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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

La penna di un blogger attraverso il 2012

Rosario PipoloI Maya non ci hanno azzeccato e, aspettando un altro pronostico per la #finedelmondo, eccomi a ripensare a questo 2012. Un anno fatto di tanti piccoli viaggi, per la maggior parte condivisi, a caccia di storie nascoste, che sono poi quelle che restituiscono il significato ad ogni minimo spostamento: dallo sguardo di Carolina a Sabbioneta al viaggio in autobus sotto un sole cocente per abbattere i pregiudizi; da Shalom Gianna in riva al mare alle goloserie marchigiane di Marco e Manuela; dal matrimonio lowcost a Viareggio al ritorno alla Mostra del Cinema di Venezia e al Moulin Rouge di Parigi dopo una valanga di anni.

L’apertura del 2012 assieme al “bambino senza famiglia”; il dolore per la perdita dell’ultimo disegnatore della Napoli da strada e lo smarrimento della piccola senza “papà suo”; le cinquanta candeline di una prof. del Sud Italia; il ricordo della notte “magica” prima degli esami di maturità.

E’ finita tra le mie mani la lettera commovente di un bambino dal futuro al suo papà; la polaroid di un giudice martire, l’ultima favola in una fabbrica di Pomigliano d’Arco per rispettare chi un lavoro lo ha perso e si sente “perso” nel vuoto. Qualche ritaglio di cronaca ci sta bene: la fine dei pesci lessi, quelli del Carroccio; il sangue versato dai lavoratori terremotati dell’Emlia; l’addio a Carlo Maria Martini e Lucio Dalla; l’offesa ai napoletani da parte di Roberto Bolle e del giornalista piemontese del tg3.

Una gran bella storia d’amore non finisce mai? Ho scritto così, prolungando il filo dell’amore oltre il varco dell’eternità nel racconto d’estate L’ultimo angelo in volo su Istanbul. E a proposito di svolta lavorativa, sono finito per una sera nello staff di California Bakery a Milano e se ne sono viste di tutti i colori.

E, infine, ancora una volta i social network sono stati protagonisti di questo 2012 con Facebook in testa, terreno fertile delle amicizie quaquaraquà. Prima o poi tocca scegliere da che parte stare, nella buona o cattiva sorte.

E’ già finito il 2012? Non me ne sono accorto. Sono tornato alla carta con una follia dell’ultimo minuto. Ho pubblicato il mio primo romanzo e brindo assieme ai miei lettori e ai personaggi di “L’ultima neve alla masseria”. Felicità a tutti.

Cartolina da Seyne-sur-Mer: Michel è partito senza il bicchiere di Pastis

Ricordo un sabato mattina d’estate, al mercato. Il brusio delle persone, lo schiamazzo dei bambini, i venditori ambulanti che gridavano “Bon prix, bon prix!”. Sembrava di essere a casa, nel mio Sud. Invece ero in Francia, a la Seyne-sur Mer, un paesotto avvinghiato tra Provenza e Costa Azzurra. Gente semplice, alla buona, tanti emigranti sbarcati dal Sud dell’Italia.
Passai davanti a una brasserie. Mi chiamavano. Erano Michel e Vincenzo, i miei zii. Il primo un emigrante italiano; il secondo un francese di quelle parti. Si conobbero negli anni sessanta, diventarono cognati e anche due buoni amici.

Mi offrirono da bere. Mancava ancora un bel pezzo all’ora di pranzo e mi fecero ubriacare con il Pastis, l’irrinunciabile aperitivo alcolico dal profumo d’anice che scioglie Marsiglia e le sue strade sotto il giaccone di un bicchiere. L’anice del Pastis si confondeva con l’odore del pesce fritto venduto in strada e con la salsedine accantonata dal porticciolo poco distante. Michel era un tipo alla buona, alla mano: il suo francese aveva l’inflessione marsigliese; il suo sorriso quello di uomo del Sud che si accontentava di cose semplici.

Michel e Vincenzo mi raccontarono di quando se ne andavano in campagna, laggiù nel cuore della Provenza, a fiondarsi sotto un albero, a bere vino. Condividevano i colori del loro Sud, quello che Nino Ferrer dipinse nella sua splendida canzone.
Michel se n’è andato ed ha lasciato mezzo vuoto il suo bicchiere di Pastis. L’altra parte del bicchiere la riempio io, allungandola con il ricordo di un sabato d’estate in cui, assieme a zio Michel, francesizzai la mia anima meridionale.

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Racconto d’estate: L’ultimo angelo in volo su Istanbul

La nave sbarcò con un quarto d’ora d’anticipo e la donna, puntando il dito sulle cupole che sovrastavano Istanbul, spiegò alla bimba: “Io e papà siamo venuti qui in viaggio di nozze l’ultima volta”. Non fecero neanche in tempo a farsi travolgere dai frastuoni di prima mattina, che un taxi le balzò a fianco. “Dove vi porto?”, urlò dal finestrino un turco sulla quarantina. La donna afferrò la bambina per mano e saltò nell’auto. Diede all’uomo un foglio di carta scarabocchiato con un itinerario, indicandogli di rispettare il percorso.
Mentre l’auto solcava Istanbul, la bimba aveva gli occhi sgranati: il fasto delle moschee, l’eleganza di Santa Sofia, le bancarelle del Gran Bazar che accostava a quel del mercato sotto casa sua, i bistrot sparsi a Beyoglu. Il tassista incrociò gli occhi della piccola attraverso lo specchietto retrovisore ed esclamò: “Sei uguale al professore napoletano!”. La donna saltò dal sediolino e replicò: “No ci credo. Kadir, ma sei proprio tu?”.

Era lo stesso tassista che alcuni anni prima l’aveva portata a scoprire la città turca assieme al suo sposo. E poi solo Kadir lo aveva battezzato “il professore”. Sosteneva che conoscesse Istanbul meglio di lui che c’era nato. La donna gli spiegò perché il marito non fosse con lei, perché si era ostinata a fare quel viaggio, il dolore che aveva avvolto la sua vita a causa di quella perdita. L’uomo raccontò di avere ancora da qualche parte il disegno che il professore napoletano gli aveva regalato: raffigurava un famoso attore napoletano, protagonista di un divertente film dal titolo “Un turco napoletano”.

Questa nube di aneddoti e ricordi fu spazzata via da un uomo che bloccò l’auto: “Mi scusi. Mi fa salire, vado di fretta?”. Kadir gli fece segno di no perché il taxi era già occupato. La donna intervenne: “Fallo salire pure, tanto ormai il nostro tempo a disposizione sta per terminare. La nave riparte alle quattro e mezzo in punto”. Lo sconosciuto restò in silenzio per tutto il tragitto. Aveva un cappello che gli copriva il capo. Con la coda dell’occhio notò che la bambina osservava le sue spalle, erano identiche a quelle su cui si arrampicava quando giocava con il papà.

Arrivarono al porto. Kadir scese dall’auto, abbracciò la donna e la piccola, donando loro un piccolo portafortuna. La donna e la figlioletta si recarono verso la nave. Il tassista si voltò verso l’uomo, chiedendo: “Dove la porto?”. E lui rispose: “Sono arrivato a destinazione”. L’uomo tirò fuori un disegno e lo mostrò al tassista: “Kadir, era questo il disegno di cui parlavi prima in auto? Che sbadato sei, lo avevi perso durante l’ultimo trasloco”. Il tassista con le lacrime agli occhi lo riconobbe ed esclamò: “Professore!”. E lui concluse: “Non tremare, Kadir. I morti non fanno paura, i vivi sì. Quando ero piccolo mio nonno mi disse che quando saremmo andati all’altro mondo, il Signore ci avrebbe concesso un ultimo viaggio qui. Prima del trapasso mi sono ricordato di questa diceria popolare, e ho scelto Istanbul per rivedere la donna che amo e mia figlia. Ho sperato fino alla fine che non annullasse il viaggio. Lei è una testarda, sapevo che sarebbe venuta perché era il mio ultimo desiderio”. Kadir, incantato a guardare il disegno, non si accorse che l’uomo scomparve nel nulla. Lo distolse il fischio della nave che stava salpando e un arcobaleno che avvolse tutta Istanbul, unendo la parte asiatica a quella europea. Dalla nave la bimba disse alla mamma: “Mamma, mamma, mamma. Guarda l’arcobaleno. Ha gli stessi colori che usava papà per dipingere i suoi quadri”.

Tutto questo accadde ad Istanbul l’ultimo mercoledì di giugno. E da quella volta si dice che chiunque voglia ritrovare un amore, debba girare in tassì, in questo giorno, attraverso la città turca.  Più che una leggenda, è una speranza. Quella fu l’ultima volta che qualcuno vide un angelo volare su Istanbul.

Trucchi per una vita “sottocosto”, senza rinunce nei giorni di crisi

La crisi ci divora e io mi ingegno. Internet mi offre qualche opportunità in più per trasformare la vita in stile “sottocosto”, senza fare troppe rinunce. Mi munisco all’ufficio postale di una carta prepagata PostePay e cambio le abitudini.

Inizio dal taglio delle inutili spese bancarie e apro il conto corrente su Webank: zero canone e zero spese di gestione. Se dell’auto non ne posso fare proprio a meno (c’è sempre il noleggio low cost), stipulo un’assicurazione on line: Zurich Connect è tra le più convenienti (RC+I/F, 12 classe, €35 al mese in Lombardia). Se non voglio ritrovarmi con la moglie o una fidanzata incazzata, non la privo dello shopping: Yoox e Buy Vip (sconti fino al 70% sulle migliori marche) fanno per lei, senza l’assillo dell’attesa dei saldi. Mi registro e mi iscrivo  alla newsletter per essere sempre aggiornato. E la taglia? Assurdo acquistare un maglione o un paio di scarpe senza provarli. No problem: cerco l’articolo in un negozio, mi faccio amica la commessa, lo provo e poi all’uscita ci piazzo una scusa bella e buona: “Ops, ho dimenticato il Bancomat a casa”.

Col taglio e l’aumento spropositato dei trasporti pubblici, meglio andare a lavoro pedalando. Tolgo dal budget i 300 euro annui per la palestra e investo 100 euro per un bella bicicletta: divento sportivo ed ecologico allo stesso tempo. Se fossi un neo papà e il mio bebé mi costasse un occhio della testa, mi affiderei a blog specializzati come Blogmamma.it o farei acquisti su siti come Newbabyberry, BabylunaNewbabyland e Bimbomarket. Per quanto riguarda la spesa al supermercato, su Risparmiosuper trovo quello più economico a pochi passi da casa. Per musica e film a prezzi stracciati ci pensa Amazon UK, mentre per tutto il resto c’è Groupon: vado al ristorante o in locale con il 50-60% di sconto, acquistando on line il coupon più adatto. Le offerte sono a tempo limitato, quindi mi sbrigo (in alternativa su Milano c’è Colpogrosso con offerte di qualità e più mirate).

I viaggi e le vacanze le programmo dai 4 ai 6 mesi d’anticipo: mi iscrivo alle newsletter di Ryanair e Easyjet per voli a basso costo e tengo d’occhio Hostelbookers, con un’ampia offerta di ostelli e alberghi. Abolisco il telefono di casa, mi munisco di un Netbook e utilizzo il nuovo Indoona di Tiscali. Per il cellulare, scelgo una prepagata 3 Italia con la tariffa più conveniente così se carico almeno 10 euro al mese vado al cinema gratis con Grande Cinema 3. Può bastare?

 Marco Mengoli, Una vita low cost, Il ciliegio 2011

 La ballata dei precari, film indipendente

 Una vita low cost – Il Blog

On the road: Cartolina dal Neder Cafè di Castel Goffredo

Malati di esterofilia, continuiamo a scimmiottare i locali delle grandi metropoli europee, dimenticando un posto che caratterizza la nostra italianità: il bar, come punto di ritrovo e socialità. Non quello nella piazza al centro del paese, ma quello fuori mano, isolato, che incontri per caso nel bel mezzo delle tue peregrinazioni on the road. Lungo un fiumiciattolo, poco distante dal Mincio, senti il richiamo delle anatre. Quelle simpatiche e giocose canaglie d’acqua dolce che ormai si vedono nei vecchi film western con John Wayne e in qualche fumetto.
A Castel Goffredo, all’inizio del mantovano, le chiamano Neder. Per questo il Neder Cafè, il grazioso bar gestito da Emanuela Redini, le omaggia e fa in modo che in qualsiasi punto ti metta le senti borbottare. Dopo che Orlando, un calabrese travestito da mantovano, ti ha preparato i piatti tipici del posto, ti fermi lì per quattro chiacchiere. C’è il Volpi, che ti racconta della sua infanzia a Sabbioneta e dei piccoli passi che poi sono quelli che rendono grande la quotidianità; c’è la duchessa, di professione insegnante, che ti mette di buon umore con la sua solarità; c’è il gruppo di bevitori habitué che hanno sconsacrato lo Spritz, trasformandolo in Sprotz. Basta invertire il vino bianco con quello rosso e la magia è fatta: il drink si ostina ad essere più rustico e campagnolo. Non ci vuole poi tanto a fermare il tempo: buona compagnia nel posto giusto.
Dopo un paio di Sprotz, è legittimo dimenticare il telefono e vivere un giorno senza l’assillo dei trilli. Tanto a rispondere ci pensano Emanuela e lo staff del Neder Cafè. Questo mi riporta ai tempi in cui mio padre, in un paesotto di provincia del Sud Italia, andava a ricevere le telefonate in un baretto al centro del paese. Tutto torna, prima o poi. Più che lo smartphone, avrei preferito io restare in “ostaggio” in quel posto, ad osservare Emanuela che preparava stucchizzini, Matteo che mi parlava di Fabio Testi e il Volpi avvolto dai racconti di gioventù.  Sarebbe stato l’ennesimo escamotage per mantenere inalterato il gusto della vita.

 Castel Goffredo on line

  Aperol Spritz

 Turismo nel mantovano

Diario on the road: Girotondo intorno al Lago Maggiore

Ogni lago ha il suo carattere: quello di Garda è esibizionista e nottambulo; quello di Como è chic e fricchettone e il Maggiore, com’è? Sì, proprio il lago che abbraccia Piemonte, Lombardia e Svizzera, usato dalle nostre maestre come tranello alle interrogazioni di geografia. Noi ci cascavamo puntualmente, perché pensavamo che fosse il più esteso d’Italia.
Il Lago Maggiore è discreto e riservato fino a Verbania, proprio come i piemontesi, ma poi tira fuori tutto il suo carattere e una bellezza inaspettata che lascia senza fiato. Ho fatto un girotondo in auto di 186 chilometri , costeggiandolo tutto. Una fermata ogni manciata di passi per dialogare con lui, svelare il segreto della sua anima, raccogliere storie. Una passeggiata ad Arona e poi ritagli da cartolina come i due vecchietti di Meina mano nella mano, lo splash dei bimbi a Solcio o il vocio degli stranieri nel centro di Stresa.
Dalla finestra di un edificio in stile liberty mi godo le ultime briciole di un tramonto. Sono su una collina, all’ostello della gioventù di Verbania-Pallanza. Vanessa, piemontese doc, mi accoglie con un sorriso e l’accento partenopeo di Pasquale mi riporta tra le braccia della mia Napoli: “E’ più forte di me. Io non riesco a tuffarmi nell’acqua del lago. Il mare è il mare”, ci tiene a precisare. In camera faccio quattro chiacchiere con PierAlfonso, veronese figlio di siciliani, che ha scelto questo rifugio lacustre per staccare la spina dalle ossessioni della quotidianità. Sul lungolago di Pallanza sgranocchio noccioline a mezzanotte, ascolto jazz con le mie cuffie giganti e un tizio seduto al bar dice al suo vicino: “Il solito matto austriaco in vacanza”. Più che austriaco, direi marocchino, vista la mia abbronzatura in stile “terruncello”! Poi mi perdo in piena notte e ci pensa Andrea a riportarmi indietro in auto: lo chiamano il ventenne dalle “gambe lunghe”. Mi racconta di essere appena tornato da Santiago De Compostela dove si è fatto 800 chilometri a piedi in un mese. Finalmente ho trovato un pazzo come me, con cui magari condividere in futuro una lunga passeggiata, sì ma non proprio così estrema.
L’indomani riparto: mi intrufolo tra le bancarelle del mercato di Intra, tra le salite e discese di Cannero Riviera. A Cannobio mi godo i surfisti tra le onde del lago e mi sembra di essere tornato nella baia di San Francisco. La frontiera è ad un passo: Puff ed eccomi in Svizzera. L’euro ormai è cartastraccia e da Mc Donald’s mi chiedono più di 12 euro per un menu base. A Locarno cazzeggio tra i vicoli della città vecchia e poi a piedi diritto sul lungolago al tramonto. All’ostello Palagiovani incontro Alfio, uno svizzero vero che mi racconta di quei posti, dei suoi avi, di questo Canton Ticino che parla in italiano. Spalmate a volontà di Ovomaltina (la Nutella swiss!) e poi ancora on the road tra i sussurri lacustri a ridosso di Magadino e San Nazzaro. Cosa c’è di meglio se non spaparanzarsi al sole?
Passo la frontiera italiana e nel gabbiotto non c’è nessuno. Ho un dubbio: non è che gli svizzeri si sono comprati all’asta per quattro soldi lo stivale italiano?  Il Lago Maggiore torna lombardo e a Luino mi sembra di essere finito sulla riviera Romagnola, dando a morsi piadina e crescione. Anna e Massimo si sono trasferiti qui dalla Romagna una vita fa, hanno messo su la deliziosa piadineria Divina, che come per magia si trasforma anche in un’allettante gelateria. Li adoro perché hanno una grande qualità: farti sentire a casa in un posto che non ti appartiene! Non restano tanti chilometri al traguardo, ma c’è ancora Porto Valtravaglio, un doppio panino con salamella in riva a lago a Laveno-Mombello, Ispra e Angera, dove un gruppo di anziani mi fa il battimano e mi dice: “Mai un visto un napoletano che gira il lago con tanta passione”. Alle 21.42 sono a Sesto Calende, fermo l’auto sul ponte e mi metto in piedi sul cofano con lo sguardo verso il Maggiore. I passanti pensano che voglia buttarmi di sotto. Ma io di sotto lancio una bottiglietta con questo pensiero scritto a penna: “Ci sono viaggi e viaggi. Caro lago, grazie per essermi stato accanto perchè sai sussurrare la spiritualità tipica dell’acqua salata”.

Veicolo: Fiat Punto 1200 a metano
Carburante: 11 kg di metano (costo: 9€)
Chilometri: 186
Velocità media: 60km/h
Soste: 42
Tempo di percorrenza (incluso pernottamenti): 53 ore
Dettagli: No navigatore; no strade a pedaggio.

Diario di viaggio: Nel sale, nel sole, nel Sud


Rosario PipoloVentiquattro anni fa, in una mattina autunnale, arrivai in un liceo di Pomigliano d’Arco, alla periferia di Napoli.  Provenivo da un’altra scuola e non conoscevo nessuno. Entrai a lezione iniziata. Trovai un posto libero in un banco in terzultima fila, accanto alla finestra. Era un’esercitazione di latino. Il mio compagno di banco provvisorio era occhialuto come me, questo mi consolava. Gli dissi sottovoce: “Dall’altra parte non me l’hanno spiegata questa regola”. Non se lo fece ripetere due volte, sotto voce me la illustrò in un batter baleno. Poi tornò alla sua esercitazione. Gli chiesi: “Come ti chiami? Io sono Rosario”. Lui, per non disturbar gli altri, prese un pezzo di carta e scrisse il suo nome: “Tiziano”.

Quel gesto non lo dimenticai e quel nome, segnato su un pezzetto di carta, me lo sono portato dietro in tutti questi anni, nei miei viaggi, nei miei spostamenti, che mi hanno dato una lezione: i legami con le persone si alimentano nei gesti della condivisione. E quell’atto di solidarietà mi apparve come un bel ritaglio del libro “Cuore”.
Come ha ribadito don Peppino Gambardella, il prete di frontiera che ha digiunato a fianco degli operai della Fiat di Pomigliano d’Arco, “il matrimonio unisce”. Ed io aggiungerei che i viaggi nel Sud hanno il pregio di farci ritrovare.
Al matrimonio di Tiziano e Lorena ho ritrovato la lealtá lasciata su un vecchio banco di scuola, ma anche il ricordo di una giovane professoressa di greco, che a suo tempo aveva nel pancione una bimba, i cui anni hanno scandito una parte importante della mia vita.

Al ritorno dalla cerimonia, in auto, al mio fianco, non c’era più quella bambina con gli occhi da monella che andavo a trovare puntualmente ogni anno, ma una persona adulta, dolce, semplice e sofisticata al tempo stesso. Quel giorno speciale, il matrimonio di Tiziano e Lorena, lo abbiamo condiviso con intensità, con l’entusiasmo che abbatte ogni frontiera per fare nostro l’unico desiderio: circondarsi di persone vere.

I matrimoni uniscono e i viaggi nel Sud ci restituiscono tutto, anche le indicazioni di un nonno che assomigliava al mio, sull’uscio di una porta. E quando mi sono perso nel buio della notte, tra quelle stradine che spalleggiavano il monte Somma, ho trovato in tasca tutto stropicciato il pezzetto di carta che Tiziano mi aveva dato ventiquattro anni prima.  Non c’era più soltanto il suo nome, ma anche quello delle poche persone di cui non potrei mai fare a meno, perchè mi fanno tornare ad essere ciò che sono: nel sale, nel sole, nel Sud.

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Quelle 36 ore assieme a Olga Mautone Blakeley, specchio del mio privato

Nel 2005 la mia avventurosa traversata negli USA mi portò da lei fino a Houston. Quelle 36 ore trascorse assieme a Olga Mautone Blakeley, scomparsa lo scorso 7 giugno all’età di 91 anni, mi convinsero che l’amore può spegnere la solitudine di un’anziana signora. Di fronte a me non c’era più la napoletana che nel ’46 aveva lasciato l’Italia per amore di Karl, un ufficiale dell’aviazione americana; non c’era più la stilista che tra gli anni ’50 e ’60 aveva vestito le famiglie altolocate del Texas, conquistando persino i gusti della First Lady “Bird” Johnson; non c’era più l’italo-americana che aveva vissuto la favola del sogno americano tra vita mondana e festicciole dell’upper-class, nello stesso Texas dagli occhi di ghiaccio che aveva crocifisso in sordina il predicatore John Kennedy.
Ascoltavo una signora ottantenne che vagava nella memoria dell’infanzia, afflitta dall’Alzheimer e con lucidità sorprendente. Era come se improvvisamente a quel ritratto se ne fosse sovrapposto un altro, sotto l’ombrello della senilità: sul viale del tramonto Olga aveva ritrovato Napoli e la sua famiglia attraverso il riscatto dei ricordi, l’unico valore della sua esistenza. Lei raccontava ed io ero lì bivaccato sul suo divano a prendere appunti, come un vecchio cronista ficcanaso che voleva a tutti i costi salvare una pagina volata via dal ‘900: Olga assieme al papà Francesco per via Toledo; Olga che accarezzava la sorella Emilia; Olga che pianse sulle spalle del fratello Pasqualino la morte prematura di donna Margherita, la mamma fragile che disse basta alla vita.
Man mano che stavamo assieme, quel “film muto” acquisiva le tracce delle sonorità e i suoni di quelle voci mi chiarirono tutto. Olga Mautone Blakely era lo specchio del mio privato, era il personaggio che il mio caro amico Pasquale Mautone – in arte mio nonno – aveva ridisegnato sul foglio della mia infanzia tra pony, ranch e cowboy. Laggiù ci saremmo dovuti arrivare assieme e in un certo senso è stato così. Olga mi guardò diritto negli occhi e mi disse: “Sei tutto Pasqualino nello sguardo, nei movimenti, nel sorriso, in quei baffetti sottili. Sulla porta ti avevo scambiato per lui”.
Quando andai via sapevo che non l’avrei rivista più, ma mi resi conto che era iniziata per me una nuova stagione: quella che ha fatto della mia vita un viaggio continuo, dove i legami non si misurano all’ufficio anagrafe, ma nel tempo di condivisione dell’esistenza. Io e Olga Mautone Blakely avevamo condiviso ciò che siamo stati davvero.
Tempo dopo mi è arrivata una lettera da Houston in cui c’era scritto che Olga tutti i pomeriggi all’ora del té guardava la nostra fotografia e sorrideva. Forse si sentiva meno sola, proprio come oggi. Da qualche parte dell’universo avrà rincontrato il fratello maggiore e gli avrà detto: “Pasqualino, portami subito da mamma e papà. Finalmente siamo tornati a stare tutti assieme. Abbiamo troppe cose da raccontarci”.

Diario di Viaggio: assieme al Covent Garden di Meta di Sorrento

Nei miei viaggi c’è sempre una tappa che non capita mai per caso, perchè ritrovo un pezzettino poco invadente della mia memoria. Al Covent Garden Pub a Meta di Sorrento ho rincontrato qualcosa della mia Londra, quella che mi accoglieva con i grandi musical; ho guardato in faccia la penisola sorrentina che mi ha riportato ai miei esordi sulle pagine del quotidiano il Golfo;mi sono convinto che la complicità familiare può rendere un’attività lavorativa meno dura e trasmettere agli altri la voglia di tornare a stare assieme.
Papà Franco, titolare, inforna pizze e sorride, dopo essersi lasciato alle spalle venti anni di lavoro da dipendente. Poi mi nascondo in cucina, come da bambino facevo sotto la gonnella di nonna Lucia, per assaggiare le coccole cucinate da mamma Carmela, che con il supporto della zia Emma, persino tra i dolci ripropone  quelli fatti in casa con le mani d’oro delle nostre madri. C’è chi si diverte al game Dr. Why seguendo le scaramucce simpatiche di Paolo, c’è  chi chiacchiera sorseggiando i cocktail della bartender Benedetta, io invece sono seduto al mio tavolo. Tra un morso e l’altro del mio panino fantasia, mi perdo tra i sogni di Alessandra e Massimo, che combattono tutti i giorni per uscire dall’infame tunnel della precarietà lavorativa e costruire un futuro di vita coniugale. Tra spizzichi e bocconi si inserisce la simpatia di Michela e Valentina, che quando servono ai tavoli sono davvero uno spasso.
Eppure questo clima di unione e famigliarità, allo scoccare della mezzanotte, mi ha fatto pensare: queste persone inconsapevolmente contribuiscono a rendere il nostro Sud migliore, ma soprattutto a far sentire più unito lo stivale italiano. Poi la mega torta per tutti ci ha rammentato con euforia che la nostra Italia ha soffiato le prime 150 candeline. Che fatica spegnerle tutte, ad una una, pensando che ogni fiammella è luminosa quanto chi ha illuminato il sogno di vivere sulla stessa penisola.
Andando via a malincuore dal Covent Garden, mi sono riportato proprio questo entusiasmo testardo di tornare a stare bene con gli altri. In auto, brancolavo nel buio, fiancheggiando un meraviglioso mare. Ho allungato la mano per rubare una carezza alla persona che mi stava accanto, ma voltandomi ho visto il sedile completamente vuoto. Non c’era nessuno. Ancora una volta sono tornato nel mio Sud per riprendermi qualcosa che credevo fosse mio, invece sono ripartito con una “tasca piena di sassi”: sono i sassi della memoria che si ammorbidiscono quando si dilata il tempo presente e forse diventeranno fiori in un improbabile tempo distante.

Cartolina da Teano: Alla corte di Re Artù

Evviva. La logica di Marcel Proust, per cui un sapore rimanda alla memoria, può valere pure per un panino con porchetta e delicata crema di funghi. Il pane tostato, tassativamente locale, riveste il sandiwich top del Re Artù di Teano. Certo che se ti trovi tra Elvy, che mai si trasferirebbe nelle lande nebbiose del Nord Italia, e Katia, passionale varesina finita per amore nel Sud Italia, ti verrà pure in mente la riflessione di Massimo D’Azeglio: “Fatta l’Italia, dobbiamo fare gli italiani”.
Mi sembra troppo impegnativa questa massima di sabato sera, in un risto-pub, anche se la posizione lo permette. Teano è la città in cui nel 1860 Giuseppe Garibaldi incontrò Vittorio Emanuele II e, ora che si parla tanto del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, può starci pure farlo tra una birra e uno stuzzichino.
Cos’è che a distanza di tanto tempo ci fa ritrovare in qualsiasi luogo e sentirci italiani? La condivisione dei nostri sogni, ovunque e comunque, perché quelli sono gli stessi dalla cima alla punta dello stivale:  i sogni di Lazzaro e Luigi che cercano di gestire il loro locale con passione; i sogni di Giusy che vuole trasformare l’amore per la scrittura in un lavoro; i sogni degli Sha’ Dong che dalle atmosfere intime dei locali trafugano energia in attesa di palchi più grandi; i sogni farciti di umiltà dell’agronomo Cristoforo.
Sì, forse lo abbiamo capito una volta e per sempre che sono i sogni a mettere a tacere tutto, ad abbattere le infrastrutture mentali che ci dividono. E se questa volta a farmi sentire più italiano è stato un panino con la porchetta “alla corte di Re Artù”, nel cuore del mio Sud, significa che ci vuole poco per riscattare le nostre radici. E questo è un lusso che dovremmo permetterci più spesso!