Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Napoli e le spose di Oreste Pipolo, fotografo-antropologo della bellezza imperfetta

Rosario PipoloDa quando sono nato, a Napoli mi fanno puntualmente la stessa domanda: “Sei parente di Oreste il fotografo?”. Ai tempi del liceo mi spinsi fino al suo studio fotografico in via Carbonara, per conoscere il fantomatico Oreste Pipolo con cui spartivo il cognome senza un legame di parentela.
Non fu quella l’occasione. Sarebbe arrivata anni dopo, prima del mio trasferimento a Milano, mangiando una pizza da Michele. Era seduto a fianco a me. Dopo le presentazioni, Oreste Pipolo tiro giù gli occhialini e mi disse scherzosamente: “Ora ti riconosco. Tu se il giornalista che mi ha fregato il dominio Pipolo.it”.

Più che “fotografo di matrimoni” – come recita il bel documentario che Matteo Garrone gli tributò  – Oreste Pipolo è stato l’antropologo delle spose napoletane. Le osservava con occhio critico e le denudava da tutti i vezzi pacchiani, di cui molti dei suoi colleghi ne fanno un vanto, prima e dopo il servizio fotografico da matrimonio, per immortalare così le principessine cafone di mammà e papà.

Tutte le spose, raccontate dall’obiettivo stilografico di Pipolo, diventavano la polvere di stelle con cui era stata creata Napoli dal Padreterno: non erano colte nella finta bellezza, che popola la maggior parte delle sposine “photoshoppate” ammucchiate sugli album dell’era digitale, ma in un misto di imperfezioni, lapilli poetici della bruttezza insidiata in ciascuno di noi. Perciò il matrimonio raccontato da Pipolo si staglia netto da ispirazione per il cinema.

Alla fine degli anni ’90 avevo conosciuto un gruppo di matrimonisti pugliesi che, dopo aver fatto un seminario con l’artista napoletano, mi dissero: “Osare come Oreste nella scelta degli scenari, significa non lavorare dalle nostre parti. Qui da noi le spose vogliono il ritratto accanto al mobiletto della mamma. E’ una malattia cronica del Sud”.

Il destino delle spose di Oreste Pipolo, per fortuna nostra, fu lo scatto su i binari dismessi della stazione di Gianturco o sotto un’arrampicata dei Quartieri Spagnoli, per essere misteriosamente velo della Napoli che nasconde la bellezza principesca sotto i cenci di una gatta cenerentola.

Evocando la sposa felliniana nel film Amarcord, avrei voluto un’ultimo scatto nel portfolio di Oreste Pipolo: una sposa scalza sulla spiaggia abbandonata di Coroglio, tra il lido Pola sbarrato dove si conobbero i miei genitori e il tanfo di catrame dell’ex Ilva di Bagnoli che arrivava fino alla finestra dei miei nonni. Nella tessitura visiva immaginata, accanto alla donna col velo, lo sposo volevo essere io.

Fotografo da Instagram, quando chiedi all’app ciò che non puoi essere!

Rosario PipoloSi sa che gli italiani vivono sotto la gonnella delle mode. Accade anche per le app che ci fanno sguazzare sui social con l’illusione digitalizzata di essere ciò che non possiamo essere. Nell’occhio del ciclone c’è Instagram, l’app per scattare e condividere foto con lo smartphone, nata tre anni fa e subito avvinghiata da Facebook. Anzi, se la vogliamo dire tutta, l’app in questione ha perso pure la freschezza iniziale, piegandosi in questi giorni alla dittatura facebookiana del “tag”.

In Italia Instagram ha fatto il botto già nel 2012, soprattutto con gli over 20, ma in questi primi mesi del 2013 contagia pure chi si affaccia al balcone social sporadicamente. Anzi i nostri status stanno dicendo bye bye alle parole per infilarci ad ogni occasione una foto. Instagrammiamo tutto, dal paio di pantofole della nonna in soffitta allo sbadiglio del micione, con la preseunzione che la nostra immagine diventerà una piccola opera d’arte con il raggiro del “filtro”. Io abuso di quello sopranominato Nashville per le sfumature cinematografiche, ma in giro vedo tante foto filtrate con XProII, Valencia e Rise. Così dopo il filtro giusto e la valanga di “mi piace”, segue il compiacimento: “Sono davvero un fotografo mancato”.

I più onesti questo lusso non se lo sono mai concessi. Avremo azzeccato pure qualche scatto, ma ad Instagram in pochi di noi non abbiamo mai chiesto di farci sentire fotografi dalla sera alla mattina. E non perché quelli come me provengono dalla generazione che ha viaggiato su chilometri di rullini fotografici. Instagram arricchisce il racconto social e la nostra smania di trasformare la quotidianità in un grande reality. L’arte della fotografia è altro e un’app non può nascondere “il dilettantismo” che straripa nella rete. Non sarebbe “disonesto” pensare che, con una qualsiasi piccola diavoleria in veste di app, si possa diventare fotografi, montatori, dj, musicisti, pittori o scrittori?