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Gallarate: la sicurezza in strada fa la dignità del cittadino

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Rosario PipoloIn un bar di Gallarate, in provincia di Varese, raccontavano che il papà di Valentino passava lì tutte le mattine a prendere le brioche. Di rado c’era anche il figlio e mi viene il dubbio di averlo incrociato qualche mattina. Da oggi Valentino non farà più colazione nel piccolo bar del varesotto, perchè ieri mattina è stato travolto da un autoarticolato con la sua bicicletta e ci ha rimesso la vita.

Questo potrebbe essere uno tra i tanti e dolorosi ritagli di cronaca che riguarda da vicino chi si muove in bici nel nostro Paese. In un report del 2012, l’ACI aveva rilevato 15.100 ciclisti feriti e 166 morti in ambito urbano, un dato che ci fa dubitare seriamente della sicurezza stradale, che tra l’altro mette a repentaglio la vita degli amanti delle pedalate.
La rotonda a Gallarate, quella della lunga e trafficata via Torino dove ha perso la vita il giovane di 27 anni, negli ultimi anni è stata teatro di tanti incidenti e sciagure.

Per giunta qui di mezzo ci sono gli autoarticolati che ogni santo giorno sfrecciano a velocità insensata verso la famosa superstrada di Malpensa, dimenticandosi di essere in un centro urbano. In orario mattutino ho visto sulle strisce pedonali accanto a questo maledetto rondò pedoni prendersi un bel vaffa dagli autotrasportatori furiosi, sgarbati e maleducati. Non sono più disposti neanche a perdere qualche secondo in più per concedere il legittimo “lascia passare”? Figuriamoci poi per un ciclista, che viene continuamente maledetto.

La sicurezza in strada fa la dignità del cittadino e ogni comune ha il diritto di farsi in quattro per garantirla. Dopo gli accertamenti delle forze dell’ordine, la triste vicenda di Valentino avrà il suo finale, ma ogn cittadino che si rispetti non vuole chiedersi più chi sarà la prossima vittima di quel rondò.
Ho sostituito la foto da cronaca del rottame a due ruote con questo mio scatto di sabato scorso. Forse proprio tra questi alberi tinti d’autunno pochi di noi si sono accorti delle ultime pedalate felici e scanzonate di Valentino.

Ti chiami Missoni se il tuo stile mette a tacere il frufrù che c’è in noi!

Rosario PipoloSe fossi stato in zona, mi avrebbe fatto un effetto strano passare davanti alla Basilica di Gallarate e incrociare il corteo funebre di uno stilista. La moda è così prepotentemente di proprietà di Milano da farci convincere che ogni fashion designer che si rispetti dovrebbe pianificare l’ultimo viaggio all’ombra della Madunnina. Dove sta scritto? Mica la moda deve ostinarsi ad essere il riflesso posterizzato di Il diavolo veste Prada?

Ottavio Missoni è stato un imprenditore intelligente e visionario, prima di essere uno stilista. L’arcobaleno voltò le spalle al cielo per distendersi nelle sue creazioni, tra citazioni da art-decò, zig-zag e tinte accese che incidevano sui tussuti il Technicolor dei vecchi western americani.
Qualche anno fa, poco prima di entrare ad una sfilata a cui ero stavo invitato, sentii due fashion blogger civettare come se fossero dal parrucchiere: “Ci vuole una penna al femminile per raccontare il mondo della moda”. Dopo aver deglutito questa idiozia zeppa di smancerie, scivolai sul solito clichè, sulla solita ghettizzazione come se essere frufrù fosse il cannocchiale per cogliere i dettagli.

Il tratto inconfondibile di Missoni lo accosta al disegno industriale e alla sua evoluzione nel nostro Paese, rompendo quegli argini che hanno fatto del Made in Italy una condizione necessaria di versatilità, stile, sobrietà. Negli anni ’80 regalai a mia madre un foulard firmato Missoni. Un ragazzino delle scuole elementari cosa ne poteva sapere che l’alta moda non fosse alla portata della tasca di una casalinga? Era un falso d’autore, lo scoprii diversi anni dopo. Missoni era così amato all’ombra del Vesuvio, da essere riprodotto ovunque.

Ottavio Missoni aveva il senso dello humor e una volta replicò scherzosamente: “Per vestirsi male non serve seguire la moda, ma aiuta”. Dipende. Se ti chiami Missoni però lo stile sobrio e senza fronzoli mette a tacere pure il frufrù che c’è in noi. Una mattina accompagnai mamma a fare la spesa. Indossava il fatidico foulard. Per un attimo mi sembrò di essere il figlio di una modella e Ottavio Missoni trasformò quel corso di provincia in una lunga passerella.

Addio a Carlo Maria Martini, il Gesuita che avremmo voluto Papa

Il polacco Karol Wojtyla si era dimostrato un bravo talent scout e ci vide lungo nello sguardo algido di quel Gesuita, che sarebbe stato l’unico e legittimo successore. Carlo Maria Martini, l’Arcivescovo emerito di Milano, si è spento qualche ora fa a Gallarate, a pochi chilometri da Varese, dove da diversi anni combatteva contro il Parkinson. I non credenti hanno apprezzato il temperamento sobrio del filosofo, la sua apertura al dialogo verso le altre religioni; i fedeli invece l’integrità spirituale del padre Gesuita.

Carlo Maria Martini è stato capace di allenare una comunità, all’ombra del pontificato di Giovanni Paolo II, proteggendola dal conservatorismo che ha affossato la Chiesa, remando per mandare alla deriva il passato, guardando agli errori, simili ai peggiori scheletri nell’armadio, con le lenti del riformista. Battendo il pugno per affermare che “Dio non è cattolico”, il padre spirituale che era in lui ha ceduto il passo all’insuperabile biblista. Carlo Maria Martini aveva tenuto vigile lo sguardo sul futuro e sui cambi di stagione, fu sentinella mentre Milano usciva a fatica dal tunnel degli Anni di Piombo per finire affogata nell’ingordigia della movida degli yuppies e del rampantismo del tempo avvenire. Non lo aveva fatto però con lo scettro del sovrano despota, ma con l’intelligenza e la spiritualità che sanno fare di un Gesuita un principe e un essere davvero speciale.

Carlo Maria Martini è stato il Papa mancato, il Pontefice che alcuni di noi avrebbero voluto incrociare. E’ inutile girarci intorno, se non fosse stato per la feroce malattia, sarebbe arrivato a Roma con l’appoggio sacrosanto del Padreterno. E la manciata dei voti che ha fatto sogghignare i conservatori con l’elezione di Ratzinger, nella virata più a destra rispetto alle previsioni ottimiste, avrebbe consegnato la Chiesa nelle uniche mani che potevano tracciare la linea di continuità con il pontificato di Giovanni Paolo II.

Nel dicembre del 1998, in un gelido pomeriggio, lasciai in un angolo del Duomo di Milano un biglietto per lui. Quando tornai a Napoli, dopo una notte di treno, trovai una lettera che proveniva da Milano. C’era scritto pressappoco così: “Abbiamo trovato il suo biglietto nella Cattedrale. Il Cardinal Martini ha apprezzato le sue belle parole. Lui è vicino ai giovani. Rosario, non perda mai la speranza.” La conservai nella tasca del jeans e una settimana dopo risalii sullo stesso treno Espresso per tornare a cercare fortuna in una città che non era mia. Carlo Maria Martini, il Gesuita dalle ampie vedute, ha chiuso gli occhi a pochi metri da dove abito oggi. Di lui mi resta qualche goccia dell’ inchiostro che incoraggiò un ragazzotto del Sud a difendere valori e sogni dai paladini del cinismo.

  Habemus Papam vicino a Martini: Il gesuita moderato argentino…