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Oscar, il razzismo dell’Academy e le contraddizioni di Spike Lee

Rosario PipoloHollywood resta il riflesso dell’America, nel bene e nel male, anche in termini di segregazione razziale. Quando nel 1964 Sidney Potier fu il primo attore di colore a vincere l’Oscar, Martin Luther King continuava a battagliare nelle piazze per diritti dei neri americani.
Oggi un Presidente di colore si avvia alla chiusura del secondo mandato alla Casa Bianca e, dopo la bufera sulla candidatura agli Oscar, l’Academy viene accusata di razzismo.

Per dovere di cronaca, è superfluo citare attori e registi di colore finiti nel firmamento hollywoodiano, consegnando al nostro immaginario collettivo pellicole memorabili. Lo hanno fatto anche registi alla Spike Lee. Anzi se proprio devo dirla tutta, senza film come Mo’ Better Blues, nel 1992 non mi sarei intestardito per recarmi ad Harlem a tutti i costi.
Allora ero uno studente, me lo proibirono, dicevano che era pericoloso. Durante le tre settimane di studi in quell’estate newyorchese, mi rifiutai di scegliere la formula del mini tour organizzato, lo additai come gesto razzista e sbraitai: “Non sono animali da circo?”.

L’accusa di razzismo, sbandierata oggi da Spike Lee nei confronti dell’Academy, si ritorce contro di lui. Non fu proprio lui ad attaccare ferocemente Clint Eastwood nel 1988, in occasione dell’uscita di Bird? Secondo il regista di Malcom X un bianco non poteva raccontare la vita di un musicista di colore come Charlie Parker. Eastwood lo fece magnificamente.

Qui non si tratta del colore della pelle, ma di quella infame “subcultura dello scarto”, che ci rende tutti maledettamente sessisti, maschilisti, omofobi, fanatici religiosi e politici. Una regressione culturale, fatta di gabbie sotto cui siamo finiti tutti, Hollywood e Academy comprese.

Al ritorno dal mio viaggio a Memphis, mi sono chiesto se un documentarista bianco decidesse di fare un film sulla storia della Stax Records. Che smacco sarebbe scoprire che Jim Stewart, fondatore dell’etichetta della Soul music e della sciabola musicale che tagliò a pezzetti le lobby razziste del Tennessee, era paradossalmente “un bianco”. È il caso che Spike Lee faccia un passo indietro.

La grande bellezza, l’Oscar per guardarci intorno

Rosario PipoloLa grande bellezza è la coppia di parole più digitata della rete da stamattina all’alba. Ce ne siamo fregati degli sbadigli del fuso orario pur di sapere se il film di Paolo Sorrentino aveva riconsegnato nelle mani dell’Italia un bell’Oscar.

Ciondolando da un social network all’altro mi è parso di capire che il titolo cinematografico si sia imposto quasi come uno slogan che riguarda ciascuno. È stato come ritrovare una vecchia lente di ingrandimento in un cassetto chiuso a chiave per tornare a guardarci intorno.

La grande bellezza non è lo sguardo cocciuto che rende strabica la nostalgia, nel rimpianto della giostra felliniana che vestiva Roma di sogni ed eleganza. La grande bellezza è piuttosto lo stupore di un Paese che non è soltanto corruzione, mostruosità, rassegnazione. È come se, svegliandoci da un brutto sogno, avessimo messo al guinzaglio l’essere brutti, sporchi e cattivi.

La grande bellezza è nell’arte che popola lo stivale italiano che, quasi come un paradosso, fa andare in frantumi la Pompei archeologica. La grande bellezza è nei sogni discreti di quella minoranza stanca del populismo politico e culturale. La grande bellezza è nelle donne che guerreggiano contro il maschilismo che preferisce un ramo secco al posto della freschezza di una mimosa. La grande bellezza è tra gli impavidi che non ci stanno a vedere il futuro della propria terra crescere sotto il ricatto della diossina e della criminalità. La grande bellezza torna nel palmo della nostra mano, appena stacchiamo la maledetta spina della routine che ci condanna alla distrazione e alla superficialità.

Paolo Sorrentino non ha regalato all’Italia una pregiata statuetta ma uno spunto per tornare ad arare il campo della grande bellezza di cui vorremo parlare. L’euforia passeggera di un trionfo può lasciarci addosso la paura di perderci nel buio; un film che ci fa dondolare come su un’amaca può sottrarci al terrore di guardarci intorno.
E in questo momento ne avevamo davvero bisogno.

Sophia Loren, da un autografo alla fiction

Si dice che dalla grafia si possa capire l’anima di una persona. Vale anche per l’autografo di una diva? Guardando ieri sera la prima puntata di La mia casa è piena di specchi, la fiction di Raiuno che racconta una parte della vita di Sophia Loren, mi è tornato in mente l’unico incontro con lei, nel 2002 al Festival del Cinema di Venezia. Mi ha fatto tenerezza la Loren in quell’occasione: teneva per mano il figlio Edoardo e gli faceva da “mamma-madrina” per la presentazione del suo film. Di quell’incontro mi resta un autografo su una vecchia videocassetta, quella del film “Una giornata particolare” di Scola a cui mi sento particolarmente legato.  In quella firma tremolante non riesco a leggere niente più di Sofia Scicolone, perchè è come se gli anni da diva d’oltreoceano avessero offuscato la persona. Eppure nel film televisivo diretto Vittorio Sindoni la vera eroina si conferma la mamma di Sofia, donna Romilda Villani. Dietro un’attrice di successo c’è una grande mamma (Romilda) o un grande uomo (il produttore Carlo Ponti)? La fiction si inceppa in qualche stilema troppo edoardiano, tra i traumi di Napoli Milionaria e la leggitimità dei figli di Filumena Marturano, ma ci lascia un interrogativo: Oscar per la Ciciora nel 1962. Sarebbe mai accaduto se dietro la macchina da presa non ci fosse stato un grande regista come Vittorio De Sica? Nel “ph” di Sophia ci sono davvero allora dei grandi uomini, altrimenti forse quella ragazza di Pozzuoli sarebbe rimasta un volto dimenticato di un fotoromanzo in bianco e nero. E non c’era bisogno di questo tributo televisivo per scoprire l’acqua calda!

Mandela ritrovato: al cinema con Invictus

Invictus, il nuovo film di Clint Eastwood, mi ha emozionato perchè ha riportato a galla il mio primo incontro con l’Apartheid e il Sud Africa. In una scuola media della provincia di Napoli, nella prima metà degli anni ottanta, ho scoperto che c’erano paesi in cui  ancora neri e bianchi non potevano sedersi sulla stessa panchina, viaggiare sulla stessa ambulanza o innamorarsi, sposarsi ed essere felici.  Quando sono tornato a casa quel pomeriggio, vedendo i miei compagnetti giocare a biglie con Ronny, il nostro amico di colore, ho avuto paura perchè in Sud Africa non sarebbe potuto accadere. Per noi Ronny era la mascotte del condominio Stella Maris e gli volevamo tutti bene. Non ho mai visto un atto di razzismo contro di lui, negli anni in cui era una rarità avere un compagno di giochi con la pelle di un colore diverso dal tuo. Clint Eastwood usa un buon pretesto, lo sport e la vittoria ad una partita di rugby, per cogliere in flagrante la grande umanità e spiritualità di un profeta del tempo moderno: Nelson Mandela (insuperabile Morgan Freeman). Peccato che lo sguardo della macchina da presa sia troppo americano -sarà colpa del rugby? – per rendere il film perfetto. Mi resta una domanda irrisolta: il tifo che unisce una nazione intera, al di là del colore della pelle, finisce con l’euforia del momento? Non ci sono andato ancora in Africa, è nei miei programmi di viaggio, ma il terrore che “le vittime” di ieri siano “i carnefici” di oggi mi inquieta nel profondo dell’anima.

Al cinema con Baarìa per tornare in Sicilia

Una scena dal film "Bariia"

Rosario PipoloIl cinema può solleticarti l’idea di fare un viaggio; un viaggio fatto alcuni anni prima può spingerti ad andare al cinema per ritrovare quei luoghi. Baarìa è l’omaggio di Giuseppe Tornatore alla sua Sicilia in un canto visivo e corale dove quasi tutto il ‘900 si consuma ai margini di vita vissuta.  Sì è vero: ci sono i paesaggi ampi di Sergio Leone; ci sono i connotati storico-politici di Bernardo Bertolucci e del suo Novecento; ci sono eccessi di uno sfilacciante sentimentalismo tipico di Nuovo Cinema Paradiso; ci sono i picchi musicali ruffiani di Morricone e altre combinazioni che potrebbero renderlo già da “Oscar” agli occhi degli Americani. Tuttavia, nel nuovo film di Tornatore c’è una gestione calibrata del tempo e dello spazio che allontana in parte una comunità dai soliti stereotipi e da quella stemperata iconografia. Baarìa ha riscattato alcuni ricordi dei miei viaggi in Sicilia, e sicuramenti non quelli turistici e da cartolina legati a Taormina, Cefalù, la Valle dei Templi o Siracusa. Ha riscattato il mio viaggio di un pomeriggio d’agosto nell’entroterra arido e deserto tra la visita riflessiva in un piccolo cimitero di San Giuseppe Jato, la rilettura di una lapide a Portella della Ginestra e il retrogusto acidulo della ricotta a Piana degli Albanesi. E’ quella la Sicilia che voglio ricordare. Non penso che “percorrendo avanti e indietro per anni poche centinaia di metri, puoi imparare ciò che il mondo intero non saprà mai insegnarti”. Prima o poi bisogna andarsene, percorrere distanze chilometriche e prendere coscienza di quello che credevi fosse “l’ombelico del mondo”. Giuseppe Tornatore avrebbe fatto meglio a risparmiarci “le tette” della Bellucci per un cammeo di tre siciliani dimenticati: Lando Buzzanca, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.  

Gomorra, l’Oscar mi rende nervoso!

Ogni anno è una tribolazione per trovare un accordo sul film che rappresenterà l’Italia gli Oscar. E il malcontento rischia di essere all’ordine del giorno per alcune candidature passate, azzardate ed ingiustificate: il Pinocchio di Benigni nel 2003 o La sconosciuta di Tornatore quest’anno. Sarà Gomorra di Matteo Garrone, il film tratto dal libro cult di Roberto Saviano, a restituire all’Italia il 22 gennaio 2009 la speranza di rientrare nella rosa delle nomination per l’ambita statuetta. Tradotto in 33 lingue con quasi 2 milioni di copie vendute, il libro dello scrittore e giornalista partenopeo è una radiografia sconvolgente, in bilico tra saggio e inchiesta, sulle attività criminali della camorra. La trasposizione cinematografica di Garrone è un racconto epico, una tragedia in stile classico che trasforma quei mostri localizzati tra Napoli e la sua degradante periferia in un dramma universale. Non dimentichiamo che la maggior parte degli Americani guarda l’Italia come il Paese di “spaghetti, sole, pizza, mandolino e mafia”. Quel film è un coraggioso atto di denuncia, e non una radiografia pittoresca o folcloristica del morbo cronico di una città e del Sud Italia. L’ambita statuetta – che tutti ci auguriamo – acquisterà un valore culturale e artistico soltanto se rientrerà nei parametri di questa riflessione: il popolo napoletano non ha più bisogno di finire in pasto alle prime pagine dei tabloid di tutto il mondo per autorevoli critiche, compassione o commiserazione. Napoli, oggi più di ieri, ha bisogno di una presenza costante delle istituzioni e del sostegno a persone come Saviano, piccoli grandi eroi dei nostri giorni bui. Se così non fosse, allora vi diciamo: “No grazie, l’Oscar ci rende nervosi”.