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Category Diario di viaggio

Bjork casa

Cartolina da Reykjavik: sulle orme di Björk

Occhiali

La quarantanovesima capitale del mio giro del mondo è Reykjavik, la più a Nord d’Europa, da associare alla mitica Björk. Culla dell’Islanda dove volevo arrivare fin da bambino, la capitale – quanto tempo ho impiegato per impararlo a scrivere – racchiude nel suo nome il significato di baia fumosa, visto che i suoi dintorni sono zeppi di aree geotermiche.
Qui il tempo cambia alla velocità della luce e, nonostante le previsioni meteo fossero pessime, Reykjavik ha premiato il mio ottimismo da viaggiatore con tanto sole, più di quello che si vede in questo periodo in Islanda.


REYKJAVIK, ANIMA PUNK

Tanti turisti dicono che non sia un granché, ma il viaggiatore che gira a piedi fino alla sfinimento replica che sia un affascinante misto di modernità, atmosfere nordiche e, perché no, di quei retaggi storici con l’occhio lungo fino alle saghe dei vichinghi. L’anima di Reykjavik? Per me è punk e non te lo aspetteresti mai, proprio come quell’ondata di subcultura giovanile che contagiò il Regno Unito cinquanta anni fa. E poi i legami tra Islanda e Inghilterra sono stretti, anche a livello musicale, penso alle etichette discografiche indipendenti che hanno avvistato i musicisti talentuosi islandesi. Ce ne sono, eccome.

ARCHITETTURE MODERNE, SAGHE NORDICHE E PROVOCAZIONI

Mi piace iniziare a girarmela a prima mattina, al porto sorseggiando un caffè o finendo in un supermercato per trovare un panino e una coca a prezzi ragionevoli, visto che il cambio e il costo della vita per noi italiani sono una batosta infernale. Fatevene una ragione, prima di partire.
L’architettura moderna dei palazzi residenziali, le casette tipiche islandesi con le facciate dalle tinte forti, i murales sparsi qui e lì, la lunga passeggiata sull’Oceano, i piccoli angoli segreti, il parco cittadino con il suo laghetto, la scultura provocatoria dedicata alla Burocrazia (grande male dell’isola!) me la rendono tremendamente piacevole.
L’arte figurativa di Errò, il mio artista islandese preferito celebrato dal Museo d’Arte Moderna, è un ottimo modo per cominciare tanto poi, per rotolare come una pietra del tempo, c’è il Museo Nazionale d’Islanda tra un’imbarcazione vichinga e un amuleto del dio Thòr, il cui culto millenario è antecedente a quello cristiano.

NELLA VESTURBAER DI BJORK

Mi sento islandese appena mi allontano dal centro, trotto parecchio fino al quartiere di Vesturbaer. Ho avuto una soffiata, in queso periodo Björk è ritornata qui dalla casa newyorchese. Del resto se sono atterato in islanda è anche merito della sua arte musicale visionaria. Ricordo quando, tra un corso e un altro del primo anno di università nel ’93, mi registrarono su una TDK60 il primo album. Nelle prime ore pomeridiane mi affaccio al Kaffihús Vesturbæjar, una coffee house al numero 20-22 di Melhagi. Mi guardo intorno, nessuno spiffera niente, tranne una ragazza al banco da cui so per certo che Björk è andata via qualche ora prima. Viene a rilassarsi prima di andare in una piscina pubblica a pochi passi da qui. Mica come le nostre celebrità che frequentano soltanto posti esclusivi?
Giro e rigiro finisco sotto casa di Björk. Non ho di certo l’aria di uno spasimante, ma gli islandesi sono persone riservate e per loro è impensabile che io possa andare a citofonarla. Se fossimo stati nella mia Napoli, questa storia avrebbe avuto un altro finale: sarebbe sbucata la vicina che mi avrebbe “raccomandato” per bere un caffè insieme.

OCEANO-MADRE

Mi sposto e guardo incantato l’oceano, attraverso la stessa angolatura della finestra di casa. C’è vento, il sole si nasconde dietro le rincorse delle nuvole. Penso a quanto la cantautrice e compositrice di Reykjavik, fin dalla gioventù, mi abbia fatto sognare l’Islanda, un mondo sospeso finalmente vissuto in un viaggio incredibile, pieno di emozioni impreviste.
Le mie parole volano al vento e le lascio inghiottire dal suo Oceano-madre in questa gelida serata. E lì, dove si dissolve la linea dell’orizzonte, che ho incontrato davvero Bjork, a modo mio, prima che il sole di mezzanotte schiacciasse le tenebre nottambule oltre l’impavida coltre del viaggiatore.

5 consigli dal mio viaggio low cost in Islanda

All‘Islanda è toccato essere il Paese n.52 del mio giro del mondo. Ecco 5 consigli dopo il viaggio mozzafiato nell’isola europea magica e piena di sorprese


IN VIAGGIO IN ISLANDA CON REYKJAVIK EXCURSIONS

Da 50 anni hanno scritto la storia del trasporto e del turismo di Reykjavik e dintorni. Reykjavik Excursions è un marchio turistico a cui potete affidarvi appena atterate nella capitale islandese. Grazie al loro servizio Flybus (a partire da 24€ a corsa) potete raggiungere in 45 minuti Reykjavik dall’aeroporto internazionale e, con un supplemento aggiuntivo, avrete uno shuttle che vi porterà poi direttamente all’alloggio indicato.
Noleggiare l’auto in Islanda può arrivare a costare tre volte rispetto all’Italia. Partire da Reykjavik con tour organizzati in mini van con guide specializzate può essere un’alternativa intelligente e avere un buon rapporto qualità prezzo. Reykjavik Excursions vi propone 128 tour in Islanda per tutte le tasche che vi consentiranno di costruire itinerari personalizzati. Monitorate le offerte dal sito e prenotate in largo anticipo, soprattutto ora che si va verso il periodo di alta stagione.


L’AVVISTAMENTO DELLE BALENE CON ELDING WHALE WATCHING

Chi non ha mai sognato di vedere una balena? Io fin da bambino, dai tempi dell’infanzia in cui papà la sera mi raccontava a puntate la favola di Pinocchio. Affidatevi per vivere questa incredibile esperienza all’equipaggio di Elding Whale Watching. Dal porto di Reykjavik tutti i giorni partono le loro imbarcazioni per l’avvistamento delle balene. In caso il whale watching non dia i risultati sperati, Elding Whale Watching vi offre una seconda opportunità. Prenotate con anticipo sul sito. A bordo salvagente e binocolo per tutti!
Inoltre, vi consiglio anche l’avvistamento dei Puffin, buffi pennuti simbolo dell’Islanda e del Nord Europa conosciuti in Italia con il nome di Pulcinella di mare.

IN BARCA NELLA LAGUNA GLACIALE DI JOKULSARLON


Jökulsárlon, uno dei ghiacciai simbolo del Nord Europa, resta la perla del Sud dell’Islanda. Una volta arrivati in questo paradiso naturalistico, non potete fare altro che salire sull’imbarcazione di Glacier Lagoon.
Con un’esperienza di 25 anni, l’equipaggio vi porterà alla scoperta di una laguna glaciale che vi toglierà il fiato. Salvagente per tutti e se siete fortunati come me avvisterete anche delle simpatiche foche.
Vi consiglio l’Amphibian Boat Tour della durata di 35 minuti. Anche in questo caso, per non rischiare di fare un lungo viaggio a vuoto, vi suggerisco di prenotare in anticipo.

MANGIARE ISLANDESE AL REYKJAVIK ROST

Un posto delizioso e pieno di atmosfera è il Reykjavík Röst, coffee house sul porto della capitale che serve anche piatti tipici islandesi con un buon rapporto qualità-prezzo. Fatevi consigliare da Agnes, che gestisce con passione e dedizione questo localino aperto tutti i giorni dalle 8 alle 18.
Il mio tragitto nella cucina islandese è stato fatto da un assaggino di carne di squalo, un tagliere di formaggi locali accompagnato da pane abbrustolito, dell’ottimo salmone affumicato su un tappeto di pane e insalata e una birra locale accanto al camino.
Ci sono tornato anche una mattina a colazione, seduto alla finestra con vista sull’oceano. Agnes mi ha preparato un buon caffè americano e una crepe con della crema tipica islandese. A pranzo è sempe pieno, perciò meglio prenotare. Se siete in gruppo, fatelo presente!

NOSTALGIA DELLA CUCINA ITALIANA A GRAZIE TRATTORIA

Nostalgia, nostalgia canaglia della cucina italiana, che ti prende proprio quando non vuoi? Ho scoperto con il mio fiuto da reporter e viaggiatore Grazie Trattoria, un bel ristorante a Reykjavik in Hverfisgata 96, inaugurato qualche mese fa.
La passione dell’islandese Kristján Nói per il cibo italiano ha dato vita a questo ristorante dal design d’interni che esalta la nostra arte italiana e i piatti cucinati con prodotti tipici nostrani. In Islanda nella nostra amata pasta alla carbonara ci mettono pancetta e crema di formaggio. In quella da me assaggiata c’era del vero guanciale e pecorino romano proveniente dalla nostra bella Italia. Vi consiglio anche l’ossobuco con una delicata crema di polenta e, come dessert, avete l’imbarazzo della scelta tra tiramisù e panna cotta.
Infine Kristján, l’islandese innamorato della cucina italiana, mi ha fatto assaggiare il suo limoncello di cui è tanto fiero. Preparato con i limoni della Sicilia, Islenskt Limoncello è distribuito in venti ristoranti della capitale.

Palermo senza Falcone: io prigioniero nel Palazzo dei Normanni

Trent’anni dopo la strage di Capaci, resto prigioniero nel Palazzo dei Normanni di Palermo. Mentre il capoluogo siciliano si accinge alle commemorazioni per l’uccisione del giudice Giovanni Falcone e della sua scorta, io salgo e scendo lo scalone del palazzo in cui aleggia ancora la presenza di Federico II.
Mi defilo, mi nascondo tra i colonnati, mi siedo sulla scala e penso a dove mi trovassi il 23 maggio 1992, quando al telegiornale diedero la tragica notizia: ero immerso nella preparazione dell’esame di maturità.

IO VI PERDONO, PERO’ VI DOVETE METTERE IN GINOCCHIO

E pensare che la mia ultima volta a Palermo la residenza reale più antica d’Europa era una bellezza da contemplare tutta all’esterno. Ora ci sono dentro, ne attraverso le stanze non da turista ficannaso ma da viaggiatore alla ricerca di glorie remote in oltre duemila anni di storia.
Dalla finestra spingo lo sguardo fino al centro storico di Palermo, in lontananza le facce degli studenti del Vittorio Emanuele, in cui insegnò don Pino Puglisi, un altro martire di Cosa nostra. Non riesco a leggere gli striscioni dedicati a Falcone degli studenti palermitani, che trent’anni fa non erano nati ancora.

L’ARTE CI SALVERA’ DALLE BRUTTURE DI QUESTO MONDO?

Ho in testa il rumore delle bombe di Capaci – ricordo quando mi accompagnarono nella zona dell’attentato nell’estate 2007 – e le parole di rabbia e dolore di Rosaria Schifani, vedova della scorta, “Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio.”
Trovo rifugio nella Cappella Palatina, magnifico dono del monarca Ruggero II di Sicilia, una bellezza indescrivibile da procurarmi un lungo batticuore. Di fronte a tanta bellezza, affogo improvvisamente nell’amletico dubbio: l’arte continuerà a salvarci dalle brutture di questo mondo?

GLI UOMINI PASSANO, LE IDEE RESTANO

Nel giardino del Palazzo dei Normanni, sosto sotto un albero. E’ enorme rispetto a quello in via Notarbartolo 23, sotto casa di Giovanni Falcone. Se ci penso, con le sue radici enormi, assomiglia all’eredità di questo martire della Mafia: così radicata da spingere i più giovani a calpestare uno dei peggiori morbi di una società civile, l’omertà.
Gli anniversari servono anche risollevare la salivazione amara che ti fa guardare il bicchiere mezzo vuoto: cosa non abbiamo fatto allora per salvare i giudici Falcone e Borsellino? Cosa non hanno fatto lo Stato, le istituzioni, la classe politica di allora?
La loro morte feroce per mano della Mafia rimane una delle sconfitte più lapidari dell’Italia della Prima Repubblica.
Da dietro l’albero nel giardino del Palazzo dei Normanni sbuca un bimbo dal sorriso vispo, sgambetta verso la madre che gli va incontro, risento queste parole:

“Gli uomini passano, le idee restano, restano le loro tensioni morali, continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.”

GIOVANNI FALCONE

Il mio 23 maggio, lontano dai simboli, dai cortei, dai cerimoniali, prigioniero della bellezza del Palazzo dei Normanni.

Diario di viaggio: A casa di D’Annunzio tra letteratura, teatro e pubblicità

Cover by Lacciosciolto da Foto Fondazione Il Vittoriale

Ci sono due luoghi in cui ho avvertito la presenza dei “padroni di casa”. La Reggia di Francesco Giuseppe, Schönbrunn a Vienna, e il Vittoriale degli Italiani di Gabriele D’Annunzio a Gardone Riviera, sulla sponda lombarda del Lago di Garda. Il complesso voluto fortemente da uno scrittore avanguardista del XX secolo – il D’Annunzio che la generazione dei miei professori liquidò con qualche paginetta sgualcita per rincorrere i programmi ministeriali di allora – resta una tappa da viaggiatore che va oltre l’odioso dovere “scolastico” che prima o poi ti porta in certi luoghi sotto lo sglogan meglio tardi che mai.

MEMORIE REMOTE TRA TEATRO E GLI ANNI DEL VITTORIALE

Eppure a D’Annunzio non ci sono arrivate tra le solite paginette imposte di antologia ma attraverso una scorciatoia sottovalutata: il teatro, tra i copioni di Francesca da Rimini e La figlia di Iorio, lo studio matto e disperatissimo su Eleonora Duse sotto la guida dello storico napoletano di teatro Franco Carmelo Greco, un incontro che mutò il mio destino di ribelle adolescente.
Non avevo compiuto ancora quidicianni e mi trovai, in un camerino di periferia, attaccato alla giacca del gigante pirandelliano Salvo Randone, classe 1906, l’attore siracusano cresciuto sui palcoscenici di fine anni ’20 a metà strada tra i viventi Pirandello e D’Annuzio. Quella sera su Randone annusai lo stesso dopobarba di mio nonno e, allo stesso tempo, quel profumo del tempo che ti portava diritto agli anni dannunziani del Vittoriale. In visita li ho ritrovati guardando la sterminata bellezza dell’anfiteatro che abbraccia il lago di Garda.

D’ANNUNZIO, IL VITTORIALE E PROFEZIE MODERNE

Attraversare la casa dello scrittore a Gardone Riviera in questo tempo, dopo il buio di una pendemia e le bombe di una guerra che lacera l’Europa, non acceca il visitatore di estetismo e mito del superuomo raccolti tra le centinaia di oggetti raccolti.
Lascia una riflessione amara sui corsi e ricorsi storici, su come gli ultimi anni zeppi di lacerazioni e contraddizioni riabilitino per l’ennesima volta D’Annunzio dalla critica miope che sminuì la sua complessa opera per darla in pasto a visioni politiche estremiste e patriottismi guerrafondai.
Buttando l’cchio qui e lì mi è tornato in mente il D’Annunzio antesignano della pubblicità moderna – si deve a lui il nome dei famosi grandi magazzini la Rinascente – tra la femminilità attribuita al sostantivo automobile che fece la fortuna della Fiat degli Agnelli e la definizione di Liquore delle virtudi che divenne lo slogan dell’Amaro Montenegro.

D’ANNUNZIO E L’INFLUENCER MARKETING

Quanti influencer che affollanno le nostre bachece social sanno di dover qualcosa a Gabriele D’Annunzio? Senza le sue illuminazioni da influencer marketing, assiepate nella prima parte del secolo scorso oltre il nome dei biscotti Saiwa, chissà cosa ne sarebbe oggi dell’occhio stilizzato di Chiara Ferragni e di tanti loghi che risucchiano giri d’affari milionari. C’è ancora chi è convinto che una visita al Vittoriale sia soltanto un tuffo nel passato remoto?

In viaggio con Paola, da chef di Modena al suo “primo amore”: l’insegnamento

Adoro i treni locali, senza la fretta dell’alta velocità che cancella paesaggi e storie, perché mi permettono di sciorinare i colori del tragitto, con la giusta lentezza. Questi viaggi mi donano altri viaggiatori, altre storie che ispirano riflessioni e biglietti senza ritorno. Paola si siede di fronte a me, accanto a mia moglie, diventa il mio interlocutore mentre il treno si allontana dall’Emilia per guardare in fondo la Toscana: la sua Modena è gemellata con la mia Napoli che lei conosce bene: ne parla come un’innamorata cronica che predilige i pregi tra le scorribande con i figli in via dei Tribunali e lo stupore della bellezza del Cristo Velato, come se in un’altra vita fosse stata una napoletana del centro storico.

DA MODENA COME SU UNA DILIGENZA

Di stazione in stazione, di storie in storie, mi sembra di conoscere Paola da sempre quando mi racconta di Modena e io ribatto tra i ricordi di gioventù nella sua città e il concerto di Pavarotti a Hyde Park del ’91: per un figlio d’operaio quale ero io fu come prendere la luna con un lazzo, a Londra.
Man mano che ci avviciniamo all’Appennino parmense, come se fossimo su una diligenza del vecchio West, Paola mi racconta dell’estati con la famiglia in Liguria: lei fa parte delle generazioni modenesi che andavano in direzione contraria al mare romagnolo. Si parla di musica, dei vinili che le passavano i cugini più grandi, dei gusti musicali e cinematografici tra Frank Zappa, il Banco del Mutuo Soccorso, Vasco e De André; il Va Pensiero di “VIVA VERDI” che fece tremare gli austriaci, il magistrale Mastroianni e la Loren in Una giornata particolare di Scola, che nell’adolescenza degli anni ’70 la fecero volare come una libellula sul maschilismo becero. E poi il primo concerto di Faber che non si scorda mai, le incursioni letterarie, i nostri dialoghi che brancolano tra il buio e l’omertà degli Anni di Piombo e lo sfascio della Prima Repubblica, tra l’impegno civile degli anni ’70 e l’appiattimento dei social network.

TRA LE ALPI APUANE E UNA SPERANZA DI PACE

Superato Pontremoli, Paola mi racconta la bellezza di questo piccolo borgo e poi mi lancia la domanda a bruciapelo: “Cosa ne pensi di Ezra Pound?”. Come se mi avesse letto negli occhi, perché tanti versi del poeta americano avevano dirottato le mie letture universitarie oltre la siepe dei pregiudizi e del legame di quest’ultimo con il Fascismo e il Nazismo.
Paola mescola ricordi di vita vissuta alle Alpi Apuane, ingoia l’incanto delle cave di marmo di Carrara dietro gli occhiali, l’amore per Alberto nel luccichio delle pupille, fin dai tempi dei banchi del liceo e la loro crescita tra contestazione e passioni politiche. I lampi accecanti di questo sole d’aprile, a ridosso di Sarzana, sembrano in lontananza le bombe in Ucraina, smorzati poi dagli appunti di un’insegnante modenese che trae dall’infanzia smisurata ricchezza: la bambina ucraina che prende per mano la piccola coetanea russa nel cortile di una scuola emiliana e il trattenersi insieme fino al tramonto disegnano i contorni dI una speranza di pace.

DA APPREZZATA CUOCA MODENESE A INSEGNANTE LUNGIMIRANTE

Dall’entroterra passiamo alla costa del mare toscano e i nostri discorsi sfumano, oltre la Versilia, fino all’arrivo nella stazione in cui Paola scende dal treno. E’ solo in quel momento che capisco chi fosse davvero il mio interlocutore: la chef Paola Corradi che, insieme al sommelier Alberto Vaccari, ha segnato la storia degli ultimi quarant’anni dell’arte culinaria a Modena, prima gestendo la famosa Osteria Francescana ceduta allo stellato Bottura e poi la Cucina del Museo, ristorante apprezzato e osannato dai colleghi della stampa. Dopo la scomparsa prematura di Alberto, Paola è tornata alla passione giovanile dell’insegnamento, rispolverando il diploma di maestra.
Questo diario di viaggio è dedicato a Paola e a tutte le donne come lei che, per intelligenza, sensibilità, spessore e professionalità, non hanno bisogno di ostentare come tanti provinciali al pascolo sui social network, che vorrebbero passare per ciò che non sono.


VIAGGI, VIAGGIATORI E RINASCITE

I viaggi sono fatti anche dai viaggiatori e non solo dalle destinazioni. E quando di rado accade di incrociare un compagno di viaggio speciale, senza accorgersene si allarga la famiglia sulla strada della vita. A quest’ora Paola avrà già preparato per suo figlio la Sacher torte mentre una stella cadente, Alberto, si sarà posata sull’isola dell’Elba.
Pasqua è rinascita e questa è una gran bella storia di rinascita, donata anche a chi come me ha deciso di non trascorrerla seduto alla solita tavola tra pastiera e uova di cioccolato. Volevo raccontarvela.

Chef Marco Bezzi e le memorie future del principe della cucina della Valcamonica

Cover Foto by Lacciosciolto

Non è una leggenda alpina. Il risotto al fatulì dello chef Marco Bezzi, principe della cucina della Valcamonica, mi conquistò a tal punto che una quindicina d’anni fa affiancai alla cultura montana quella mia d’origine di uomo di mare. Il suo inconfondibile risotto mangiato sul Tonale, sospeso sulle Alpi a 2.000 metri d’altezza, attuò il sortilegio: fu come mischiare le pagine letterarie di Il vecchio e il mare di Hemingway con quelle di La montagna incantata di Mann.

BEZZI, ANTROPOLOGO DELL’ARTE CULINARIA CAMUNA

Non dimentichiamo che la cucina autentica della tradizione, quelle delle nostre nonne e bisnonne per intenderci, tiene al riparo la memoria dalle intemperie di questo tempo furibondo che, a furia di rincorrere con affanno il futuro, la vorrebbe sbiadire tra chef ipertelevisivi, stizzinosi vezzi gourmet, collezioni di stelle da appendere alle insegne.
Lo chef Marco Bezzi riesce a spingermi alla follia dei 350 chilometri percorsi nella stessa giornata perché, dal tempio del suo ristorante Sanmarco di Ponte di Legno con un nuovo interior design, continua ad essere l’antropologo dell’arte culinaria camuna senza troneggiare, con umiltà, sempre con un piede sotto il podio.


ANTICHI SAPORI E MEMORIE COLLETTIVE

Prima o dopo il tunnel della pandemia, lui continua a ripetere come un mantra “Quando qualcuno passa a trovarmi, nei miei piatti incontra territorio e tradizione, con una punta di innovazione che non guasta. Mai sgualcire la memoria culinaria della mia Valle Camonica”. Fuori dal Sanmarco c’è una nevicata d’aprile, tutto è così magico in questa bizzarra primavera.
Mentre assaggio la carne salata della valle, il formaggio silter, la spongada, il pane dolcesalato della nonne camune, i suoi Gnoc de la Cua De.Co. gli occhi si perdono improvvisamente in un ricordo: il mio reportage avventuroso sul Montozzo, nel Parco dello Stelvio, tra le trincee della Grande Guerra, dove tanti ragazzi camuni persero la vita. Il sapore forte del silter invoca il ricordo commovente delle mamme camune che mettevano un pezzo di formaggio nella tasca delle divise dei loro figli verso il fronte, mai più di ritorno.

STILE, PASSATO, MODERNITA’

L’interpretazione di Marco Bezzi della tradizione culinaria montana è caratterizzata da stile, passato e modernità e fanno con naturalezza del buon cibo un ponte tra ciò che eravamo e ciò che saremo: basta inforchettare le Piode di Monno con burro, salvia e pancetta o i Calsu danzanti tra lardo croccante, l’immancabile polenta e il silter dop.
Così le piccole provocazioni dello chef ad alta quota ti lasciano sempre lo stupore sul palato: dal Cuz di Corteno Golgi, lo spezzatino risalente alle invasioni delle tribù ungheresi, alla spongada. Chi lo avrebbe mai detto che dall’antipasto avrei ritrovato il pan focaccia delle nonne camune a fine degustazione, dopo aver spodestato i savoiardi, nel suo delicato Tiramisù, infiammato sottopelle dal bombardino.

Lo chef di Ponte di Legno non è solo il principe dei fornelli della valle, ma è un attento e puntiglioso conoscitore del territorio. La lunga esperienza ai vertici di punti di riferimento di settore come RistoLombadia, Associazione Pubblico Esercizio di Ponte di Legno e Associazione Ristoratori Valcamonica, lo portano ad essere pragmatico e sempre in difesa delle piccole e medie realtà locali della ristorazione.
Bezzi non ha peli sulla lingua e non smetterà mai di urlare a tutela di quest’ultime. perché danno un grande contributo alla crescita dell’economia locale.


LA NEVICATA DI CHI CI GUARDA DA LASSU’

Intanto la neve d’aprile è aumentata, mi ritrovo in direzione di Edolo, la strada per il ritorno è ancora lontana. Mentre Marco guida, raffiorano ricordi comuni, i nostri papà, l’eredità di valori e il loro sguardo da lassù. Lo chef della valle e il giornalista napoletano sembra il titolo di un film ambientato ad alta quota, invece no siamo noi disciolti nella commozione, nel silenzio dei fiocchi di neve. Ogni volta che ci torno, in Valcamonica, ci lascio il cuore. Per dirla alla Ed Viesturs, a chi mi chiede “Perchè vai in montagna?” rispondo: “Se me lo chiedi non lo saprai mai”.

Viky’s a Milano e l’hamburger angloitaliano che accorcia le distanze post-Brexit

Cover Photo by Lacciosciolto

Metti un gustoso hamburger di Fassona, eccellenza italiana della piemontesità, dato in matrimonio a un buon partito di Cheddar, proveniente dall’omonimo villaggio inglese nella contea del Somerset, e possiamo dire addio (o quasi) alla Brexit e al passaporto d’oltremanica. A Milano finalmente c’è Viky’s Burger Queen, l’hamburgeria dove Italian style e British sentiment stanno bene insieme, nei sapori e nell’ambiente.

HAMBURGER, JUNK FOOD? ACQUA PASSATA

Quelli come me, che ebbero la fortuna di mettere piede a 14 anni nell’Inghilterra di fine anni ’80, si accorsero già allora che l’affossamento dell’hamburger a cibo spazzatura era un pregiudizio relegato al nostro Belpaese e al suo provincialismo. In Gran Bretagna era tutt’altra storia allora e d’estate io azzannavo buoni hamburger nel Kent, dai furgoncini alle fiere di Margate ai locali della vecchia Inghilterra, nel cuore di Canterbury. E se volete saperla tutta, proprio nei pressi della famosa Cattedrale anglicana, colsi in flagrante un anziano prelato godersi il suo hamburger su una panchina.

VIKY’S BURGER QUEEN E IL GIUBILEO DI SUA MAESTA’

L’hamburgeria di via Losanna 11 è stata battezzata non a caso nel 2022, anno del Giubileo di Platino per i 70 anni di regno della regina Elisabetta. A sua Maestà è stato dedicato il Queen Burger, un ponte di sapori in contrasto tra Italia e Inghilterra: hamburger di fassona piemontese, brie, speck, melanzane grigliate, maionese al basilico. Roba da far leccare i baffi a qualsiasi sovrano che si rispetti.
Facendo anche asporto attraverso i principali canali web di food delivery, suggeriamo allo staff di Viky’s Burger Queen di organizzarsi per consegnare alla regina Elisabetta, direttamente a Buckingham Palace, il mitico hamburger a lei dedicato accompagnato da sfiziosità come i crostoni e i dolci Viky’s bun con gelato soft. Povera Meghan, non me ne voglia! La duchessa di Sussex si pentirà delle fuga con il principino Harry dall’altra parte dell’Oceano, appena saprà di tutto questo “ben di Dio” a palazzo reale.
Cosa ne dice Meghan di fare una scappata a Milano per riprendersi “il trono mancato” e concedersi un selfie sotto la corona illuminata di Viky’s Burger Queen?

TRE ALBUM PER 3 HAMBURGER

Per augurare lunga vita a Viky’s Burger Queen di Milano ho scelto dal mio archivio tre vinili, che hanno scritto la storia della musica inglese nel mondo, da accostare al gusto di tre panini preferiti proposti dall’hamburgeria angloitaliana.

Per il Queen Burger (hamburger di fassona piemontese, brie, speck, melanzane grigliate, maionese al basilico) ci vuole un LP regale, Abbey Road dei Beatles del 1969, che si chiude con il motivetto di Macca dedicato alla regina Elisabetta: “Her Majesty’s a pretty nice girl But she doesn’t have a lot to say Her Majesty’s a pretty nice girl But she changes from day to day.”

Il Viky’s Burger osa con il suo abbinamento di gusto (hamburger di fassona piemontese, pomodoro, anelli di cipolla rossa di Tropea, insalata, cetriolo, salsa Viky’s) e perciò si merita Heroes di David Bowie, registrato a Berlino e pubblicato nel 1979: “We can be Heroes, just for one day We can be us, just for one day,”

Per il Rock Burger (hamburger di fassona piemontese, provola fresca affumicata, zucchine grigliate, Nduja calabrese, insalata) ci vuole la potenza della voce di Freddie Mercury e gli scivoli sonori di A Kind of Magic dei Queen. Uscito nel 1986, l’album contiene il brano ricco di suggestioni Who Wants to Live Forever che anticipa la dipartita prematura di Freddie e la sua immortalità artistica.

Il 19 marzo e l’onomastico che ti restituisce Peppe Tanzillo

In Copertina: Foto di scena di Antonio La Peruta

Dove sono nato e cresciuto l’onomastico non era da meno del compleanno. I nomi ci rendono unici e irripetibili, ci legano a Dio per sempre e noi gente del Sud lo teniamo sempre a mente. Il 19 marzo, San Giuseppe, mi restituisce intatto il ricordo di Peppe Tanzillo, un amico della periferia di Napoli.

PIACERE, PEPPE

Di quella lunga tavolata di Pasquetta nella primavera del 1988, che guardava in lontananza gli stabilimenti della Montefibre di Acerra e dell’Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco, ero l’unico adolescente in mezzo ai più “grandi”. Giovanni, Tiziana, Umberto e Vittoria mi sedevano accanto, mi svestirono di quell’aria ingessata e mi fecero sentire a mio agio per tutto il pomeriggio. Tiziana, che sapeva della mia passione sfrenata per la lingua inglese, si alzò di botto, mi condusse dall’altra parte della tavolata e mi presentò un trentenne dalla faccia simpatica, allora insegnante di lingua e letteratura inglese in una scuola paritaria.
“Piacere, Peppe”, esordì lui e cominciò a declamare filastrocche in inglese come se fosse un attore girovago del teatro elisabettiano venuto da un tempo lontano. Io gli feci il verso e mi piantai a stonare il paradigma dei verbi irregolari come se fosse una canzone dei Beatles. Sulla fragorosa risata del “professore dal sorriso sornione” riconobbi il fratello maggiore che non avevo mai avuto.

SULLA STRADA DI PERIFERIA

Nonostante la distanza anagrafica e le diversità generazionali Giuseppe Tanzillo, in arte Peppe, è stato una delle persone più vere conosciute sulla strada di periferia, in un tempo extraterrestre in cui i legami si sedimentavano “miezz’a via” senza i filtri amorfi della globalizzazione digitale.
Peppe che correva avanti e indietro con le scartoffie scolastiche nella borsa in pelle; Peppe che mi suggerì il dizionario inglese delle frasi idiomatiche che avrei comprato a Londra anni dopo; Peppe che mi presentò la fidanzata – la mia amica Tania delle messe domenicali – e poi moglie per sempre; Peppe che prese dalla culla un fagottino, mi indicò il figlio Vincenzo e io “Vicienzo come Vincenzo Scarpetta?”; Peppe che mi prestò una moneta da 200 lire per telefonare da una cabina pubblica mamma infuriata che mi dava per disperso, mentre noi eravamo su una panchina a tradurre i sonetti di Shakespeare.

GIOSTRA TRA VITA E PERSONAGGI

Peppe, nella vita Giuseppe Tanzillo, ha custodito, dietro la giostra dei suoi personaggi e del suo trasformismo brillante in palcoscenico, l’autenticità della persona lontana dalla superbia e libera dai compromessi a cui è condannato chi deve apparire per non essere sé stesso.
In questa foto di copertina del 1996 – una sorpresa di Domenico Cantore autore del cortometraggio Blù in concorso al Festival del Cinema di Salerno e alla Rassegna Visioni Italiane della Cineteca di Bologna – mi ritrovo ventenne insieme a Peppe quarantenne. Sullo sfondo della periferia di Napoli da protagonista vestiva i panni, lungo lo scivolo di sogni e solitudini, di un fattorino di una piccola tv locale che consegnava i prodotti delle televendite.

MI SENTI, SONO IO…

Questa vecchia foto è incredibile, ci presenta con quelle “inguardabili canottiere” che restano l’anti-sex symbol di noi ragazzi del Sud di ieri, strafottenti del mito di cartone del latin lover.
Oggi, 19 marzo, guardo lo scatto con profonda commozione e mi sembra che il mio personaggio urli a Giuseppe Tanzillo “Mi senti, sono io, mi senti…” nell’assordante rumore di un’epoca frenetica che tende a spazzare via memoria e ricordi, offendendo il bene profondo.
Quando ho capito quale muro fosse a separarmi da Peppe Tanzillo, vi ho ritrovato scolpite queste parole:

Qui ove il fremito delle umani passioni non giunge ed ove l’insana malvagità degli uomini s’arresta, le lacrime e le preghiere dei defunti confortano e sollevano lo spirito.

Un giorno ci ritroveremo, sulla strada.

Battiato, canzoni

I miei viaggi in Europa tra le canzoni di Franco Battiato

Nei 32 anni di viaggi che mi hanno fatto toccare 60 Paesi e 5 continenti le canzoni di Franco Battiato hanno ispirato la scelta di alcune destinazioni o ne sono state colonna sonora. In entrambi i casi i versi e la musica del genio siciliano mi hanno accompagnato nelle esplorazioni da vagabondo, contribuendo a lasciarmi addosso le atmosfere e l’identità di ciascun posto. Cominciamo dall’Europa.

BERLINO

A Berlino ci sono arrivato a quasi vent’anni dalla caduta del Muro, ma per fortuna ai tempi Alexander Platz custodiva ancora il fascino di crocevia tra la Germania dell’Est e quella dell’Ovest. Alloggiavo a Berlino Est in uno stabile che, fino alla caduta della cortina di ferro, era stato ex prigione. Credo di aver consumato Giubbe Rosse, primo album dal vivo di Battiato del 1989 contenente l’omonima canzone. In realtà Alexander Platz era stata regalata alla grande Milva per l’album prodotto dallo stesso Battiato “Milva e dintorni”.

La bidella ritornava dalla scuola un po’ più presto per aiutarmi
“Ti vedo stanca
Hai le borse sotto gli occhi
Come ti trovi
A Berlino Est?”Alexander Platz
Auf Wiedersehen
C’era la neve
Faccio quattro passi a piedi
Fino alla frontiera
“Vengo con te”

VARSAVIA

In Polonia in realtà c’ero andato per un reportage e avevo chiesto di intervistare quella generazione di anziani che avevano visto la loro Varsavia rasa al suolo dalle bombe. Mi portarono nel quartiere Praga, l’unica zona della capitale polacca che era stata risparmiata. Durante la chiacchierata mi balenavano in mente i versi di Radio Varsavia, celebre brano antimilitarista di Battiato del 1982.
Appartiene ad uno dei vinili che ho consumato di più, L’Arca di Noé. Lo guardavo nelle vetrine dei negozi tra gli addobbi natalizi. Il disco, infatti, era uscito a ridosso del Natale del 1982 e io non arrivavo in altezza alla gonnella di mia madre.

E i cittadini attoniti
Fingevano di non capire niente
Per aiutare i disertori
E chi scappava in occidente
Radio Varsavia
L’ultimo appello è da dimenticare
Radio Varsavia
L’ultimo appello è da dimenticare.

BELFAST

L’Irlanda del Nord è stata per me una destinazione della memoria alla ricerca di testimonianze e luoghi della guerra sanguinaria tra cattolici e protestanti. L’arrivo a Belfast e la lunga camminata tra i murales di Falls Road mi aveva riportato ai rumori delle bombe sentiti in tv, agli anni sanguinari della repressione thatcheriana, alle battaglie dell’attivista e rivoluzionario Bob Sands. Ecco che ad accompagnarmi c’è stata un’immagine dal brano di Battiato Voglio vederti danzare, sempre estratta dal vinile di L’Arca di Noé del 1982.

Nell’Irlanda del nord
Nelle balere estive
Coppie di anziani che ballano
Al ritmo di sette ottavi…

TIRANA E SOFIA

La stessa canzone l’ho ritrovata in Albania, una delle tappe del mio on the road mozzafiato del 2009 dei Balcani. Un’alba a Durazzo segnò l’arrivo in questa zolla di terra dell’ex Jugoslavia, ma fu passeggiando nella vecchia Tirana che sbucò di nuovo Franco Battiato.

E Radio Tirana trasmette
Musiche balcaniche mentre
Danzatori bulgari
A piedi nudi sui bracieri ardenti.

La seconda parte della strofa si conficcò in testa a Sofia, che mi regalò un momento emozionante: il silenzio dei bulgari per commemorare i loro caduti in guerra e questo falò di preghiere che si elevavano verso il cielo della Bulgaria.

ALBANIA

Mentre ero su un autobus sgangherato che mi portava dall’Albania verso il Montenegro, stralunato tra i paesaggi dell’entroterra albanese, ecco che spuntò Strade dell’Est, una gemma del disco del 1979 L’era del cinghiale bianco. Ricordo quando Battiato venne a presentarlo in una puntata del programma di Boncompagni Discoring.

Carichi i treni che dall’Albania
Portano tanti stranieri in Siberia
Tappeti antichi, mercanti indiani
Mettono su case tra Russia e Cina
Strade dell’Est

LISBONA

Prima della della traversata in Sudamerica, il mio vagabondaggio in Portogallo vi ha spianato la strada. Lisbona mi è rimasta nel cuore, vi ho ritrovato molto della Napoli dell’infanzia. La colonna sonora dei giorni trascorsi nella capitale portoghese è stata sicuramente il suono del fado di Amália Rodrigues e Mariza, passato e futuro della tradizione musicale locale.
Tuttavia, proprio mentre sgranocchiavo un dolcetto nel quartiere di Belem, spuntò la canzone di Battiato Segunda-Feira, tratta dal disco L’imboscata del 1996 e scritta a quattro mani con il filosofo Manlio Sgalambro.

Ti porto con me
Segunda-feira de Lisboa
Nel mio antico mare
Nell’Acqua Occidentale
Nel Mediterraneo
Affollato di navi
E corpi d’ignudi nuotatori.

Io sono quello che odia il lunedì così come Mafalda di Quino detesta la minestra, con la stessa intensità se vogliamo dircela tutto. La coppia Battiato-Sgalambro con il suo tocco filosofico ha captato questo stato d’animo che appartiene a ciascuno di noi. La lingua portoghese lo denuncia bene con il termine “lunedì” che letteralmente si traduce come “secondo giorno”, ovvero secondo dopo la domenica, “segunda-feira” appunto.

Segunda-feira de Lisboa
Che nome d’incanto
Qui da noi è lunedì
Soltanto.

La Genova di De André nel silenzio della pandemia

Genova per noi nel silenzio della pandemia, come se questo viaggio di ritorno in una delle città che più mi appartiene fosse una soffusa liberazione dalle catene dei lockdown a colori. La mascherina agevola la mescolanza nel flusso di coscienza della comunità e, allo stesso tempo, impedisce alle mandibole e al respiro di muoversi liberamente. Il mondo di Fabrizio De André diventa la tua ombra, passo dopo passo.

DAL LETAME NASCONO I FIOR

In via del Campo – conosco a memoria ormai ogni angolo – di Bocca di Rosa neanche il fantasma e mi chiedo abbassando lo sguardo quanto tempo Faber abbia impiegato per scrivere quella strettoia poetica divenuta patrimonio dell’umanità: “Dai diamanti non nasce niente Dal letame nascono i fior“.
C’è sempre qualcosa che profuma di De André in questo silenzio pandemico e surreale, in questo vuoto dei crocieristi di un tempo sbarcati dalle navi con l’affanno di collezionare selfie: “Come è bello il mare, quanto dura una stanza. È troppo tempo che guardo il sole, mi ha fatto male”.

IN UNA MULATTIERA DI MARE

Risponderebbe l’altra anima salva, Ivano Fossati, che “Chi guarda Genova sappia che Genova Si vede solo dal mare Quindi non stia lì ad aspettare Di vedere qualcosa di meglio, qualcosa di più”.
Sì, tutto viene fuori per ritornare nel mare, come quello del viaggio musicale di Faber e Mauro Pagani in Creuza de mä, uno degli album più pittorici della nostra discografia:

E ‘nt’a barca du vin ghe naveghiemu ‘nsc’i scheuggi
emigranti du rìe cu’i cioi ‘nt’i euggi
finché u matin crescià da puéilu rechéugge
frè di ganeuffeni e dè figge
bacan d’a corda marsa d’aegua e de sä
che a ne liga e a ne porta ‘nte ‘na creuza de mä.


STAGLIENO

Tradurre questo genovese è una bestiemma, sembra quasi di sbucciare la poesia: “E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli emigranti della risata con i chiodi negli occhi finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere fratello dei garofani e delle ragazze padrone della corda marcia d’acqua e di sale che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare.
Sì, tutto ritorna nel mare, come le ceneri di Faber. E quando mi perdo nel cimitero monumentale di Staglieno, tra il ricordo risorgimentale di Mazzini e l’incontro indimenticabile con Nanda Pivano, mi rendo conto che è una lurida sciocchezza cercare De André oltre una lapide gelida, adesso che le sue ceneri appartengono al mare di Genova, che la difesa del suo patrimonio cantautoriale rimane un faro nella traversata del vuoto di oggi e delle sue strambe ovvietà.

NEL SILENZIO DELLA PANDEMIA

La Genova di De André nel silenzio della pandemia mi appartiene comunque e non occorre essere un genovese di razza per notare le ambulanze senza sosta, che in direzione del Pronto Soccorso del San Martino ci raccontano anche che la guerra contro il Covid è ancora in corso e non bisogna smettere mai di abbassare la guardia. Eppure in questo silenzio struggente, amalgamato al mondo poetico di Fabrizio De André, c’è un mucchio di luride parole che dissacra la memoria delle vittime del Ponte Morandi:

“Io non ci ero mai andato a Genova a vedere questo ponte mi han detto: ‘Fai l’analisi dei rischi catastrofali’. E io: ok”.

Questa intercettazione del 28 marzo 2019, che incastra l’incaricato di classificare il rischio del ponte crollato con 43 vittime, rimbomba nella Genova pandemica e batte l’ennessimo colpo d’ascia alle famiglie delle vittime e a tutti noi che aspettiamo giustizia.