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Margherita Buy e l’attesa di “Lo spazio bianco”

la locandina di "Lo spazio bianco"

Rosario PipoloAl cinema a Margherita Buy le appiccicano sempre il solito clichè: quello della “sfigata”. E questa tendenza me la ricordo fin dai tempi della sua partecipazione al film Fuori dal mondo di Giuseppe Piccioni. Stessa cosa accade nella nuova pellicola di Francesca Comencini Lo spazio bianco, tratta dall’omonimo romanzo di Valeria Parrella. Tuttavia, qui è passabile perchè la Buy è davvero convincente nel ruolo di questa mamma che deve attendere mesi per sapere se la sua bimba, nata prematuramente, riuscirà a sopravvivere. Non vi aspettate il solito cinema al femminile con quei luoghi comuni melodrammatici. Il taglio della Comencini è quasi “documentaristico”, asciutto e asettico, sospeso nel vuoto. Persino Napoli, città-sfondo della storia, è irriconoscibile senza stereotipici e la colonna sonora dalle intrusioni jazz è azzeccata. Lo spazio bianco mi ha riportato a riflettere su un anello ricorrente della nostra vita: l’attesa. Ogn giorno ci viene chiesto di attendere e “sapere aspettare” è davvero un dono. E non venite a dirlo a me che sono impaziente per natura!

Al cinema con Baarìa per tornare in Sicilia

Una scena dal film "Bariia"

Rosario PipoloIl cinema può solleticarti l’idea di fare un viaggio; un viaggio fatto alcuni anni prima può spingerti ad andare al cinema per ritrovare quei luoghi. Baarìa è l’omaggio di Giuseppe Tornatore alla sua Sicilia in un canto visivo e corale dove quasi tutto il ‘900 si consuma ai margini di vita vissuta.  Sì è vero: ci sono i paesaggi ampi di Sergio Leone; ci sono i connotati storico-politici di Bernardo Bertolucci e del suo Novecento; ci sono eccessi di uno sfilacciante sentimentalismo tipico di Nuovo Cinema Paradiso; ci sono i picchi musicali ruffiani di Morricone e altre combinazioni che potrebbero renderlo già da “Oscar” agli occhi degli Americani. Tuttavia, nel nuovo film di Tornatore c’è una gestione calibrata del tempo e dello spazio che allontana in parte una comunità dai soliti stereotipi e da quella stemperata iconografia. Baarìa ha riscattato alcuni ricordi dei miei viaggi in Sicilia, e sicuramenti non quelli turistici e da cartolina legati a Taormina, Cefalù, la Valle dei Templi o Siracusa. Ha riscattato il mio viaggio di un pomeriggio d’agosto nell’entroterra arido e deserto tra la visita riflessiva in un piccolo cimitero di San Giuseppe Jato, la rilettura di una lapide a Portella della Ginestra e il retrogusto acidulo della ricotta a Piana degli Albanesi. E’ quella la Sicilia che voglio ricordare. Non penso che “percorrendo avanti e indietro per anni poche centinaia di metri, puoi imparare ciò che il mondo intero non saprà mai insegnarti”. Prima o poi bisogna andarsene, percorrere distanze chilometriche e prendere coscienza di quello che credevi fosse “l’ombelico del mondo”. Giuseppe Tornatore avrebbe fatto meglio a risparmiarci “le tette” della Bellucci per un cammeo di tre siciliani dimenticati: Lando Buzzanca, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.  

Al cinema con “Il grande sogno”

"Il grande sogno" di Michele Placido

Rosario PipoloMichele Placido si è messo a dura prova girando un film che fotografa il ’68. Nel 1995 la grande sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico mi svelò il limite dei nuovi registi: guardare con insistenza all’Italia delle due Guerre e del Boom economico, quasi fosse un privilegio dei Monicelli o dei Visconti quel vissuto cinematografico. Per fortuna in Il grande sogno Placido esce fuori da quel perimetro storico, ma inciampa in una visione troppo emotiva del ’68 in Italia. Il suo film scimmiotta troppo Mio fratello è figlio unico di Lucchetti (bocciato ingiustamente alle candidature degli Oscar!), persino nello scontro tra i due protagonisti maschili (Scamarcio-Argentero). E’ interessante, nel raggio dell’emotività, la polaroid dedicata a chi sognava di fare l’attore allora, tra le mura di un’Accademia teatrale soffocata dalla sua rigidità. L’unica ninfa reale del film è la brava Jasmine Trinca: mi piace il suo personaggio con quella femminilità decisa e sicura, pronta a lasciarsi alle spalle le certezze del nido familiare per condividere con gli altri un nuovo sogno culturale, sociale e politico (“Mi manterrò facendo lezioni private(…)”. Mi è dispiaciuto della polemica tra Michele Placido e il ministro Brunetta perché l’ex commissario di La Piovra è un attore e regista che si rimbocca le maniche e mette l’anima in quello che fa, anche quando non raggiunge i risultati sperati!

Amare è un’arte, da “Wall-E” a “Mamma mia!”

Amare è un’arte, al cinema come nella realtà. Lo sa il buffo robot Wall-E, l’ultimo eroe del nuovo film Pixar (più per adulti che per bambini!) impegnato a ripulire la terra dalla spazzatura. Wall-E è il prototipo del principe azzurro di un futuro lontano, fatto di pezzi meccanici, ma con un’anima capace di far germogliare sentimenti dalla robottina Eve. Amare è un’arte sullo sfondo di una Torino scontornata da una nebbia che ci confonde, come quella dei racconti di Hesse. E’ il dolore di lasciare o essere lasciati a mettere in moto L’uomo che ama di Maria Sole Tognazzi, che scimmiotta troppo il “Saturno Contro” di Ozpetek, nonostante la bravura di PierFrancesco Favino. Amare è un’arte anche se volete avere un relazione a tre, fuori e nello stesso letto. Consultatevi con Woody Allen, sceneggiatore e regista di uno dei peggiori film della sua carriera: Vicky Cristina Barcelona con una Penelope Cruz da souvenir in un bacio saffico o in una scena cult da “vaiassa da cortile”. Amare è un arte nelle fantastica pellicola tratta dal musical Mamma mia! di Phillyda Lloyd con le musiche degli Abba. Qui l’amore si propaga in diverse direzioni e la lezione ce la danno alla fine i due personaggi Donna (Meryl Streep è da Oscar!) e uno dei padri della sposa (Pierce Brosnan). Un rapporto si può recuperare anche nella mezza età. Amare è un’arte al cinema come nella realtà. Al cinema è più semplice, nella realtà è più complicato. Chissà come ci si deve sentire a cinquantanni a ritrovare un amore perso ed avere il coraggio di farlo rientrare nella propria vita dal portone principale. Amare è un’arte comunque vada, nella spavalderia del grande schermo così come nella vigliaccheria della quotidianità.

Paul Newman, addio agli occhi blu dell’America sincera

I suoi occhi blu hanno avuto il colore di un’America pulita e sincera, il suo sex appeal ha frantumato i cuori femminili di mezzo mondo, la sua presenza attoriale ha bucato il grande schermo consegnando al cinema ruoli memorabili. Paul Newman, scomparso all’età di 83 anni, resta uno dei miti tra realtà e immaginario collettivo, che soltanto il XX secolo ha saputo procreare. Dell’attore dell’Ohio non ci piace ricordare questo o quel personaggio, ma colui che è stato dentro e fuori dal set: semplicemente Paul Newman. La sua prima arrampicata cinematografica è legata agli anni cinquanta, un decennio idilliaco per gli USA. Ed è proprio quella serenità che i suoi occhi hanno trasmesso fino a ieri, lo stato interiore di un americano che voleva vivere una vita tranquilla, senza troppi grattacapi, distaccandosi dagli errori e i traumi dell’America dei decenni successivi. Mia madre è stata una sua grande ammiratrice e me lo ha presentato in un pomeriggio di trenta anni fa: “Vieni qui, che ti presento Paul Newman… quel signore lì”. Alla tv davano “Lassù qualcuno mi ama”: dietro la macchina c’era il grande Robert Wise e Paul con i suoi guantoni dava vita all’incredibile storia di Rocky Graziano. Crescendo, ho imparato ad apprezzarlo in “La gatta sul tetto che scotta”, “Lo spaccone”, “Furia Selvaggia” e “Butch Cassidy”. Da adolescente, l’ho detestato perché “per colpa sua” mi andava sempre male con le ragazze. “Mi spiace, ma non hai gli occhi blu come Paul Newman”, mi dicevano. Ed io quatto quatto me ne andavo con la coda tra le gambe, maledicendo i miei occhi castani! Ahimè, le ragazze a cui facevo il filo non avevano capito che non si trattava solo del colore degli occhi, ma di una verità misteriosa oltre il suo sguardo. Una verità che adesso l’America non rivedrà mai più.

Denti, la vendetta della “figa” al cinema

Pubblico e critica divisi a metà, nonostante il premio al Sundance Festival. Denti di Mitchel Lichtenstein (figlio del profeta della pop art) non è il banale teen movie che tutti pensano. E’ una sfuriata grottesca in stile horror per focalizzare il rapporto complicato tra adolescenti e sesso, sulla scia di un surrealismo che fa un baffo a Dalì, di uno splatter che stuzzica i primi film dei Cohen, di un vangelo di citazioni da far impallidire Tarantino (Evviva “Psycho” e “L’invasione degli ultracorpi”). A casa mia il sesso era un tabù: io e il mio compagno di banco delle medie ci siamo chiesti se le ragazze rosse avessero una peluria rossiccia! In una mattina di giugno ne abbiamo spiata qualcuna da sotto il banco e ci siamo dati una risposta. E se la “rossa” dei nostri sogni proibiti avesse avuto una vagina dentata? Al diavolo i falsi moralismi e le repressioni da scuola clericale: ci sarà pure una volta che sesso e sentimento si incontrano in un maledetto giorno speciale! E se questo non accade, ben venga la protesta della “figa”, sbandierando femminismo a più non posso. Ben venga la vendetta di Dawn (Jess Weixler è la biondina con cui tutti avremmo voluto passare una notte proibita da liceali) contro il dilagante arrapamento degli uomini di qualsiasi età e quell’assassino maschilismo che ancora mercifica il corpo della donna, annichilendo l’universo femminile. “Luisa, non è che stasera mi fai brutti scherzi? Magari ce l’hai cariata…”. Non è una citazione del film, ma la battuta cult del mio vicino di posto alla sua amorosa!

La banda di Eran Kolirin

La banda musicale mi riporta nei piccoli paesi di provincia, specialmente quelli del Sud Italia. Un tempo far parte della banda cittadina era prestigioso e un onore da difendere con gli artigli. Il bel film di Eran Kolirin mi ha fatto ritrovare quelle atmosfere. La banda, produzione franco-israelita, è un film che merita di essere visto, sorseggiato col contagocce inquadratura dopo inquadratura: una banda delle polizia egiziana è invitata in Israele per suonare, ma sbagliano destinazione e si ritrovano in un paese sperduto e desolato. Sono ospitati da una coppia del posto e così una giornata iniziata male diventa un pretesto per riportare sullo schermo un succo di poesia. Popolazioni separate da un confine possono superare una montagna di diversità e sentirsi uniti al di là della politica, religione, cultura e lingua.