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Back to School: Lorenzo Rocci meritava di più!

Lorenzo Rocci, grecista e lessicografo, noto a tutti come il papà del più completo e famoso dizionario Greco-Italiano, era nato nello stesso fazzoletto di terra di Lucio Battisti. Tra la Fara in Sabina dell’erudito e la Poggio Bustone del cantautore ci sono una cinquantina di chilometri in auto.
Entrambi i paesi della provincia di Rieti si sono sforzati di omaggiare i loro concittadini illustri e, in fin dei conti, a Battisti è andata meglio di Rocci perché a pochi anni dalla scomparsa ha ricevuto il monumento in paese.
Il povero Rocci ha dovuto penare un po’, a settant’anni dalla scomparsa con l’aggiunta di uno slittamento per la pandemia, ha finalmente avuto una scultura in bronzo che guarda al suo liceo a Fara in Sabina.

IL ROCCI TRA I RICORDI DI NOI LICEALI

L’Italia è un Paese di smemorati e così uno dei più grandi grecisti d’Europa deve mendicare memoria collettiva? Per i liceali della mia generazione, il Rocci era il dizionario voluminoso che i nostri genitori ci avevano comprato con sacrificio. Ricordo la sera d’autunno del 1987 in cui papà, ancora con la tuta da lavoro, tornò da una libreria con il tomo gigante. Un salasso, aveva tirato fuori più di 100.000 delle vecchie lire.
Si sa che le mie frequentazioni ai tempi erano già anglofone e restavo attaccato alla gonnella di Shakespeare, ma ogni volta che predevo 5 ad una versione di greco mi sentivo in colpa. Eppure il dizionario Rocci è rimasto un monumento immacolato nel mio archivio e, anche quado è sbucata la moda di vendere i vecchi vocabolari di greco e latino, io ho detto no. Non è stato un atto di sentimentalismo verso i giorni spensierati del liceo, quanto la lucida consapevolezza del valore dell’opera omnia del gesuita di Fara in Sabina.

ALTOLÀ, QUALE STRUMENTO DI TRADUZIONE?

Dopotutto neanche la generazione dei miei professori è stata all’altezza di onorare la memoria di Lorenzo Rocci, magari dedicandogli una giornata di lezione monotematica per trasmettere a noi studenti di allora il valore della sua opera. Indaffarati a riempire registri, portare avanti programmi ministeriali, inciampare nello sterile nozionismo, ci hanno fato credere che IL Rocci fosse esclusivamente uno strumento di traduzione.
Perché Lorenzo Rocci avrebbe meritato di più in questi settant’anni dalla sua scomparsa? Perché quel dizionario è un compendio di storia, patrimonio dell’umanità compilato da un gesuita con certosina maestria.
Il dizionario Greco-Italiano, edito dalla Società Dante Alighieri, non è stato l’effimera compilazione di schedine, ma un’opera all’avanguardia che ha registrato con puntuale meticolosità l’evoluzione del greco antico, sgattaiolando tra le evoluzioni linguistiche sotto le varie dominazioni, inclusa quella bizantina.

LE NOSTRE SCUSE A PADRE ROCCI

Altro che eBook, ogni pagina del buon vecchio Rocci profuma di storia e ci mette, ahimé, di fronte a una dolorosa presa di coscienza: l’involuzione e l’imbarbarimento linguistico che serpeggia nel ping pong quotidiano di Whatsapp. Chiedere scusa a Padre Rocci per non averlo riconosciuto abbastanza? Perché no, canterebbe il suo conterraneo Battisti.
Al di là degli allori istituzionali – quelli lasciano il tempo che trovano – basterebbe che ogni studente di oggi, di ieri o dell’altroieri mettesse aperto sul davanzale della finestra il suo dizionario e lasciasse che il fruscio del vento sfogliasse le pagine come fossero un memento.

Sarebbe un modo “romantico” per ribadire: “Scusaci, Lorenzo Rocci. Meritavi di più!

Lo Sport ci salverà

Mentre la politica italiana gioca a dadi in vista delle prossime amministrative e i No Vax fanno rumore per nulla, c’è un’immagine che ci rassicura in quello che si prospetta un’autunno caldo tra le insidie del filo spinato post-pandemia: i pallavolisti italiani che balzano da campioni sul tetto d’Europa. Lo Sport ci salverà dalle acque torbide dell’incertezza?

LO SPORT CI SALVERÀ

Per una volta non è la malattia del calcio – chapeau alla Nazionale di Mancini che ci ha regalato un’estate azzurra – o il campanilismo all’italiana del campionato ad oscurare il resto. Si tratta dello Sport con la “Esse” maiuscola, che spesso e volentieri nella vecchia tv generalista dovevamo andare a cercare da nottambuli: è scoprire l’acqua calda se ribadiamo che il pallone è re dei botteghini e degli ascolti televisivi.

FRAGRANZA

Di questi sportivi campioni, mi ha colpito la fragranza, negli occhi accesi dei pallavolisti, nel campione azzurro in lacrime che si scusa con la fidanzata per averla trascurata o la dedica alla sua piccina, nell’abbraccio lungo di Valentina (Rodini) e Federica (Cesarini), canoiste Oro alle Olimpiadi di Tokyo. Un profumo autentico che va controcorrente rispetto alla contraffazioni di oggigiorno.

RADICI

Mi hanno emozionato Myriam (Sylla) e Paola (Egonu), le due azzurre che hanno riportato il Volley femminile nell’olimpo degli dei e la cui italianità ha radici lontane: la prima figlia della Costa D’Avorio, la seconda della Nigeria.
La mia generazione è figlia di emigranti dal Sud Italia, chi più chi meno, e tanti campioni sportivi di oggi sono l’espressività della nuova Italia meticcia che raccoglie nella multietnicità extra-europea i germogli del futuro.

DISABILITÀ

La montagna di medaglie azzurre collezionate alle Paralimpiadi di Tokyo ha dimostrato che lo sport è un grande motore per combattere la sedentarietà della disabilità e agevolare l’integrazione sociale.
L’Oro di Ambra (Sabatini) nell’atletica, l’Argento di Stefano (Raimondi) nel nuoto, il Bronzo di Federico (Mancarella) nella canoa, l’Argento di Vincenza (Petrilli) nel tiro con l’arco o l’oro record mondiale di Antonio (Fantin) nel nuoto hanno tratteggiato con l’evidenziatore un bel pensiero dell’ex giocatore di baseball Jim Abott: Non è la disabilità che ti definisce, ma il modo in cui affronti le sfide che la disabilità ti presenta.

ANTIDIVISMO

Matteo (Berrettini) con la sua racchetta in finale sul prestigioso campo di Wimbledon ha restituito dignità all’individualismo sportivo del tennis, chiarendo che si può restare sé stessi anche nelle imprese più ardue dando un calcio in culo al divismo. Cosa dire del Matteo sobrio davanti al Presidente del Consiglio, al ritorno da Londra insieme alla Nazionale di Mancini?
Lui, senza allori sulla testa, è stato un bell’esempio per tutta la classe dei suoi coetanei ventenni, annegati spesso nel divismo di cartone a tutto social.

TRASFORMISMO

Lo Sport ci salverà? Sì, questo Sport e i suoi campioni autentici ci salveranno dal trasformismo canonico che invade ogni angolo delle nostre vite terrene, spingendoci su una zattera lontano dai Tale e Quale Show e Grandi Fratelli Vip televisivi, dall’insulso camaleontismo politico che si aggrappa all’ultimo Green Pass, dalle scorregge social che puzzano a seconda del giro di boa.
Il trasformismo cronico non ci mancherà finché sbatteremo contro un muro di parole come queste di Alex Zanardi:

Quando mi sono risvegliato senza gambe

ho guardato la metà che era rimasta, non la metà che era andata persa.

Gabriele, il primo anno di vita non si scorda mai…

Il primo anno di vita non si scorda mai, anche se crescendo sembra che la memoria abbia seppelito questi preziodi dodici mesi in chissà quale abisso dell’anima. Che fai ti giri nella culla, Gabriele?
Hai ragione, è presto, sono venuto a svegliarti mentre tutti dormono. No, non siamo sulla spiaggia di quest’estate, ma nel tuo luogo natale, in quelle valli del vicentino che fanno del paesaggio veneto l’albero genealogico della tua famiglia.

Il primo anno di vita non si scorda mai, Gabriele. Tieniti alla larga da chi vuole darti ali di cartone, come quei poveracci che si spostano da una zolla d’Italia all’altra e sognano figli eroi e supersonici, poliglotti, sottomettendosi ai riti dei nuovi luoghi, che mai apparterranno loro.


Impara il dialetto della tua terra perché è l’idioma della tua gente, delle tue radici che hanno gambe e vogliono correre. Impara a far danzare le consonanti e le vocali del nostro italiano per comporre i nomi di mamma e papà, che con lo zampino di Dio ti hanno messo al mondo e ti aiuteranno a crescere in questa vita.

Accarezza il viso dei nonni perché le loro meravigliose rughe indicano le vie, i percorsi dei sacrifici per allevare chi c’era prima di te. Sali sulle spalle di tua nonna per guardare il viso stanco degli operai all’uscita delle concerie, prima del tramonto, e il loro sollievo nell’attesa di abbracciare i propri figli.

Chiedi a tuo nonno una vecchia carta geografica e guarda all’essenza del mondo non come fanno i turisti di oggi, ma con gli occhi di uno dei più grandi viaggiatori di tutti i tempi, il tuo compaesano Marco Polo.
Chiedi ai tuoi zii di cucinare, sulle orme di un’antica ricetta tramandata, uno dei piatti che, attraverso sapori e retrogusti, ti faccia tenere nel palato il tuo Veneto.

Allenati ad emozionarti, a vedere danzare i sogni, e quando un giorno finirai tra le braccia di quella donna che sarà tua per sempre, allora tornerà a galla, come in una leggenda d’amore, questo tuo primo anno di vita. Non è un incantesimo, si chiama amore ed è la bussola della nostra esistenza.

Gabriele, che viaggio ricco di sorprese sarà questa vita, presagio dell’immensità.

Interno giorno. Buon compleanno, Massimo

Mentre aspetto Massimo mi perdo nel labirinto di un archivio tra libri, film, ritagli di giornale. Ecco le foto, quelle che cercavo: all’Arci, a lezione, nelle battaglie civili, in bianco e nero negli anni delle contestazioni studentesche, delle lotte sindacali, in viaggio verso il Sudamerica, con un occhio di riguardo, fisso, verso i più deboli, mano nella mano con la sua donna, papà premuroso con i figli.

INTERNO GIORNO

Ah, eccoti. Sapevo che saresti venuto. Ti stupisce che sia passato a trovarti nel giorno del tuo compleanno? Gli uomini sono stolti quando ribadiscono che i compleanni prima o poi finiscono. No, durano all’infinito perché la nascita di ogni essere umano va ricordata senza remora temporale. E poi le nostre vite, Massimo, sono legate le une alle altre come il filo di un gomitolo di lana. Pensa alla mia se non ti avessi conosciuto? Sarei rimasto intrappolato nei film ingurgitati con la passione da ventenne.
Grazie alla tua amicizia e alle tue lezioni tutte quelle sceneggiature messe in fila sono diventate il grandangolare con cui osservare la vita.

Ti spiace se abbasso la tapparella? Non so perché ma in questo posto mi acceca la luce del sole. Ah, dici che è meglio uscire fuori sul terrazzo?

ESTERNO GIORNO

Avevi ragione, qui si sta bene. Da qui si vede tutta la Laguna, laggiù Malomocco e la casa di Corto Maltese, il Lido di Venezia dove trasformammo il sogno di “Villaggio Globale” in tanti corti. Massimo, da quante persone sei riuscito a farti voler bene. In realtà sembra la cosa più facile del nostro mondo, ma dire “ti voglio bene” è complicato perlopiù. Forse perché temiamo che l’altra persona lo reputi un atto tremendamente infantile o rimandiamo soggiogati dal pudore, puntando a chissà quale momento migliore. Non è una fragilità dirlo, ad alta voce, è una liberazione verso chi ci sta davvero a cuore.

Volevo portarti un regalo di compleanno, ma il portiere al piano terra mi ha detto che non potevo. In realtà mi ha ricordato che il regalo me lo avevi fatto tu indicandomi nel sogno dell’altra notte la strada per venire a trovarti. E’ come se avessi perso il conto del tempo salendo in ascensore. La lunga salita mi ha stordito.

INTERNO NOTTE

Da piccolo avevo paura del buio. Mio padre mi rassicurava e mi indicava il punto luce nel fondo della stanza. Non dovevo arrendermi. Stropicciando gli occhi dal punto luce vedevo la proiezione di un’ombra. Ora capisco, eri tu, sei stato l’ombra di papà. Ecco sono venuto a dirtelo.
Ho avuto la fortuna di avere un papà biologico meraviglioso a cui devo tutto, ma tu sei stato per certi versi la continuazione. Quando quella volta mi mise su un treno regionale Napoli-Roma per venire da te, papà instaurò una congiutura tra lui e te: avevate tante battaglie in comune perché sapevate il prezzo del futuro.

ESTERNO NOTTE

E’ arrivato il momento di spegnare le candeline. Come, qui non ci sono candeline? Ah, capisco qui soffiate sulle stelle. Massimo, ho impiegato 48 anni e ora mi è tutto più chiaro: l’accensione e lo spegnimento delle stelle ad intermittenza non è un effetto ottico, ma l’indicazione che da voi quassù qualcuno stia spegnendo le candeline di compleanno. Non si finisce mai di imparare.
Massimo, Massimo, Massimo. Lo senti il suono del carillon nell’angolo? Quello è un motivetto conosciuto… non mi vengono in mente le parole, qui da te confondo tutto. Ah sì, eccole…

Alice guarda i gatti e i gatti guardano nel sole

Mentre il mondo sta girando senza fretta

Lo canticchierò guardado negli occhi la tua nipotina Alice, appena avrò la gioia di conoscerla, e le dirò che sei il nonno più orgoglioso dell’universo. Massimo guarda, nella tasca del jeans c’è finita una candelina…Aspetta l’accendo, perché tu sei stato e sei un punto di riferimento nella vita per tanti di noi.
Ora vado, mi sembra di sentire sulla spalla la tua mano proprio come il giorno in cui sei partito. Aiutami a trovare la strada del ritorno.

Massimo, ho deciso. Verrò a trovarti il 4 settembre di ogni anno e il tuo compleanno sarà un pretesto per dare continuità al nostro dialogo. Ora vado…

Buon compleanno, Massimo.

Ciao Giacomo, compagno di classe per sempre

I banchi del vecchio Liceo Imbriani di Pomigliano D’Arco, alla periferia di Napoli, custodiscono incisi nel legno i nostri nomi, Giacomo. Un compagno di classe resta per sempre e tu lo sai bene.
A quasi 30 anni dalla Maturità della nostra III F, che ci eravamo ripromessi di festeggiare alla grande, non è cambiata una virgola nel nostro legame nato negli anni di scuola.

TRA LA SALSEDINE DEL MARE E LACRIME SALATE

I sogni, le bravate, le lezioni condivise, la vita di allora sono sulla via che portava al liceo perchè come diceva Heinrich Böll “Forse non è a scuola che impariamo per la vita, ma lungo la strada di scuola.
Giacomo, in questa maledetta domenica di fine agosto la salsedine del mare si confonde con il sale delle lacrime. Quando bisognava organizzarsi per rivedersi eri sempre pronto e così mi hai scritto tanti anni fa:

“Rimpatriata? Magari. La voglia di rivedervi tutti è davvero tanta.”

Sbobbino e sbobbino ricordi, si attorcigliano sul nastro del vissuto, sono tanti, sono troppi. Sbucavi con la videocamera, partiva il REC, mi piazzavi a fare l’intervistatore, sei sempre stato un’archivista della memoria e sapevi in anticipo che quei giorni spensierati sarebbero stati una delle tappe più belle in questo viaggio incredibile che è la vita.

UNA RADICE DELL’ALBERO DELLA NOSTRA VITA

Giacomo, se dicessimo “i migliori anni della nostra vita” peccheremmo di fottuta nostalgia , se diciamo invece una radice dell’albero della nostra vita piantiamo la speranza di ritrovarci, da qualche parte, nell’universo.
Singhiozzo e scrivo, ho tirato fuori il disco di Elton John Live in Australia. Fino ad allora ero abituato ai vinili, tu mi hai mostrato per la prima volta un CD. Lo avevi portato dall’America e in quel momento non so perché le canzoni di “Rocket Man” sono entrate con prepotenza nella mia vita, all’alba degli anni ’90.

DON’T LET THE SUN GO DOWN ON ME

Gli Stati Uniti sono stati la tua seconda casa e, quando ci vedevamo al Parco Arcadia a Pomigliano insieme a Valeria, Marina e Sandro, me li facevi vivere a distanza attraverso i tuoi racconti. Il mio viaggio a New York nel ’92, subito dopo la Maturità, non ho potuto fare a meno di condividerlo con te: Giacomo, tu sapevi che per me era stato come sbarcare sulla luna.
Giacomo, mi senti? Ho ancora la vecchia musicassetta registrata da un tuo CD. George Michael e Elton John stanno cantando per te Don’t Let the Sun Go Down on Me, uno dei tuoi brani preferiti. Il volume è altissimo come le voci di tutti i compagni della III F dell’anno scolastico 1991/1992. Non finiremo mai di dedicarti un pensiero. Tu continua a regalarci il tuo sorriso sornione e la voglia di vivere.

Adesso capisco perché stanotte non riuscivo a dormire. Mi mancava il respiro. Era il tuo, era il nostro, compagni di scuola per sempre. Ti voglio bene.

A Piccoli Passi: Perché ho sposato un’educatrice di asilo nido

Quando ho sposato un’educatrice di asilo nido sapevo che sarei tornato a sbirciare nel mondo dell’infanzia. Le piccole storie di un asilo nido comunale del milanese mi hanno accompagnato negli ultimi due anni. E se non era mia moglie a darmi corda nei racconti, ero io stesso a dargliela. E adesso chi lo dice a Gabriele e Caterina che si è conclusa l’esperienza dell’asilo nido in vista di una nuova avventura?

LUSA

Tutte le volte che il piccolo Gabriel mangiava una vocale e chiamava la sua educatrice “Lusa”, sono tornato in Albania, nei giorni di quell’incredibile viaggio on the road verso Tirana. Tengo stretta ancora tra i cimeli la statuetta della donna che in una notte cucì la bandiera dell’indipendenza albaese. La giocosità di Brayan, quando si infilava nel lettino, e i suoi occhi chiari mi hanno fatto ritrovare l’alba sul mare di Durazzo che fronteggiava l’Italia.

FRATELLANZA

La generosità del piccolo Adam e il suo continuo buttare l’occhio al fratello e sorella minore Yassin e Sofia mi hanno fatto tornare alle elementari, ai tempi in cui sbirciavo nell’aula di fronte: accanto alla porta era seduta mia sorella minore. L’infanzia è il tempo privilegiato in cui germoglia quel barlume di protettività che farà, negli anni avvenire, della fratellanza una congiuntura della vita.
E Martolina, piccola acrobata da una sala all’altra, ripeteva agli altri: “Luisa è amica mia”. A te, cara Marta, che hai rotto la barriera immaginando di prendere un caffè con la tua educatrice, dedico i versi della canzone dei Beatles Martha my Dear.

IL PICCOLO PRINCIPE E LA LUCE DELL’EST

“E pecché?”, ripeteva Manuel che senza saperlo aveva già il mantello esistenzialista del Piccolo Principe. Del resto la curiosità del piccolo per l’universo circostante lo accostava al personaggio di Saint-Exupéry così come la luce dell’Est, nello sguardo delle radici di Veronica e Emily, mi ha fatto immaginare il prossimo viaggio sulla rotta di Kiev e Chişinău, in auto con alla guida il mio amico di sempre Luca.

E MMO’ VADO GIU’

Chi mi ha riportato a casa è stata Ambra dagli occhi vispi made in Sud, con i suoi capelli arruffati e la tenera “scugnizzeria” della mia Napoli, l’allerta “‘a bufera” accompagnata dalla sua mimica da eccellenza meridionale, i suoi slang che sono anche i miei: “E mmo’ vado giù”.
Senza saperlo Ambra mi fatto ritrovare il Vomero, quel quartiere napoletano dove dai microfoni di una radio regionale è partita una fetta della mia storia, le serate al teatro Diana, l’intervista in camerino a Pupella Maggio, quella volta a passeggio in via Luca Giordano in compagnia di Gino Rivieccio, gli appuntamenti con mio cugino Massimiliano davanti allo stadio Collana, i momenti spensierati al teatro Cilea tra Giacomo (Rizzo) e Rosalia (Maggio), il caffè pomeridiano a piazza Medaglie d’Oro canticchiando Tony Tammaro e Federico Salvatore per fare dispetto ai “chiattilli”, il segno della croce dinanzi alla madonnina a piazza Immacolata per dire “Pienzace tu, Maronna mia”.

IL NONNO GUARDASTELLE

Nel disegno di Asia, che ho scelto come copertina di questo diario, ci sono i colori del suo legame speciale con il nonno che assomiglia al mio. Ci sono anche le linee che tracciano il dolore per la sua dipartita improvvisa.
Cara Asia, il mio si chiamava Pasquale e, dopo trent’anni, sento ancora la sua mano sulla spalla destra, perché i nonni sono uno dei doni più belli di Dio. Affacciati alla finestra, le stelle più luminose sono loro che da lassù continuano ad illuminarci, al tuo è stato affidato il compito di guardastelle. E come hai ricordato, attraverso i versi di Cristina Bellemo, regalate alla tua educatrice:

Eccomi, sono pronto a ripartire. Non è mica finita, sai, la strada. Adesso vado in viaggio nella vita.

A PICCOLI PASSI

Buone vacanze a voi tutti che siete una speranza sospesa tra il presente e il futuro. Difendete la vostra libertà, la vostra italianità nel rispetto delle radici, perché la diversità è un serbatoio di ricchezza.
Ho sposato un’educatrice di asilo nido perché sapevo che queste storie, le vostre, avrebbero fatto rumore nella mia anima. Non dimenticate mai l’amore donato da ciascuna educatrice e da tutto il personale, custoditelo gelosamente per sempre.

Buona vita, cari bimbi… a piccoli passi!

L’Inghilterra della Brexit battuta ai rigori dall’Italia europeista

Questa di Italia-Inghilterra, finale degli Europei 2020, resterà la partita di calcio “più politica” degli ultimi 39 anni. Non è sicuramente l’11 luglio del 1982 della Nazionale di Bearzot campione del mondo in Spagna, ma è l’11 luglio del visionario Mancini e dei suoi ragazzi che hanno castigato gli inglesi nel tempio di Wembley.

L’Inghilterra, dopo aver alzato la cortina di ferro della Brexit, è stata beffeggiata dall’Europa di Ursula von der Leyens sul campo di calcio dove Freddie Mercury cantò The Show Must Go On.
Per noi anglofoni che tradimmo Dante per convertirci a Shakespeare fino alla morte e, dalla fine degli anni ’80, facemmo dell’Inghilterra la nostra seconda patria per viaggio, studio e non solo, ora è il momento di fare un passo indietro: chi osa riconoscersi più nella terra cafona di Boris Johnson tra rampolli di Tory ammuffiti, visioni antiquate delle economie dei dazi, obblighi di visti e passaporti anche per noi italiani dal sudore emigrante?

Non sarà di certo una partita di calcio a cambiare le regole del gioco, ma glorifichiamo la compostezza “democristiana” del nostro Presidente Mattarella – che non è l’esuberanza del partigiano socialista Pertini alla finale di Italia-Germania dell’11 luglio dell’82 – e spazziamo via la muffa dei nuovi influencer Reali di Buckingham Palace William e Kate, le puzzette di baby George, le racchettate di merda d’oltreoceano del debole Harry e dell’arrivista Meghan.

L’11 luglio ci porta bene e, grazie alla promozione degli Azzurri di Mancini a Campioni d’Europa, ci togliamo il sassolino dalla scarpa mentre torna a suonare un vecchio disco di Bennato e della Nannini tra “il vento che accarezza le bandiere e sciogli in un abbraccio la follia”.
Winston Churchill, sbuffando l’inseparabile sigaro da Primo Ministro del Regno Unito, amava ripetere:

Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio.

Dopo quasi un secolo smentirlo su un campo di calcio equivale a dare una paccata sulla spalla alla storia, canticchiando con orgoglio nazionalista, spesso sbiadito dalla nostra antipatica esterofilia:

Notti magiche
inseguendo un goal
sotto il cielo
di un’estate italiana

e negli occhi tuoi
voglia di vincere
un’estate
un’avventura in più.

Notturno per Raffaella

Nella primavera del 1978 a casa mia arrivò il primo televisore a colori, un Voxon di 30 pollici a 8 canali. Lo inaugurammo con la Raffaella Carrà del sabato sera. In quel periodo erano venuti a stare da noi i nonni Pasquale e Lucia e condividevamo la nostra stanza con loro, ricompensati da tante coccole.
Stavo per chiudere il ciclo dell’asilo e a un bambino, che contava l’età sulle dita di una mano, non era concesso stare sveglio fino a tardi. La Carrà di Ma che sera sul primo canale Rai era un’eccezione per me, anche perché impazzivo per la sigla iniziale.

Com’è bello far l’amore da Trieste in giù

Com’è bello far l’amore io son pronta e tu

Tanti auguri

A chi tanti amanti ha

Mentre l’Italia bigotta storceva il naso per il testo provocatorio della celebre Tanti Auguri, un bimbo in pigiama alla periferia di Napoli saltellava sul letto mentre Raffaella faceva la contorsionista intorno alla torre di Pisa, cantando l’emancipazione scambiata dai rampolli democristiani per tabù.

Ballo, ballo, ballo da capogiro

Ballo, ballo, ballo senza respiro

Ballo, ballo, ballo m’invento un passo

Notturno per Raffaella è inchiostro dipanato nella memoria che, prima ancora di essere collettiva, è spudoratamente individuale. Poi la conta dei fagioli dal salotto televisivo di Pronto Raffaella ci aveva spinti fuori dal tunnel degli anni ’80 come quando ci sputano fuori dall’utero materno: il disincanto arrivò appena la nostra Raffaella nazionale sparì dalla tv per essere ceduta all’estero.

Viene fuori una biondina (che dolor, che dolor)
Che era nell’armadio (che dolor, che dolor)
Viene fuori una biondina (che dolor, che dolor)
Che era nell’armadio (che dolor, che dolor)

Notturno per Raffaella è un tuca tuca in mezzo alle stelle comete tra i giganti che sono adati via e il presente orfano di eredi, sul galleggiante della volgarità e del voler apparire a qualsiasi costo. La pena arriva quando da una finestra di TikTok sbuca l’ennesimo ammiccamento. Raccontate allo zimbello dei social che la sua goffa torsione non sarà mai ballo come quello inventato e reinventato dalla Carrà.

Chissa’ se va’
se va’
ma si che va’
ma si che va’
ma si che va’
che va’
e se va’ se va’ se va’
tutto cambiera’
forza ragazzi spazzola
e chi mi fermera’…

Notturno per Raffaella non è un fuori onda di Carramba che sorpresa, ma un elogio silente a ridosso di mezzanotte per una donna di carattere e talento che, fuori dalle mareggiate ideologiche e di potere politico, è stata sorella, mamma, nonna sincera di tutti noi negli ultimi sessant’anni di storia italiana.
La femminilità di Raffaella Carrà ha schiaffeggiato il becero maschilismo, incluso quello dei piani alti di via Teulada, di viale Mazzini, della RAI tra le quinte della lottizzazione.

Lo so che nell’amore
C’è chi vince e c’è chi perde
E stasera ho perso te.

Oggi si è spenta la televisione, per sempre.

I 70 anni di Jerry Calà nel ricordo della mia intervista alla Capannina

Jerry Calà compie 70 anni e mi torna in mente la fuga da Milano nell’estate 2005 per correre ad intervistarlo alla Capannina di Forte dei Marmi. Avevo espressamente chiesto che l’incontro con l’ex Gatto di Vicolo Miracoli avvenisse nella location dove, 23 anni prima, era stata girata una parte del film Sapore di Mare di Carlo Vanzina.

https://www.youtube.com/watch?v=mwfNpg9PAZ0

JERRY CALA’ E IL CINEMA ITALIANO

Io e Jerry ci trovammo seduti nel retrobottega del mitico locale della Versilia, tra casse di bottigliette di bibite e bustine di snack, qualche ora prima del suo One Man Show. In realtà la mia intervista virò su Calà e il cinema italiano, soffermandosi su quella che avevo definito la trilogia dei passaggi di consegna: Vado a vivere da solo di Marco Risi (1981), Sapore di Mare di Carlo Vanzina (1983) e Un ragazzo e una ragazza (1984) ancora di Marco Risi. Nonostante gli snobbismi degli intellettuali – quarant’anni dopo si sono sbriciolati come i castelli di sabbia – Calà aveva dimostrato in questi tre film che poteva fare ancora, che poteva fare altro.
“Mi fa piacere che tu abbia cominciato ricordandomi la scena finale di Sapore di mare, hai ragione lo scambio di sguardi e rimpianti tra me e Marina (Suma) fu una svolta anche per me. Di quel ciak per Carlo (Vanzina) fu buona la prima e l’operatore di macchina mi disse… Jerry sei stato grande”, mi raccontò Calà in quell’occasione.

https://www.youtube.com/watch?v=72k46WesRwQ

BASTA PARLARE DI CINEMA DI SERIE A O B

L’interpretazione di Jerry contribuì a trasformare i due film di Marco Risi sopra citati in manifesti autentici e romantici della mia generazione, cresciuta sotto l’ombrellone degli anni ’80. “Marco (Risi) sapeva come metterti a tuo agio sul set e questo atteggiamento ti aiutava a tirare fuori il meglio di te – mi spiegò l’ex Gatto di vicolo Miracoli – Non ho mai fatto distinzione tra cinema di serie A o B, questo lo lasciavo fare agli altri. Un film è un film quando arriva al cuore della gente, quando fa da specchietto retrovisore della tua vita.”

https://www.youtube.com/watch?v=x4SglSlgrhk

LIBIDINE, SLOGAN DI STRAFOTTENZA

Nell’intervista alla Capannina colsi la persona e non il personaggio abituati a vedere, il Calà che aveva fatto di “libidine” lo slogan di strafottenza da spiattellare ai fricchettoni che si prendevano troppo sul serio. Citai a Jerry gli ultimi versi di una poesia di Totò:

“C’è tanta gente che si diverte a far piangere l’umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla; manda, se puoi, qualcuno su questo mondo capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri.”

Jerry mi ricordò, in chiusura della nostra chiacchierata, che Totò era stato un grande maestro perché aveva saputo raccogliere gli stati d’animo di tutti, anche “di coloro che fanno il nostro mestiere e nascondono la tristezza personale per il bene del pubblico.”
Jerry mi salutò e mi ringraziò per le domande. Andò a cambiarsi per lo spettacolo, mentre il pubblico della Capannina lo attendeva e lo reclamava. Restai nel retrobottega e di sbieco tenevo d’occhio il palco. Poi si spensero le luci. La persona si fece showman e la sua ombra saltò sotto le luci della ribalta come un uragano. Ripensai a me bambino insieme alla mia famiglia in un cinema, alla periferia di Napoli, alla fine della proiezione di Sapore di mare. Correva l’anno 1983 e mi rimase impressa la celebre battuta che mise nero su bianco il passaggio di consegna tra la generazione dei miei genitori e la mia:

– Mamma, ma com’era l’epoca tua?

– Non so, era diversa. Ci batteva il cuore.

WhatsApp e i legami affettivi tra ruggine e artificialità

Nel mondo oltre 3 miliardi di persone smanettano su app di messaggistica. Il Covid-19 ha contribuito al rialzo pazzesco di piattaforme come WhatsApp che solo in Italia nel 2020 è stata usata da 33 milioni di utenti (Fonte: Audiweb-Nielsen). Quanti utilizzano WhatsApp per tenere in caldo un legame affettivo, un’amicizia, non so una conoscenza?

LEGAMI TRA AUDIO FARFUGLIATI E CATENE DI SANT’ANTONIO

Il distanziamento sociale della pandemia ci ha impoltroniti e, cavalcando l’onda di quella stizzinosa indolenza, ci siamo tirati la zappa sui piedi: ridurre i legami affettivi a uno scambio di messaggi estemporanei, audio farfugliati, catene di sant’antonio che il più delle volte pisciano umorismo insulso, rimbalzi di foto come le noccioline che davamo in pasto agli scimpanzè allo zoo negli anni dell’infanzia.

SCIMMIOTTIAMO LA GENERAZIONE ALPHA DEI NOSTRI FIGLI

Ci siamo impigriti nelle relazioni e pensiamo che il gruppo su WhatsApp ci abbia messi al riparo dal vedere in cocci quei legami su cui pensavamo di campare di rendita. Scimmiottiamo la generazione Alpha dei nostri figli, apprendista stregone di contatti tutto sommato artificiali.
Infatti, le generazioni nate sotto l’ombrello della messaggistica istantanea sono stati svezzati da genitori che comunicavano con gli altri abbrozzandosi con la luce artificiale dello schermo di uno smartphone spiattellato in faccia.

VIA IL BUONISMO CHE ASSECONDA COMPAGNIE DA WHATSAPP

Quelli della mia generazione sono cresciuti sotto un’altra luce, il sorriso illuminante di quando papà e mamma trovavano il tempo per frequentare le persone a cui tenevano, coltivare i legami, affrontare la vita con una condivisione costruttiva che si ripercuoteva anche sulla nostra vita sociale.
Si generalizza dando sempre la colpa ai cambiamenti sociali, alla routine supersonica che ci stritola come sardine, al tempo che non è mai abbastanza, come se poi non fossimo noi i padroni del nostro tempo.  Basta con questo buonismo ipocrita che specula sui sentimenti e riprendiamoci un pizzico di vena polemica per vedere le cose come stanno: le minacce della solitudine dopo l’autoconvincimento che l’intensità delle nostre amicizie via WhatsApp sia direttamente proporzionale alla crescita delle visualizzazioni dei nostri stati.

Nei legami non esistono diritti acquisiti o tramandati. Non era chiaro neanche ai parenti che reclamavano attenzioni e considerazioni sula base di quest’ultimi. Parafrasando Kingsmill che ripeteva “Gli amici sono il modo in cui Dio chiede scusa per i parenti”, potremmo chiudere il cerchio così: I legami arrugginiti via Whatsapp sono il modo in cui siamo ingrati verso Dio per averci donato amici veri.

Torniamo ad essere costruttori di legami autentici.