Per la maggior parte è un modo per farsi notare, per manifestare simpatia. Chiediamo pure agli strizzacervelli del web se abusare del “Mi piace” sia una scorciatoia per amplificare un confine, quello tra il personaggio virtuale, convinto di aver seppellito le proprie frustrazioni, e quello reale, colpevole di aver consegnato le insoddisfazioni quotidiane all’agorà finta di Internet.
Durante una recita scolastica del ’78, mi chiesero perché avessi scelto come partner la mia compagna di banco. Io, alzandomi sulla sedia, declamai: “Mi piace perché ha gli occhi a mandarla, il nasino all’insù e divide merenda con me”. Mi avevano insegnato a motivare la mia opinione.Voglio tornare ad esprimere il mio assenso o dissenso perchè penso, senza quel maledetto dito all’insù. E’ ora che il “Cogito, Ergo sum” cartesiano non prenda più sviste, scivolando sul chiacchiericcio della rete.

Senza candeline tra le luci e le ombre della Laguna

Spegnere le candeline d’estate aveva un suo perché: dimenticare il tuo compleanno perché eri preso dalla magia vacanziera fatta di secchielli, palette e castelli di sabbia. Oggi non è così. Basta aprire la tua pagina di Facebook e una sfilza di messaggi sulla tua bacheca te lo ricordano. Quel senso di nomadismo che mi porto dietro era già segnato dagli astri. Per me non c’era la solita festicciola a casa, ma ogni anno i festeggiamenti si spostavano da un luogo ad un altro, con persone diverse. E’ lo svantaggio di chi è nato nei mesi estivi. Eppure prima di soffiare ed esprimere il desiderio di rito, avevo sempre la smania di salire sulle spalle di mio padre. Lui pensava fosse il solito capriccio, ma io mi sentivo in groppa a quel gigante che poteva aiutarmi ad acciuffare la linea di confine che divideva l’orizzonte dal mare.
La laguna di Venezia mi ha riportato a quella scena, forse perché quando condividi una serata di luglio con un anziano signore è più o meno facile tornare a sentirti bambino. Non era stata questa o quella canzone di Charles Aznavour che si era dileguata su piazza Sam Marco, piuttosto il mio desiderio irrequieto di farmi raccontare da lui i particolari di quella lunga tournèe con Edith Piaf. Un desiderio che è finito tra le luci e le ombre della laguna, in piena notte, nel silenzio più totale.
Questo netto contrasto tra il buio notturno e la luce del giorno che stentava ad arrivare mi ha riportato a quella scivolata – che mi sforzo di ricordare invano – che avevo fatto dal pancione di mia madre verso la vita. In quel momento mi sono ricordato che era il mio compleanno, sebbene attorno a me non ci fosse una torta con le candeline, ma solo il ronzio di quelle canzoni che non mi hanno fatto dubitare della generosità della vita. 

 

Federico e la Cicogna, in viaggio verso la vita

La cicogna uscì di buon mattino quella domenica di giugno. Venne giù dalle Dolomiti e il tempo era poco propizio. Il suo viaggio iniziò tra fulmini, temporali e acquazzoni. Appena il bambino le starnutì in faccia, lei sorrise: “Non preoccuparti Federico, entro le nove di domani mattina sarai tra le braccia di tua mamma”. Fino alla Toscana tutto filò liscio, ma il primo contrattempo spuntò ad Orvieto dove fu fermata dai carabinieri per aver bevuto un bicchierino di troppo. E la mamma da Napoli replicò: “Azz !!! Alza pure il gomito ‘sta cicogna! Speriamo che non arrivi tutta ‘mbriaca”. Alle porte del Lazio, la cicogna e il bimbo dovettero fare un atterraggio di emergenza perché pioveva a dirotto. E la mamma tirò un sospiro di sollievo: “Meno male, va’! Così mi dà il tempo di organizzare le ultime cosette”.
Dopo aver ripreso la sua missione, nei paraggi del raccordo anulare di Roma, la cicogna fu multata per eccessi di velocità. E il papà di Federico urlò, facendosi sentire da tutto il palazzo: “Non mi mandate le multe, che io non le pago!”. Arrivata in Campania, cambiò direzione improvvisamente, dirigendosi verso Mondragone. Si fece afferrare per pazza: “Prima della consegna, una mozzarella di bufala non me la toglie nessuno”. Pochi istanti dopo, si fece consigliare dalla ragione, facendo un’inversione verso Sessa Aurunca: “E se mi viene il cagotto dopo tutta ‘sta burrata che ho mangiato stamattina prima di partire? – disse tra sé e sé – Rinuncio alla mozzarella”.
Dopo una luna sosta al passaggio a livello di Villa Literno – era incazzata nera perché il treno locale Roma-Napoli l’aveva superata – sorvolò il litorale domitio e svolazzò beata tra Cuma e Pozzuoli. Anzi, per fargliela pagare a quel maledetto autista indisciplinato, lasciò che il bimbo gli facesse addosso una piccola “cacatella”.
Giunta sul Vesuvio, dopo esserci incantata planando sul Golfo di Napoli, trascorse  lì l’ultima notte assieme a Federico. Poi gli sussurrò: “Ricorda che non sarà il posto dove nascerai a fare la tua persona. Al di là dell’amore delle persone vere che ti saranno accanto, sarai sommerso da tante ipocrisie. Ti sbaciucchieranno in tanti che si credono poeti e invece sono dei miserabili; o quelli che si fanno chiamare Maestro e invece sono dei sepolcri imbiancati; quelli che avranno la presunzione di dirti cosa devi fare. Tu ascolta solo la voce del tuo cuore, della tua coscienza. Viaggia e conosci. E spero che questo viaggio condiviso ti resti addosso, anche quando ti affaccerai alla vita. Caro Federico, questo è il mio ultimo viaggio, vado in pensione. Sono invecchiata anche’io. Non ti dimenticherò mai. E spero che quando un giorno diventerai papà e la tua amata aspetterà la cicogna, ti ricorderai della tua Rosilde. Sì, io mi chiamo Rosilde ed ho portato a destinazione centinaia di bimbi”.
Dicendo queste bellissime parole, la cicogna fece il passaggio di consegna, affidando il bimbo a Martin, il suo angelo custode. Poi, alzand0 lo sguardo al cielo, disse: “Signore, il mio ultimo viaggio è stato compiuto. Dona alla mamma di questo bimbo la forza per allevarlo, consegna nella mani del papà la costanza di sostenerlo in qualsiasi momento. E a me,cicogna da una vita, fammi ritrovare sulla via del ritorno tutti quei bimbi che in questi 32 anni ho consegnato”. La cicogna ripartì e il buon Dio ordinò all’angelo custode: “Vai Martin, è giunta l’ora. Spingilo verso la vita e fallo diventare un bambino vero. E’ lui Federico!”. Martin Rispose: “Signore, l’anestesista è in ritardo. Cosa faccio?”. E il Signore irritato replicò: “A Napoli mi fanno sempre diventare furibondo. Negli ospedali è sempre la stessa storia”. Federico è nato il 21 giugno poco dopo le 10 e sul viso aveva il sorriso dell’estate. Mentre la cicogna Rosilde era in fila all’Inps per verificare i suoi contributi, il buon Dio la fermò: “Non puoi andare in pensione, cara Rosilde. Ho scoperto che sei la stessa cicogna che il 12 aprile di tanti anni fa consegnò Ada, la mamma di Federico, ai suoi genitori. C’è un incantesimo in atto che passa di generazione in generazione. E deve continuare”*.

(*) La fiaba è stata scritta da R. Pipolo in maniera estemporanea e pubblicata a puntate sulla bacheca di Facebook della mamma di Federico Luigi dalle 19.43 del 18 giugno alle 10.15 del 21 giugno 2010.

Corteggiare una ragazza ai tempi di Facebook

Non so se esista ancora il privilegio di “fare la corte ad una ragazza”. Lo ammetto: io non sono mai stato tra quelli che andava subito al sodo, perchè si croggiolava sui preliminari. Correvo il rischio che lei si stufasse e mi mandasse al diavolo! Fare il filo ad un ragazza un ventina di anni fa, in un paesotto di provincia del Sud Italia, significava gironzolare qua e là per capire cosa facesse durante il giorno: a che ora uscisse per andare a fare i compiti dall’amica, se frequentasse la piazza dove ritrovavi la combriccola il sabato sera, o se fosse il caso di offrirle un passaggio in motorino all’uscita da scuola.  Adesso c’è Facebook e anche noi trentenni siamo finiti stritolati nel social network. Il dilemma è un altro.  A che ora è in chat? E se ha il profilo invisibile? Questa si chiama “sfiga” da queste parti e “mala sciorta” al mio paese! Escluso l’utilizzo della bacheca – perchè gli altri dovrebbero sapere che lei ti piace un casino! – si cade nella tentazione di scriverle messaggi in posta. Scatta l’allarme: il testo dovrebbe essere massimo 300 caratteri spazi inclusi, mentre il tuo è una prosopopea. L’ultima spiaggia facebookiana è il poke (la paccata virtuale) o un appello disperato alla folla degli amici per un consiglio al volo: mollo o vado avanti?  E poi rispunta la solita massima wildiana, “Le donne vanno amate e non capite”, che in un certo senso si sposa con i saggi consigli di mia nonna Lucia: “Nun cagnà mai a via vecchia pa nov”.  Si ritorna alle vecchie maniere, sotto casa sua all’alba, con la speranza che esca in anticipo per portarla a fare colazione in un baretto lì vicino e canticchiarle la sua canzone preferita (l’ha pubblicata in bacheca con un video da YouTube). Male che vada hai fatto solo la figura del pesce lesso, vedendola uscire con un altro, il rivale facebookiano che la martellava in chat senza farsi troppe menate  (ecco perchè non rispondeva ai tuoi messaggi!). Ahimè, il più delle volte vince “l’abbordaggio sfacciato” e ti ritrovi come il povero Charlie Brown, che nelle strisce poetiche dei Peanuts tenta ancora di conquistare la ragazzina dai capelli rossi.