Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

#Sanremo2013: Il vittimismo dei vecchi BIG e la nociva “sanremosità”

La polemica della Oxa su Twitter

Rosario PipoloIn giro dicono che Twitter sia diventata la nuova guida tv. Commentare via social la televisione confusa dei giorni digitali vale forse più degli stessi programmi che la affollano. E a questo non si sottrae neanche il Festival di Sanremo, asservito dall’era baudiana ai canoni dello zapping, che oggi riscuote interesse nella landa dei cinguettii attraverso l’hashtag frequentatissimo #sanremo2013.

Vogliamo parlare di ciò che accadrà all’Ariston in alternativa al miserabile teatrino politico da campagna elettorale? Facciamolo pure, ma tenendo presente che Sanremo è musica. Fabio Fazio ce lo ricorda, facendo un passo in avanti proprio verso la generazione musicale “social” con una scelta di BIG che non hanno niente a che vedere con il solito dejà vu. Qualche anno fa volevano farci credere che il Festival lacrimogeno del Belpaese dovesse spingere l’acceleratore sul talent show per guardare al futuro. I talent non hanno avuto sempre fiuto, imponendo delle stellette divenute dalla notte al giorno delle meteorine.

Dicevamo che Sanremo è il festival della musica, anzi no delle canzoni. Al tempo dei nostri nonni era così: quando a cantare c’erano nomi che non vi dicono niente, da Nilla Pizzi a Gino Latilla, più canzoni in gara passavano per il timbro della stessa voce. Con l’avanzare dell’età, il festivalone ha imposto l’egocentrismo dell’interprete sul brano e l’imperialismo televisivo, a partire dai primi anni ottanta, ci ha messo il resto, creando una scuderia di cantanti sanremesi. Come se poi certi nomi vivessero discograficamente dentro il contenitore dell’Ariston. E se Anna Oxa facesse parte di questa scuderia, la sua polemica di vittimismo da grande esclusa sarebbe fuori luogo. La sua “sanremosità” – pardon per questo orribile neologismo – non la mette su nessuna corsia preferenziale. L’indimenticabile “Un’emozione da poco” e la trasgressiva performance della Oxa, alla fine degli anni di Piombo, nel piccolo televisore in bianco e nero della cucina di casa sembra ormai una polaroid in stile retrò.

Questo è un altro tempo. Il tempo in cui queste benedette o maledette canzoni tornino a resistere ed esistere fuori dall’Ariston. Per far tornare a vivere i nostri sogni di gente comune, un brano deve meritarsi una vita più lunga di un’abbuffata canzonettara in stile Belpaese, bloccata dal colpo della strega nostalgica che ci fa apparire il canzoniere di oggi inferiore a quello di ieri.

Heineken Jammin’ Festival, quando la musica accorcia le distanze tra le utopie

Diversi anni fa avevo scritto che l’Heineken Jammin’ Festival non stava bene a Venezia, doveva traslocare altrove, magari nella cornice paesaggistica dell’Oltrepo pavese. Nella peggiore estate musicale che Milano abbia mai avuto – ci resterà soltanto l’instagram del mega concerto di Springsteen a San Siro – è stato davvero un atto generoso portare questo raduno in quella che Mecca musicale non è più da un pezzo.

Pardon, parlo di “raduno” perchè ormai tutti fanno abuso della parola Festival, pensando che ammucchiare qualche big su un cartellone metta in piedi un happening. Al di là della Manica e dell’Oceano Pacifico ci hanno sempre dato tante lezioni in materia (smettiamola di rifugiarci solo nella tana woodstockiana),  ma noi abbiamo fatto orecchie da mercante: il Festival non è l’esibizione live, ma è anche quello che accade prima, durante, dopo. E’ l’esplosione della socialità, della condivisione, dell’incontro in un fazzoletto di terra che fa ritrovare persone così diverse da convincersi che la musica sa fare ancora miracoli.

Quando ho visto con i miei occhi che l’Heineken Jammin’ Festival ha trasformato la giungla d’asfalto della Fiera di Rho, relitto futurista del traballante Expo che chissà mai se arriverà, in un prato fiorito, mi sono detto: quanto fanno davvero le istituzioni per tutelare eventi come questo? E i fiori che ho visto io non erano rose, margherite o violette, ma gli steli e i petali di più generazioni che denudavano su un tappeto quelle concessioni emotive a cui tutti abbiamo diritto.

Le tre ore dal vivo dei Cure resteranno nella storia perchè sono accadute in quel contesto, perché il bagno di folla – e se n’è accorto anche Robert Smith – non era lì per mettersi a caccia del riverbero remoto del post-punk, ma per spodestare dai troni chiunque si ostini a non credere che la musica unisca e accorci le distanze tra le utopie. Del resto più di trent’anni fa in pochi notarono che il punk rabbioso di Smith e compagni schiaffeggiò per primo il Thatcherismo, una tra le età peggiori della politica anglosassone. Questo per dire che ad un festival si può spingere l’acceleratore al di là della cortina emotiva del brano che ci smuove dentro.

Qualche inverno fa bussò il postino alla porta di casa mia e mi consegnò un pacco. Era un regalo di una cara amica, allevata dal mio stesso Sud.  Conteneva una bottiglia gonfiabile di una birra, l’Heineken per l’appunto, il cui sapore mi solleticava stravaganze di gioventù nella mia Napoli. Quel gesto non l’ho mai dimenticato, perché è vero che il gusto di una birra intinge le dita nella memoria proustiana – e in questo il buongustaio Alfredo Pratolongo potrebbe concordare con me – ma è anche vero che bisogna riconoscere il merito a chi tutti i giorni si sforza di trasformare un brand in un luogo di socialità sotto il mantello della musica.