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Quando le immagini scuotono le nostre coscienze

Rosario PipoloLe parole non ci scuotono più. Ce ne sono troppe, spezzettate, allungate, insipide nell’acqua che bolle dei social network. Qui non si tratta di pesare la pasta da buttare in pentola, ma la nostra coscienza civile, frullata negli sfoghi che una volta nascevano e morivano al bar sotto casa.

Gli algoritmi, che governano la traballante democrazia in Internet, non sempre sono la chiave d’accesso alle notizie per fare chiarezza su una questione che getta ombre sull’Unione Europea: il destino di migliaia e migliaia di profughi.

Siamo tornati all’Europa della frontiere, quella che fa venire fuori il lato oscuro nei recinti delle nostre lande. Basta guardare com’è andata a finire in Ungheria, scivolando sull’indignazione collettiva per la gestione del flusso dei profughi o dopo aver visto la videoreporter ungherese che prendeva a calci i migranti.

La bellezza salverà il mondo? No, perchè non è quella dei selfie che hanno affolato la nostra estate: tette e culi in riva al mare; il primo dentino o il ruttino sotto l’ombrellone di nostro figlio; l’ostentazione di dimostrare agli amici facebookiani che la nostra meta fosse la migliore; la lucida follia dell’anvedi come siamo belli.

La bellezza salverà il mondo a patto che le immagini scuotano le nostre coscienze. Il bimbo dormiente in riva al mare, che ha fatto in un batter baleno il giro del mondo, ci ricorda nella sua plastica drammaticità i calchi abbracciati degli scavi archeologici di Pompei. La riflessione, miscuglio di dolore e rabbia, è vellutata dal brusio del mare. Ahimè, non si tratta delle acque dove abbiamo fatto splash la scorsa estate.

Allora canto, perchè non so scrivere: “L’estate sta finendo e un anno se ne va, sto diventando grande, lo sai che non mi va”.

Selfie da Mosca: Roman e i sogni di due generazioni lontane

Rosario PipoloUn autoscatto sul confine dell’anello di Mosca, lontano dal tam tam dei turisti e dei loro discorsi da “macchinetta del caffè”: ci siamo io e Roman, moscovita, classe 1987. Due generazioni diverse, lontane geograficamente e divise da quella cortina di ferro che andava ben oltre l’ideologia. Quando Roman piagnucolava nella culla, io ero trai banchi del liceo a chiedermi che cosa ne sarebbe stato di noi se fosse caduto il Muro di Berlino.

In quegli anni Mosca era così lontana per me da farmi credere che i monti Urali fossero le colonne d’Ercole del XX secolo. Roman era troppo piccolo per ricordare quel 25 dicembre del ’91: fu la fine della Perestrojka, il Cremlino perse l’inquilino sognatore e illuminato Michail Gorbacev e la Russia acclamò il populista Yeltsin.

Roman è un ragazzo sveglio, un gran lavoratore. Dopo aver viaggiato e vissuto anche nel Nord Europa, ha deciso di ritornare nella sua Mosca, perché ha voglia di vivere nel suo Paese. Dalla gestione di un lavaggio d’auto è passato a quella di un ostello, dove si sforza di far sentire tutti a proprio agio.
Impiega poco a capire che non ho niente a che fare con gli italiani in viaggio qui per allacciare relazioni sentimentali con le ragazze russe.: “Non ho mai visto un divoratore di città come te con questa voglia matta di mescolarsi alla comunità locale”.

Io e Roman ci ritroviamo in piena notte sotto le stelle dell’area periferica di Tishinsky. Io, stanco morto dopo le mie scorribande nella capitale russa, e lui, sul ciglio della porta con la birra, condividiamo ritagli di vita vissuta. Roman ride a crepapelle quando gli racconto che, nella mia Italia degli anni ’50, i preti diffondevano la notizia che “i comunisti in Russia mangiavamo i bambini”. Su un punto io e Roman concordiamo: i “luoghi” non li fanno “i governanti” ma le “persone” che ci vivono.

Roman rappresenta la nuova gioventù russa che ha voglia di rimboccarsi le maniche, di costruire un futuro diverso, duellando contro quella corruzione che insidia il sistema. Un giorno chissà i nostri figli si incontreranno sulla piazza Rossa a Mosca, culla di una memoria storica di cui non si può far finta di niente, senza sentirsi così distanti. Toccherà a loro liberarci dall’odioso pregiudizio che ha impedito alla mia generazione di far famiglia con quella dell’Est Europa? Il nostro selfie è di buon auspicio.

Selfie e privacy in spiaggia: il Garante ha visto mai gli italiani sotto l’ombrellone?

Rosario PipoloApprezziamo lo sforzo del Garante della Privacy per la pubblicazione delle “buone regole in spiaggia a difesa della nostra sfera privata“, ma con le pinne, fucile ed occhiali ci viene un dubbio: ci siamo mai guardati noi italiani sotto l’ombrellone? Con questa smania vanitosa dei social network sarà davvero dura metterci a regime in materia di discrezione o riservatezza.
Figuriamoci se rinunceremo mai al selfie di turno per far vedere a tutti la nostra meta vacanziera. Basta buttare gli occhi nei feed di Facebook per catturare il trash di questa  ingordigia nazional popolare, di cui le maggiori vittime sono i bambini. E se nel nostro selfie finirà il vicino d’ombrellone, per giunta “incazzoso”, il povero Garante si troverà sulla scrivania una pila di lettere di protesta.

Correremo volentieri il pericolo di trovarci  i ladri in casa, pur di non rinunciare al check-in che  compone la lista di ristoranti e locali “fighi” che frequentiamo. L’epidemia del food è così contagiosa che prima o poi dovrà toccare pure a noi finire su Real-Time? Questa è la massima aspirazione delle vecchie massaie del Belpaese in bianco e nero, oggi trasformate dalla globalizzazioni in nevrotiche donne bioniche.
Alcuni hanno la sveltezza di geocalizzarsi persino alla toilette o nella location creata ad hoc su facebook “A casa mia”. La sfiga ci mette del suo e, a furia di scroccare Wi-Fi da un lido ad un altro,  beccheremo pure il virus nello smartphone che ci farà sentire sconnessi dal mondo. Se non abbiamo fatto il backup dei dati prima di partire, possiamo dire addio ad una buona parte della nostra vita, destinata ormai a finire spiaccicata sull’isolotto dell’icloud.

Morale della favola sotto l’ombrellone: il Garante ci suggerisce di “gestire le nuove tecnlogie con cautela”, soprattutto di non essere sbadati a lasciare password e accessi a destra e sinistra. Ah, ecco dimenticavo. Mia moglie, incallita spendacciona in questi giorni di saldi, me lo aveva detto che in fondo il pin del mio bancomat è più al sicuro se lo impara a memoria lei. Perché memorizzarlo su uno smartphone?

Tempo scaduto e non perché sia finito il numero di battute a mia disposizione. Devo andare a fare il selfie di questa mia giornata vacanziera, altrimenti poi dicono che sono poco “social”. Lo dite voi al Garante?