Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Franco Battiato e il passaggio in Medio Oriente della mia generazione

La mia generazione, nata al’alba degli anni ’70, deve alla musica di Franco Battiato (1945-2021) gli occhi per guardare con privilegio il Medio Oriente. La colonna sonora del mio primo giorno delle elementari fu L’era del cinghiale bianco, che impazzava da una radio libera all’altra. Il maestro siciliano, per quella bizzarra capigliatura, mi faceva sorridere quando la domenica pomeriggio sbucava sul palco di Discoring, la trasmissione musicale di Gianni Boncompagni.

SGUARDI PRIVILEGIATI SUL MEDIO ORIENTE

La mia infanzia, a livello mediatico, è stata segnata dalle bombe che cadevano su Beirut e gli schizzi di sangue della faida tra israeliani e palestinesi. Con il tempo il canzoniere di Franco Battiato ha accorciato le distanze tra me e i miei coetanei di allora, finiti in disgrazia nel Medio Oriente turbolento: bambini, orfani di guerra, cresciuti sotto i lampi dei bombardamenti, a cui era stato sottratto il diritto allo studio per essere allevati con elmetti e fucili, come se non ci fosse via d’uscita dall’odio.

La musica di Battiato si è rivelata un varco provilegiato per quelli come me, i cui studi linguistici di impronta europeista non agevolavano il contatto con l’emisfero arabo. Brani come Da Oriente ad Occidente, Pasqua Etiopie, L’Egitto prima delle sabbie, Arabian Song, E ti vengo a cercare, sono state pure illuminazioni.
Meditazioni musicali che mi hanno fatto volare, prima di inserirle nella lista del mio giro del mondo, nella Teheran delle contraddizioni della rivoluzione di Khomeini, nella Gerusalemme crocevia di religioni e culture milleniare, nel Cairo del passaggio controverso del potere da Sadat a Mubarak.

BATTIATO, COLONNA SONORA TRA VIAGGIO E IMMAGINAZIONE

Le canzoni più filo-orientali di Battiato sono state la colonna sonora della mia lettura di Persepolis, graphic novel della fumettista iraniana Marjane Satrapi, o del mio viaggio verso Istanbul, su un autobus che dai Balcani mi catapultò sotto una delle porte che si aprivano sul Medio Oriente.
In quel ferragosto del 2009 in Turchia c’erano 1.400 chilometri che mi separavano dall’Iraq. Eppure la cover di Battiato di Fogh in Nakhal, canzone tradizione irachena udita nei pressi del Gran Bazar di Istanbul, cancellò improvvisamente le distanze e profetizzò ciò che avrei vissuto pochi anni dopo a Ground Zero: io e una studentessa irachena in una preghiera laica per le vittime dell’11 settembre.
L’opera di Battiato, complessa e multiforme tra filosofia, meditazione, religione, spiritualità e musica, ha il merito di aver abbattuto tanti muri, inclusi quelli dei malefici pregiudizi, senza cui la mia generazione non avrebbe fatto il suo passaggio in Medio Oriente: oggi la sua scomparsa, sotto le bombe del nuovo millennio tra Israele e Palestina, sembra chiudere il cerchio di una pace che tarda ad arrivare, anzi che forse mai arriverà.

NON C’E’ ADDIO PER UN UN ESSERE DEL COSMO

Agli altri l’affanno di etichettare Franco Battiato e la sua opera. Il ricordo della mia intervista a Milano una quindicina d’anni fa mi costringono a fare altro: lasciare galleggiare le sensazioni di quei momenti, come se davanti a me nel camerino ci fosse stato un essere del cosmo passato sulla terra, la cui generosità e spiritualità hanno reso la sua opera uno dei più grandi lasciti artistici in Italia.

E ti vengo a cercare

Anche solo per vederti o parlare

Perché ho bisogno della tua presenza

Per capire meglio la mia essenza.

Da Franco Battiato a Mina, perché i loro compleanni ci appartengono

Rosario PipoloLe canzoni non solo ci fanno stare bene ma sanno essere per una minoranza di noi incisioni sulla vita per le scelte future. Per questo motivo i compleanni di chi ce le ha donate, vanno festeggiati.
Non si tratta però dell’odioso fanatismo che fa di ogni fan che si rispetti il cortigiano immaginario del proprio beniamino, piuttosto dell’incosciente leggerezza che lega la vita, la nostra appunto, a certe canzoni e di conseguenza alle voci che le hanno vendemmiate per noi.

Pensando a due compleanni speciali in questo marzo, le 70 candeline di Franco Battiato e le 75 di Mina Mazzini, mi chiedo se dopotutto bastano canzoni per arrogarci il diritto di sedere da commensale al tavolo dell’illustre festeggiato. Non sono complici un mucchietto di ricordi, messi in castigo all’angolo, a dare una sostanza a quelle voci?

Mi capitò con Battiato in un auditorium milanese: dopo l’esecuzione di Povera Patria mi alzai in piedi e lui sorridendo mi disse: “Assiettete”. In camerino, mangiucchiando della frutta insieme, ripercorsi con Battiato la via Etnea sperimentale che illuminò gli orizzonti perduti delle mie conoscenze musicali.

Per Mina mi capitò in una cucina alla periferia di Napoli nei pomeriggi dell’infanzia: mamma terminava le faccende domestiche e mi raccontava della signora Mazzini, di professione cantante, trasferita a Lugano per tornare a vivere la quotidianità lontana dalll’invadenza dei riflettori. Insomma, per farla breve, nel mio immaginario Mina è rimasta l’amica di mia madre che, tra lavoro di casalinga e la professione di mamma per Massimiliano e Benedetta, si chiudeva in sala di registrazione e incideva canzoni.

Il fanatismo tanto decantato, che alimenta il personaggio e lo mitizza, prima o dopo appassisce. Resta in soffitta impolverato tra ricordi e vecchi brani. Accade il contrario quando le voci di quelle canzoni prendono la forma di persone, cresciute accanto a noi nella loro fragilità e umanità.
Perciò crescendo, avvertiamo la necessità di entrare in contatto con loro. Non è fanaticismo feticista. Questo tratto lo colse mia cugina Elena, quando anni fa mi fece trovare una dedica di Mina, incorniciata come se fosse uno specchietto della mia vita.

Abbiamo il diritto di essere accanto a loro quando soffiano sulle candeline perché, nell’ultima fiammella accesa sulla torta, ci sono i quattro angoli del cielo della nostra vita.
Le canzoni non si liquefano come su Spotify ma, dopo essere stati appiccicati come bottoni su un pentagramma, si muovono con la leggerezza di una libellula. Finiscono per assopirsi su una brandina al vinile, avvolta da una copertina su cui era disegnato, ad insaputa nostra, ciò che avremmo voluto dal nostro futuro.

Oggi sono io, anche grazie a voi due. Buon compleanno, Battiato. Buon compleanno, Mina.

Sanremo 2011 atto I: Che barba, che noia!

Abbiamo sperato fino all’apertura del sipario che non fosse catastrofe. Invece questa è davvero la tragedia dell’Italia dalle canzonette che non sa più che pesci prendere. Il Festival di Sanremo condotto da Gianni Morandi è sicuramente il peggiore del nuovo millennio. Chi ha avuto la bizzarra idea di cominciare con la mamma baby-sitter Antonella Clerici, che trasforma un copione da prima serata nella più maldestra cantilena recitata? E’ proprio vero quando si dice che il Festival della Canzone Italiana rispecchi per filo e per segno ciò che siamo in questo momento. Ce lo ricordano i maliziosi siparietti di Luca e Paolo, i veri showmen della prima serata, che sono lapidari tra le belle statuine di Belen e la Canalis.

Gira e rigira la frittata è quella di sempre, con lo spettro del solito intruso, l’innominato ficcanaso che guida l’intera corte a distanza. Questa edizione 61 del festival più amato dagli italiani è così sottotono da sembrare un favore costruito a tavolino per far rallegrare la concorrenza. Gianni Morandi è un pessimo conduttore – perché non ritorna a fare il suo mestiere? – e l’immediatezza scenografica così fantasma da farci scordare che all’Ariston c’è un’orchestra che suona dal vivo.
E delle canzoni ne vogliamo parlare? Quelle dei Campioni le buttiamo tutte giù dalla torre e ci teniamo strette la poesia del prof. Roberto Vecchioni, l’impasse vocalico di Emma & i Modà, la ricercatezza (forzata in qualche punta) di Nathalie, la filastrocca di Tricarico, il folk spedito di Van De Sfroos, la lenta alzata in volo di Battiato. Il brano di Giusy Ferreri non è malaccio, ma l’ex cassiera ha perso così tanta voce da rischiare di tornare tra le corsie del supermercato. Sbadigli a non finire per un Sanremo senza show e senza canzoni. E poi sarà che porta sfiga, ma fa bene una mia lettrice a ricordarmelo. Il Festival non è più lo stesso senza il motivetto della seconda Restaurazione baudiana: “Perchè Sanremo è Sanremo”. Qui c’è poco da ridere e tanto da piangere. Tatangelo via (era ora!), ma avrei tenuto la Oxa cestinando i riciclati Barbarossa e Pezzali, due bidoni in un colpo solo.