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Natale in casa De Filippo senza Luca: A nuje ce piace ‘o presepe

Rosario PipoloSe apprendi la notizia triste e inaspettata dall’altra parte del mondo, preferisci posticipare la riflessione al rientro. Delle tante interviste fatte a Luca De Filippo tra il 1994 e il 2009, mi è rimasta impressa quella all’Augusteo di Napoli, in occasione del reading “Penzieri mieje” nel decimo anniversario della scomparsa di Eduardo.

Riavvolgendo il nastro di un’audiocassetta mi torna in mente questo: “Il teatro è una cosa seria ed è la lezione più grande che mi ha lasciato papà. Dal letto mi disse di andare perchè il pubblico non poteva e non doveva aspettare. Quella fu l’ultima volta che lo abbracciai”.

Luca De Filippo non mi ha trasmesso mai soggezione, questo no, quanto la serietà e l’etica che fanno dell’uomo calato nella quotidianità la reversiiblità dell’uomo del palcoscenico.
Luca non è stato soltanto il figlio accorto, fattosi missionario della complessa e sterminata opera del padre, ma l’attore che ha fatto della napoletanità la congiuntura tra memoria e futuro, tra Eduardo e il mondo. Non a caso Peppino Patroni Griffi mi disse alla prima del suo remake di Sabato, domenica e lunedì: “Eduardo è il mondo”.

I messaggini e le banalità confezionate e spalmate sui social network, nel giorno della scomparsa prematura di Luca De Filippo, mi hanno fatto pensare.
Se tutte quelle persone fossero stati realmente pubblico assiduo nei nostri teatri, non avremmo subìto il vuoto tra le platee dell’ultimo decennio e potremmo ancora parlare del ruolo civico del teatro di prosa.

“Nun me piace ‘o presepe” è diventato l’assillante tormentone per la scena guitta e amatoriale che il più delle volte ha soffocato la drammaturgia eduardiana nella macchietta divoratrice di prospettive. In pochi conoscevano la formula magica: dietro la celebre battuta di Natale in Casa Cupiello c’era il “Non mi piace il teatro” del piccolo Eduardo ripetuto a papà Scarpetta, perchè da grande avrebbe voluto fare un mestiere utile alla società, il pompiere, il medico.

Noi andiamo controcorrente. A nuje ce piace ‘o presepe perchè il teatro resti la corteccia dell’esistenza. Senza Luca De Filippo c’è il vuoto intorno, ci sentiamo più soli.

A ripetizione di teatro da Regina Bianchi, l’ultima grande Filumena Marturano

Rosario PipoloNel 1988 mi presentai in camerino a fine spettacolo. Avevo un piccolo registratore a cassette. Regina Bianchi mi rimproverò: “Guagliò, vai a giocare con quelli dell’età tua. Che ce fai a sentì ‘na vecchia comme me?”. L’attrice era della stessa generazione di mia nonna Lucia. Le dissi che non mi interessava quello che facevano i miei coetanei. A quindici anni volevo capire da lei di che materia fosse fatto il teatro.
Regina cominciò a struccarsi. Il mio sguardo incrociava il suo attraverso lo specchio di un teatro alla periferia di Napoli, mentre mi accennava all’incontro con il palcoscenico e all’esperienza con Eduardo. Alla fine di questa breve lezione, precisò: “Guagliò, il teatro è sacrificio costante e quotidiano. E’ come la vita. Finché non lo avvertirai sulla tua pelle, non capirai mai questo mestiere”.

Ogni stagione teatrale capitava che la incontrassi, puntualmente alla fine dello spettacolo. Mi ricordo una volta la sua assistente: “Signò, c’è quel ragazzino con gli occhiali. Ve lo ricordate?”. E lei, dopo avermi riconosciuto, ripeteva: “E tu ccà nata vota staje”. Regina Bianchi aveva capito che il mio “toc toc” alla porta del camerino assomigliava alla voglia di prendere ripetizioni di teatro. Si trasformò in un piccolo rito e una volta aggiunse: “Mi sento una nonna che racconta il teatro al nipote incuriosito”.

Per diversi anni la persi di vista. La incrociai a metà degli anni Novanta. Lei non lo riconobbe quel giovane giornalista, che fu annunciato per una breve intervista. Le chiesi della severità di Eduardo De Filippo e dell’aneddoto che circolava tra noi addetti ai lavori: pare che Eduardo l’avesse buttata fuori dalla compagnia perché, dopo una rappresentazione di Filumena Marturano, chiamata dal pubblico che la acclamava, avesse fatto un passo in avanti per prendersi gli applausi. Secondo il rigido protocollo, non avrebbe dovuto commettere questa gaffe perché sarebbe toccato al capocomico, Eduardo in questo caso, prenderla per mano e condurla verso il pubblico.

Regina Bianchi fu molto diplomatica e replicò: “Crede pure agli aneddoti?”. Cambiò discorso. Io per smorzare i toni, le rivelai chi fossi. Sorrise e si ricordò. Anzi, mi chiese anche di mia nonna Lucia,  perché una volta aveva apprezzato un suo maglione all’uncinetto che indossavo. Quando avvertì il mio dolore – l’avevo persa da pochi mesi – mi diede una lunga carezza. Mi guardò con lo stesso sguardo della sua Filumena Marturano, come a voler dire che “io la soddisfazione di piangere l’avevo potuta avere perché il bene lo avevo conosciuto”.
L’accompagnai all’auto, tenendola sottobraccio. Quella fu l’ultima volta che la vidi. Scomparve nel buio l’attrice Regina Bianchi, che con il suo stile recitativo sobrio e interiore aveva dato voce all’anima di Napoli,  e riapparve la sagoma di donna Regina D’Antigny. Adesso il sipario è calato, per sempre. Per me no, che ho avuto la fortuna di prendere qualche ripetizione di teatro da lei.

  E’ morta Regina Bianchi, grandissima del teatro napoletano.

Addio a Mariangela Melato. In un camerino mi diede una gran bella lezione…

Mariangela Melato

Rosario PipoloLa prima volta che la incontrai in camerino, tremavo come una foglia. Accadde al teatro Diana di Napoli. E non perché fossi un giovane alle prese con le prime interviste, ma perché Mariangela Melato a teatro mi confermava sempre la stessa impressione: in quel corpo trovavo l’eleganza di un cigno che avvolgeva la sensibilità, la semplicità, l’intelligenza, l’ironia di una donna autentica ed indipendente.

Il camerino era illuminato. Mi mise ad agio. Chiacchierammo. Non parlammo di cinema, solo di teatro. Teatro, tanto teatro. L’audiocassetta terminò e il registratore smise di girare. Stavo per cambiare nastro. Lei mi fermò con la coda dell’occhio e disse: “Continuiamo noi due. Questi aggeggi danno un tono troppo meccanico agli incontri.” La Melato diede una gran bella lezione ad uno sbarbatello come me. Trasformare un’intervista in un incontro arricchiva l’intervistato, offrendogli il grande privilegio di intravedere l’altra prospettiva di un attore.

Fino a quel momento Mariangela Melato era stata per me la sottoproletaria Fiore in Mimì Metallurgico di cui mi ero infatuato, attraverso un piccolo televisore in bianco e nero in cucina, attaccato alla gonnella di mia madre. Dopo quell’intervista – pardon, incontro – Mariangela Melato si rivelò l’unica donna del palcoscenico italiano a vestire la nudità delle generazioni degli Anni di Piombo e del Riflusso in Italia. I suoi personaggi memorabili, al cinema, in televisione o a teatro, ci hanno aiutato a difenderci dalla mediocrità della quotidianità.

Mariangela Melato se n’è andata proprio in un momento storico in cui la mediocrità è all’ordine del giorno. Soprattutto quella più insidiosa, con cui a volte ci troviamo gomito a gomito nella routine, quella che trapela dalle persone mediocri, di cui dobbiamo imparare a disfarci nella vita privata e lavorativa.
E sono proprio le donne anti-dive alla Melato a restituire al teatro l’inossidabile funzione di depuratore dell’intelletto, del pensiero, dell’anima. Joan Baez disse: “Non si può scegliere il modo di morire e nemmeno il giorno. Si può decidere soltanto come vivere”. Mariangela Melato ha vissuto nel teatro e per il teatro.

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