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Cartolina da Johannesburg: ho paura degli orrori dell’Apartheid

Dicono che gli italiani si limitino ad uno stopover a Johannesburg, quella che passa per la città più pericolosa del Sudafrica, per poi dirigersi nel Parco Nazionale del Kruger. In realtà a Joburg – questo il nomignolo dato alla città più grande del Sudafrica – c’è poco da scherzare in centro quando la luce affonda nel buio della sera.

I turisti e gli ospiti li sloggiano nei quartieri residenziali per dare loro la solita minestra riscaldata condita dallo “stiamo tutti bene”. I viaggiatori come me, fuori dal gregge, restano in centro perché è qui che si concentrano le ferite da leccare dell’Apartheid.

Le gang attaccabrighe, che si aggirano sulla De Kort street dopo il tramonto, trovano qualsiasi scusa per coinvolgerti in una rissa. C’è ancora tanta rabbia verso chi ha la pelle bianca, anche se alcuni dei residenti di Johannesburg mettono il dito sul fuoco perché ai criminali non interessa il colore della pelle, ti pisciano proiettili in faccia comunque anche per una manciata di grana addosso.

Il mio viaggio a Joburg inizia all’alba su Constitution Hill, il luogo simbolo degli orrori dell’Apartheid chiusi con il lucchetto nella prigione in cui fu detenuto Nelson Mandela. Roy che lavora in questo complesso mi racconta di quando da piccolo sentiva parlare dell’attivista dei diritti dei neri, destinato a diventare il primo Presidente del Sudafrica “libero”.
La censura governativa non faceva circolare alcuna foto. Il viaggio nell’ex prigione è emozionante, la mano di ferro dell’Apartheid discriminava i detenuti per il colore della pelle, rendendo a Mandela e compagni la vita un inferno.

Poi si vagabonda a Joburg tra le strade del centro per ricostruire le tappe del colonialismo olandese e inglese che sfregiò il volto di questo Paese del continente nero. Il Museo dell’Apartheid raccoglie memorie e ce le sputa in faccia, lasciando l’ennesimo rimorso di non aver fatto abbastanza e non averlo compiuto nel tempo giusto.

Il tramonto si scioglie come la sera su Joburg. Io ho paura degli orrori dell’Apartheid e dei governi criminali che ne sono stati complici.

Sudafrica on the road: anche gli elefanti hanno un’anima

Una mattina avevo tracorso più di un’ora con l’elefantessa Thandi. Il Santuario degli elefanti nell’Eastern Cape è stata una tappa importante per imparare qualcosa sul loro piccolo grande mondo, prima di vivere l’emozione di un’intera mattinata nell’Addo Park in Sudafrica.

Non essere africano significa aver vissuto i traumi dello zoo e del circo. Sì, oggi dico “trauma” perché, finché non li osservi nei loro habitat naturale, non puoi capire cosa hanno dentro. Non è questione di essere animalista sfegatato o non,  è questione di prendere coscienza della loro anima.

Ti segna osservare da vicino una ciurma di elefanti passeggiare, raccogliere nella lentezza dei loro movimenti il senso della vita, oltre la buffa proboscite che ci aveva conquistato guardando Dumbo della Disney negli anni della nostra infanzia.
Quando di sbieco vedi l’elefantino inciampare e non riuscire a rialzarsi, sei abbagliato dalla bellezza suprema della maternità. Resta una delle sequenze più emozionanti di questo mio on the road sulla Garden Route la cucitura di istanti in cui  mamma Elefante fa di tutto per aiutare il suo cucciolo.

Thandi e il suo piccolo grande mondo di elefanti hanno ancora tanto da insegnare a noi uomini assuefatti dalla ferocia. Ci sono gesti, come quello di una mamma che fa rialzare il proprio figlio, che non sono rimasugli degli animali addomesticati di un circo.

In quella parte del Sudafrica ho ascoltato la voce di una natura così armoniosa e di Dio capace di aver fatto dell’amore l’unico senso alla nostra vita.

 

E ricorda… un elefante non dimentica niente. (R. Kipling)

Sudafrica on the road: noi un pezzo di mondo in un van sulla Garden Route

Ci avevano piazzato in un van senza sapere quali fossero i nostri punti di contatto. L’unica cosa che sapevamo erano le nostre provenienze: Italia, Inghilterra, Olanda, Stati Uniti, Nuova Zelanda e Sudafrica. Quando percorri in lungo e largo la Garden Route, fioriera sudafricana tra Western e Eastern Cape, ti immergi dietro un sipario della natura.

Tra una remata e l’altra in quella canoa lungo uno dei fiumi del Garden Route National Park avevo trovato briciole della storia personale di Gareth, la nostra guida,  infanzia e adolescenza a Port Elizabeth, nonna scozzese, una nuova vita a Città del Capo.
La natura ti fa ritrovare i tuoi simili, perché durante una lunga scarpinata, incantato di fronte a un panorama, ascoltando la voce fragorosa dell’oceano puoi riconoscere chi affronta la quotidianità con quel pizzico di strafottenza e legarti inevitabilmente a lui.

Quei duemila chilometri on the road assieme a  Gareth, Sue, Eddy, Hanne, Bodhi, Lana e Sarah, mi avevano restituito il clima di condivisione tipico dei tempi in cui vai via da casa e ti barcameni in uno stile di vita autonomo.
La casa di Mark a Sedgefield era diventata, nel giro di qualche giorno, il punto di partenza e ritorno dalle nostre scorribande. Mark, nato e cresciuto a Johannesburg, era un perfetto padrone di casa: ospitale, accogliente, capace di preparare ghiottonerie con pochi giochi di prestigio ai fornelli.

Era la sera, dopo cena, sotto le stelle del Western Cape che ci aprivamo sorseggiando un bicchiere di vino, eravamo così lontani geograficamente ma vicini nel nostro modo di essere, frantumando le pareti che, a differenza di tanti, non ci hanno mai sottratti all’essenza di crescere come autentci esploratori della libertà.

Ci sentimmo un pezzetto di mondo, dentro e fuori quel van, guardando diritto negli occhi il crepuscolo oceanico di Jeffreys Bay, sperando che tutto questo non finisse mai. L’ingrata consapevolezza da quarantenne che non avrei rivisto più Gareth, Sue, Eddy, Hanne, Bodhi, Lana e Sarah fece improvviso spazio alla lucida speranza del instancabile viaggiatore: non li avrei dimenticati mai più.

 

Le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone. (J. Steinbeck)

 

Sudafrica on the road: African Cream Music, la mia colonna sonora sulle orme della libertà

Quando Alex Agulnik fondò l’etichetta discografica indipendente African Cream Music, era consapevole che la musica restava una scorciatoia per arrivare diritti al cuore della storia di un Paese. Negli oltre 3 mila chilometri on the road in Sudafrica alcuni album fondamentali pubblicati dalla label con sede a Johannesburg hanno fatto da colonna sonora al mio viaggio.

Il sorriso di Nelson Mandela che illumina la copertina del doppio cd The Winds of Change altro non è che l’apripista di un viaggio musicale nel viaggio. Questa è la mia compilation preferita perché, grazie ad una selezione certosina, ci sono le tappe dei cambiamenti del Sufadrica che marciò verso la libertà, schiacciando il letame della politica che aveva alimentato l’Apartheid: Windows of Change di MacMillann, Asimbonanga di Johnny Clegg, Papa Stop the War di Chicco o Power of Africa di Chaka Chaka sono gemme che cospargono di letteratura le sonorità sudafricane.

Non posso che associare il mio vagabondaggio sudafricano a queste canzoni, ai loro vezzi letterari, a quella loro forza di essere cartoline da spedire senza francobollo con gli slogan che cicatrizzano le ferite di una terra: Freedom Songs, Voice from Mother Africa o Songs and Stories of Africa sono compilation che mettono a tacere il silenzio e l’omertà che hanno aperto buchi e trasfori nelle nostre coscienze.

Attraversando la provincia del Mpumalanga che mi porta tra le braccia del Parco Nazionale del Kruger, l’ascolto dell’album Singabantu di Skipper Shabalala mi ricorda che gli immigrati di altri stati confinanti hanno dato una nuova linfa alle sonorità sudafricane, che spesso sfuggono agli odiosi turisti distratti e attratti dai luoghi comuni.

 

Non importa se sei ricco o povero, dobbiamo essere uniti per essere una nazione compatta. Siamo tutti essere umani. (Skipper Shabalala)

Sudafrica on the road: testimonianze ritrovate nella piccola libreria di Chris Steyn ad Hermanus

Ad Hermanus, scorazzando on the road nel Western Cape del Sudafrica, c’è il tempo per godersi l’oceano e il panorama frastagliato, mangiare un buon hamburger di carne locale con il vento tra i capelli. Mi sposto fuori dal perimetro turistico, passeggio, mi guardo intorno, la gente esce dal supermercato con le borse della spesa, faccio il ficcanaso con la reflex, butto l’occhio nella vetrina di The Book Collector.

Ci entro, scorro gli scaffali e vecchi libri di storia locale. La libreria gestita da Chris Steyn sembra una piccola biblioteca, dove sono rintanate le memorie del Sudafrica. Chris mi fa da guida, intuisce che il mio viaggio in Sudafrica ha come scopo quello di mettere le mani nel fango dell’Apartheid: c’è un meraviglioso libro dedicato al District Six di Città del Capo, un diario illustrato degli anni ’60 che ne racconta la quotidianità.

Da uno scaffale in fondo alla libreria escono fuori dei mini dossier stampati nell’Inghilterra dei primi anni ’80 che testimoniano quanto le lobby politiche degli ex-colonialisti abbiamo alimentato l’infame sistema, castigo per i neri africani.

Dopo aver pagato il conto, Chris mi regala il libro Published and be Damned: Two Decades of Scandals di cui è l’autrice. Scopro così che la proprietaria di The Book Collector è una giornalista, che ha firmato tante inchieste sui quotidiani sudafricani a cavallo tra gli anni ’80 e  ’90.

La mia instancabile andatura da giornalista viaggiatore mi ha condotto, senza saperlo, verso una collega con cui, pur avendo avuto approcci lavorativi diversi, continuiamo a spartirci la passione per un mestiere che, in qualsiasi angolo del pianeta, non deve mai perdere la ricerca della verità.

 

Non conosci niente, ragazzina. Niente. Dovevi pur cominciare a fare questo mestiere… (Johnny Johnson, direttore del quotidiano The Citizen)

Sudafrica on the road: il mio Freedom Day con il pinguino Madiba

La mattina del 27 aprile Città del Capo è deserta. E’ festa nazionale, è il Freedom Day, la ricorrenza che celebra le prime elezioni democratiche tenute in Sudafrica negli anni post-apartheid. In tanti fanno di questa giornata il pretesto per un gita fuori porta.
Tento invano di raggiungere Simon’s Town, sulla penisola del Capo, con un treno locale, ma è inutile. Si accumulano ritardi in partenza e lo sciopero generale del trasporto pubblico di questi giorni continua a destabilizzare gli spostamenti.

Mi muovo con un taxi, le nuvole rincorrono sprazzi di sole, a prima mattina le strade sono vuote. A Kalk Bay c’è un fish & chips sul porticciolo e si sente già quell’odore di pesce fritto che vorresti evitare a prima mattina.
La signora all’entrata mi fa cenno che sono ancora chiusi e per pranzo mi consiglia di prenotare perchè i tavoli si riempiranno. La ringrazio, sono solo di passaggio, la mia meta è Boulder’s Beach per trascorrere questo giorno solenne con i pinguini africani.

Ci arrivo quando la spiaggia è deserta ancora, lontano dai flash indiscreti dei turisti ammassati, ci siamo solo io e loro. Osservare i pinguini a Boulder’s nella loro quotidianità è uno spettacolo senza precedenti, ti riappropri dello scorrere della vita fatta di piccole attenzioni, della fedeltà che ogni pinguino ha per la sua compagna, di quella camminata buffa, di quella eleganza impettita e mi ricorda nonna Lucia la prima volta che mi vide in smoking per il Festival del Cinema di Venezia: “Sembri proprio un pinguino”.

Appena arrivano i primi turisti, mi sposto su una spiaggetta poco distante da lì. Non c’è nessuno. In riva all’oceano un bmbo che gioca con la madre. Mi sento picchiettare al ginocchio. E’ un pinguino e a pochi passi da lui c’è la compagna. Non posso crederci, quando mi ricapiterà mai un’occasione del genere? Mi presento, gli parlo e lo battezzo Madiba, come Nelson Mandela, perché si è staccato dalla ciurma dei suoi compagni di avventura ed è venuto impavido verso di me.

Madiba il pinguino mi ha ricordato che staccarsi dal gruppo per irrobustire il senso di libertà del singolo è il primo passo per conquistare la libertà collettiva. Chi mi crederà mai che ho condiviso il mio primo Freedom Day in Sudafrica con un pinguino?  Mi metto in posa, il piccolo Madiba segue la mia andatura, siamo entrambi pronti per uno dei selfie più emozionanti dei miei viaggi in giro per il mondo.

Il pinguino picchia di nuovo sotto il mio ginocchio, prende per mano la sua compagna e scompare tra i cespugli. Resto a guardare l’oceano e mi torna in mente una dichiarazione di Nelson Mandela:

Il compito più difficile nella vita è quello di cambiare sé stessi.

Il Sudafrica ha restituito anche a me il Freedom Day.

Sudafrica on the road: Cartolina da Città del Capo

Non sono arrivato in Sudafrica dopo aver visto foto paesaggistiche su un catalogo turistico o per assecondare mode o tendenze di viaggio popolate da decine e decine di selfie che ammiccano ad organizzare la prossima vacanza qui. La mia prima volta in Africa sarebbe stata qui, in Sudafrica: lo promisi a me stesso sui banchi delle scuole medie quando mi vomitarono addosso il dramma dell’apartheid.

Mi sembra di essere tornato a New Orleans prima dello sfacelo dell’uragano Kathrina. Così mi appare a prima mattina Città del Capo, dopo 10 mila chilometri in volo sul continente africano.  Scivolo su Long Street fino al Waterfront, dove sono ormeggiate le barche.

Cape Town sembra una scorza di terra afro-americana e in quell’imbuto protettivo capeggiato dalla Table Mountain, una delle sette bellezze naturalistiche del mondo, è rinchiuso il piccolo mondo antico del colonialismo europeo. Di inglesi e olandesi ce ne sono a quantità industriale, la memoria evapora e le nuove generazioni venute a godersi la perla sudafricana forse neanche sanno degli orrori dei loro antenati.

A Greenmarket square converso con gli ambulanti dell’atmosfera del mercato, che mi riporta a quello della Duchesca della mia Napoli. Lungo il viale del parco che costeggia il Parlamento mi soffermo ad ascoltare i musicisti da strada e quelle incursioni jazzate che vorrebbero fare di Città del Capo la New Orleans musicale africana.

Il meteo è decisamente dalla mia parte, perché se arrivano i nuvoloni bastardi la Table Mountain te la sei giocata. Salgo in cima in cabinovia, vagabondo da un punto all’altro di questa zolla di parco nazionale. Il panorama è davvero mozzafiato. Da lì intravedo già le spiagge di Camps Bay che fanno di Cape Town l’amaca sull’oceano su cui chiunque vorrebbe crogiolarsi. Butto via le scarpe, al mio fianco c’è una famiglia di colore sudafricana che si gode le onde dell’oceano. Metto i piedi nell’acqua, è ghiacciata, faccio amicizia con i ragazzi: “Veniamo in spiaggia quando possiamo. Ci piacerebbe restare a dormire in una di queste belle case. Roba da ricchi, non certo per noi”.

Il luogo simbolo della Cape Town nera non è di certo Camps Bay, piuttosto il District Six da dove nel ’66 cominciò la deportazione forzata di tutta la gente di colore. Vi giro in lungo e largo per racimolare testimonianze come quella di queste ragazze del quartiere nel selfie con me, i cui genitori appartengono alla generazione che ha vissuto quei giorni drammatici.
La nascita di bar e locali deturpa la memoria  in contrasto con ciò che resta dell’archivio dell’Apartheid: il piccolo District Six Museum nella vecchia chiesa metodista del quartiere.

Il mio primo tramonto in Sudafrica è tra le vecchie case del District Six e il mio viaggio dedicato alla memoria di Nelson e Winnie Mandela parte proprio da questo pezzo di spugna di Città del Capo, che ha assorbito litri e litri di lacrime.

 

Per gli uomini, la libertà nella propria terra è l’apice delle proprie aspirazioni.

(Nelson Mandela)

Castelvolturno, l’ultimo canto di Miriam Makeba

makeba-miriam-150Ho trascorso a Castelvolturno le prime due vacanze della mia vita. Nonostante avessi 2 anni, ho ancora qualche sprazzo di quelle estati. Nei primi anni Settanta il nome di questa località balneare della provincia di Caserta era meta vancanziera per una parte delle famiglie napoletane. I tempi cambiano e oggi Castelvolturno finisce sempre sulle prime pagine dei giornali come una roccaforte di malavita e criminalità. Dall’altra parte, Miriam Makeba, una delle voci più intense del jazz e della world music, è tra i  miei rimpianti: non la ho intervistata né ascoltata dal vivo. La adoro da sempre per l’impegno tenace contro l’Apartheid in Sudafrica. Una parola che mi fa ancora rabbrividere così come me la spiegò la mia professoressa Rosalba alle Medie. Vallo a spiegare a un tredicenne che anche dinanzi al pericolo di morte i bianchi sono da una parte e i neri dall’altra! Mama Africa è morta a Castelvolturno  per un arreasto cardiaco, dove era venuta per un concerto di solidarietà per lo scrittore di “Gomorra” Roberto Saviano, minacciato dalla camorra. Non è mai casuale che musica, impegno sociale, denucia e il desiderio legittimo di avere un territorio nuovo si incontrino in un misto di rabbia e coraggio. Il Sudafrica e il Sud Italia non sono mai state così vicine per una guerriglia sociale, trait d’union simbolico tra Johannesburg e Castelvolturno. L’ultima volta “Cristo si è fermato ad Eboli”, ma l’ultimo canto di Miriam Makeba si è smorzato in una terra che vuole riavere indietro la sua dignità. Speriamo che gli ultimi passi di Mama Africa non si fermino qui.