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A Piccoli Passi: Perché ho sposato un’educatrice di asilo nido

Quando ho sposato un’educatrice di asilo nido sapevo che sarei tornato a sbirciare nel mondo dell’infanzia. Le piccole storie di un asilo nido comunale del milanese mi hanno accompagnato negli ultimi due anni. E se non era mia moglie a darmi corda nei racconti, ero io stesso a dargliela. E adesso chi lo dice a Gabriele e Caterina che si è conclusa l’esperienza dell’asilo nido in vista di una nuova avventura?

LUSA

Tutte le volte che il piccolo Gabriel mangiava una vocale e chiamava la sua educatrice “Lusa”, sono tornato in Albania, nei giorni di quell’incredibile viaggio on the road verso Tirana. Tengo stretta ancora tra i cimeli la statuetta della donna che in una notte cucì la bandiera dell’indipendenza albaese. La giocosità di Brayan, quando si infilava nel lettino, e i suoi occhi chiari mi hanno fatto ritrovare l’alba sul mare di Durazzo che fronteggiava l’Italia.

FRATELLANZA

La generosità del piccolo Adam e il suo continuo buttare l’occhio al fratello e sorella minore Yassin e Sofia mi hanno fatto tornare alle elementari, ai tempi in cui sbirciavo nell’aula di fronte: accanto alla porta era seduta mia sorella minore. L’infanzia è il tempo privilegiato in cui germoglia quel barlume di protettività che farà, negli anni avvenire, della fratellanza una congiuntura della vita.
E Martolina, piccola acrobata da una sala all’altra, ripeteva agli altri: “Luisa è amica mia”. A te, cara Marta, che hai rotto la barriera immaginando di prendere un caffè con la tua educatrice, dedico i versi della canzone dei Beatles Martha my Dear.

IL PICCOLO PRINCIPE E LA LUCE DELL’EST

“E pecché?”, ripeteva Manuel che senza saperlo aveva già il mantello esistenzialista del Piccolo Principe. Del resto la curiosità del piccolo per l’universo circostante lo accostava al personaggio di Saint-Exupéry così come la luce dell’Est, nello sguardo delle radici di Veronica e Emily, mi ha fatto immaginare il prossimo viaggio sulla rotta di Kiev e Chişinău, in auto con alla guida il mio amico di sempre Luca.

E MMO’ VADO GIU’

Chi mi ha riportato a casa è stata Ambra dagli occhi vispi made in Sud, con i suoi capelli arruffati e la tenera “scugnizzeria” della mia Napoli, l’allerta “‘a bufera” accompagnata dalla sua mimica da eccellenza meridionale, i suoi slang che sono anche i miei: “E mmo’ vado giù”.
Senza saperlo Ambra mi fatto ritrovare il Vomero, quel quartiere napoletano dove dai microfoni di una radio regionale è partita una fetta della mia storia, le serate al teatro Diana, l’intervista in camerino a Pupella Maggio, quella volta a passeggio in via Luca Giordano in compagnia di Gino Rivieccio, gli appuntamenti con mio cugino Massimiliano davanti allo stadio Collana, i momenti spensierati al teatro Cilea tra Giacomo (Rizzo) e Rosalia (Maggio), il caffè pomeridiano a piazza Medaglie d’Oro canticchiando Tony Tammaro e Federico Salvatore per fare dispetto ai “chiattilli”, il segno della croce dinanzi alla madonnina a piazza Immacolata per dire “Pienzace tu, Maronna mia”.

IL NONNO GUARDASTELLE

Nel disegno di Asia, che ho scelto come copertina di questo diario, ci sono i colori del suo legame speciale con il nonno che assomiglia al mio. Ci sono anche le linee che tracciano il dolore per la sua dipartita improvvisa.
Cara Asia, il mio si chiamava Pasquale e, dopo trent’anni, sento ancora la sua mano sulla spalla destra, perché i nonni sono uno dei doni più belli di Dio. Affacciati alla finestra, le stelle più luminose sono loro che da lassù continuano ad illuminarci, al tuo è stato affidato il compito di guardastelle. E come hai ricordato, attraverso i versi di Cristina Bellemo, regalate alla tua educatrice:

Eccomi, sono pronto a ripartire. Non è mica finita, sai, la strada. Adesso vado in viaggio nella vita.

A PICCOLI PASSI

Buone vacanze a voi tutti che siete una speranza sospesa tra il presente e il futuro. Difendete la vostra libertà, la vostra italianità nel rispetto delle radici, perché la diversità è un serbatoio di ricchezza.
Ho sposato un’educatrice di asilo nido perché sapevo che queste storie, le vostre, avrebbero fatto rumore nella mia anima. Non dimenticate mai l’amore donato da ciascuna educatrice e da tutto il personale, custoditelo gelosamente per sempre.

Buona vita, cari bimbi… a piccoli passi!

I 70 anni di Jerry Calà nel ricordo della mia intervista alla Capannina

Jerry Calà compie 70 anni e mi torna in mente la fuga da Milano nell’estate 2005 per correre ad intervistarlo alla Capannina di Forte dei Marmi. Avevo espressamente chiesto che l’incontro con l’ex Gatto di Vicolo Miracoli avvenisse nella location dove, 23 anni prima, era stata girata una parte del film Sapore di Mare di Carlo Vanzina.

https://www.youtube.com/watch?v=mwfNpg9PAZ0

JERRY CALA’ E IL CINEMA ITALIANO

Io e Jerry ci trovammo seduti nel retrobottega del mitico locale della Versilia, tra casse di bottigliette di bibite e bustine di snack, qualche ora prima del suo One Man Show. In realtà la mia intervista virò su Calà e il cinema italiano, soffermandosi su quella che avevo definito la trilogia dei passaggi di consegna: Vado a vivere da solo di Marco Risi (1981), Sapore di Mare di Carlo Vanzina (1983) e Un ragazzo e una ragazza (1984) ancora di Marco Risi. Nonostante gli snobbismi degli intellettuali – quarant’anni dopo si sono sbriciolati come i castelli di sabbia – Calà aveva dimostrato in questi tre film che poteva fare ancora, che poteva fare altro.
“Mi fa piacere che tu abbia cominciato ricordandomi la scena finale di Sapore di mare, hai ragione lo scambio di sguardi e rimpianti tra me e Marina (Suma) fu una svolta anche per me. Di quel ciak per Carlo (Vanzina) fu buona la prima e l’operatore di macchina mi disse… Jerry sei stato grande”, mi raccontò Calà in quell’occasione.

https://www.youtube.com/watch?v=72k46WesRwQ

BASTA PARLARE DI CINEMA DI SERIE A O B

L’interpretazione di Jerry contribuì a trasformare i due film di Marco Risi sopra citati in manifesti autentici e romantici della mia generazione, cresciuta sotto l’ombrellone degli anni ’80. “Marco (Risi) sapeva come metterti a tuo agio sul set e questo atteggiamento ti aiutava a tirare fuori il meglio di te – mi spiegò l’ex Gatto di vicolo Miracoli – Non ho mai fatto distinzione tra cinema di serie A o B, questo lo lasciavo fare agli altri. Un film è un film quando arriva al cuore della gente, quando fa da specchietto retrovisore della tua vita.”

https://www.youtube.com/watch?v=x4SglSlgrhk

LIBIDINE, SLOGAN DI STRAFOTTENZA

Nell’intervista alla Capannina colsi la persona e non il personaggio abituati a vedere, il Calà che aveva fatto di “libidine” lo slogan di strafottenza da spiattellare ai fricchettoni che si prendevano troppo sul serio. Citai a Jerry gli ultimi versi di una poesia di Totò:

“C’è tanta gente che si diverte a far piangere l’umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla; manda, se puoi, qualcuno su questo mondo capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri.”

Jerry mi ricordò, in chiusura della nostra chiacchierata, che Totò era stato un grande maestro perché aveva saputo raccogliere gli stati d’animo di tutti, anche “di coloro che fanno il nostro mestiere e nascondono la tristezza personale per il bene del pubblico.”
Jerry mi salutò e mi ringraziò per le domande. Andò a cambiarsi per lo spettacolo, mentre il pubblico della Capannina lo attendeva e lo reclamava. Restai nel retrobottega e di sbieco tenevo d’occhio il palco. Poi si spensero le luci. La persona si fece showman e la sua ombra saltò sotto le luci della ribalta come un uragano. Ripensai a me bambino insieme alla mia famiglia in un cinema, alla periferia di Napoli, alla fine della proiezione di Sapore di mare. Correva l’anno 1983 e mi rimase impressa la celebre battuta che mise nero su bianco il passaggio di consegna tra la generazione dei miei genitori e la mia:

– Mamma, ma com’era l’epoca tua?

– Non so, era diversa. Ci batteva il cuore.

Peppino, Peppino, figlio dell’amore in quale vicolo batterà il tuo cuore…

Questa foto antica degli anni ’30 mi riporta con prepotenza nel cuore della mia Napoli, tra le pagine di storie private che, mattone dopo mattone, hanno costruito l’Italia del secolo scorso.
Le persone comuni come Peppino sono state la calligrafia di queste pagine dell’Italia povera ma bella, prima sotto le bombe della guerra, poi sotto la luce della rinascita, il boom economico degli anni ’50, le feste fatte in casa degli anni ’60 a ritmo di twist, e poi ancora vita, vita, tanta vita.

Peppino, Peppino, figlio dell’amore
In quale vicolo o strada, batterà il tuo cuore
In quale culla di pietra pura
Imparerai, la vita è un’avventura

Peppino è stato questo e tant’altro ancora. Nel centro storico di Napoli lo scambiavano per un attore hollywoodiano. Pochi sapevano che dentro il diluito del suo sorriso si nascondeva l’amore infinito per la madre Concetta, il dolore per averla persa troppo presto, l’essere diventato da un giorno all’altro l’ometto di casa, la sua protettività per la sorella Giulia e il fratellino Ciro.

Peppino, Peppino, tu la dovrai amare
Amare è dura e senza frutti al sole
C’è più coraggio nella fantasia
La vita tua diventa mia

C’è una scena che mi torna in mente tutte volte che penso a Peppino. L’ho immaginata tante volte, decenni dopo, sulle gambe di nonna Lucia. Lui con il fratello e la sorella sul’uscio di casa di mia nonna, in silenzio, come in un fotogramma del cinema di Vittorio De Sica.
L’Italia della rinascita era fatta anche di questo, di accoglienza, dell’amore di una zia per i nipoti, che da quel giorno si fece amore materno, incommensurabile.

E da solo andrai verso il mio domani
Con i tuoi occhi e con i miei occhiali
E non sei solo, solo nell’amore
Peppino dai i tuoi occhi al cuore

Quando penso a quel gesto d’amore del secolo scorso mi convinco che la classificazione e i gradi di parentela restano un’effimera invenzione degli uomini. E oggi più che mai continuo a calpestare le briciole dei vaporosi legami coltivati nei fiumi delle chat di Whatsapp. Chi ha avuto la fortuna e il privilegio di vivere legami densi, come quello tra me e Peppino, deve reagire alla pochezza dei giorni nostri: la vera ricchezza della vita è fatta di legami d’amore costanti e questo tempo in cui sopravviviamo lo ha dimenticato, se n’è privato per rincorrere l’effimero.
Nel vuoto per non averlo salutato l’anno scorso tra lockdown e pandemia, mi sento risollevato dal ricordo come quella volta in cui, dal bancone di una profumeria in via dei Mille, mi prese in braccio e mi presentò con orgoglio al suo titolare.

Cani randagi nella notte scura
La vita, no, non fa paura. (antonello venditti)

Di Peppino ne resterà uno solo in questa vita. Peppino, mio zio.

L’insolenza di Rino Gaetano contro le lobby 40 anni dopo

Gli anniversari servono a poco se finiscono seppelliti sotto le onde emotive. A quarant’anni dalla scomparsa prematura – me lo ricordo quel 2 giugno 1981Rino Gaetano e le sue canzoni insolenti sono ancora attuali. Nella sua discografia, strizzata in soli 6 album in studio, c’è un fil rouge: l’essenza antilobbista del Rino di allora che oggi torna a scottare. Come le canterebbe le lobby dei giorni nostri tra gay, vegani, influencer politicanti e animalisti incazzati?

LA MIA FIDANZATA DELL’INFANZIA: GIANNA CON UN COCCODRILLO

Ridatemi l’insolenza di Rino Gaetano. Mia mamma fu convocata all’asilo perché raccontavo ai miei compagni della mia fidanzata “Gianna che aveva un coccodrillo”. Nel 1978, da un televisore in bianco e nero sul frigo della nostra cucina, rimasi stregato dall’anarchico Rino Gaetano sul palco del Festival di Sanremo.
Tutti i pomeriggi, su un balcone alla periferia di Napoli, stonavo Gianna e il manico di scopa fregato a mamma faceva da microfono.

Rino diceva che “Ci sono persone pagate per dare notizie, altre per tenerle nascoste, altre per falsarle“. In Italia erano gli anni bui del terrorismo, alla periferia di Napoli della Nuova Camorra Organizzata cutoliana. Io cantavo Gianna alla ringhiera e, a pochi metri in linea d’aria, lo struscio locale mischiato alla politica losca rendeva omaggio a ‘O boss d’o paese circondato dai fedeli scagnozzi.

MA IL CIELO E’ SEMPRE PIU’ BLU

Ridatemi l’insolenza di Rino Gaetano perché fu profetica, lungimirante sotto “il cielo sempre più blu”: dalla disfatta della Prima Repubblica alle ingiustizie sociali, dalle morti bianche al razzismo oltre confine.

Quarant’anni dopo, punto. E ora che si fa “Aida, le tue battaglie I compromessi La povertà I salari…” tra i fantasmi del colonialismo? Ora che si fa, sputando in faccia a chi si sottomette alla routine e esaltando “Mio fratello è figlio unico Perché non ha mai trovato il coraggio d’operarsi al fegato E non ha mai pagato per fare l’amore E non ha mai vinto un premio aziendale“? Ora che si fa mentre Berta filava e “partiva l’emigrante e portava le provviste E due o tre pacchi di riviste E partiva l’emigrante ritornava dal paese“?

Ridatemi l’insolenza di Rino Gaetano perché, persino dando voce ad una cover, ha fatto germogliare la speranza di ricominciare dopo la sepoltura di una storia d’amore sotto la neve, a mano, a mano.

Ci risiamo, quarant’anni dopo. Come canterebbe Rino Gaetano le lobby dei giorni nostri tra gay, vegani, influencer politicanti e animalisti incazzati? Come canterebbe Rino Gaetano l’Italia dell’uscita dal carcere d’U verru, il boss pentito, che oltraggia la memoria della strage di Capaci?

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

Franco Battiato e il passaggio in Medio Oriente della mia generazione

La mia generazione, nata al’alba degli anni ’70, deve alla musica di Franco Battiato (1945-2021) gli occhi per guardare con privilegio il Medio Oriente. La colonna sonora del mio primo giorno delle elementari fu L’era del cinghiale bianco, che impazzava da una radio libera all’altra. Il maestro siciliano, per quella bizzarra capigliatura, mi faceva sorridere quando la domenica pomeriggio sbucava sul palco di Discoring, la trasmissione musicale di Gianni Boncompagni.

SGUARDI PRIVILEGIATI SUL MEDIO ORIENTE

La mia infanzia, a livello mediatico, è stata segnata dalle bombe che cadevano su Beirut e gli schizzi di sangue della faida tra israeliani e palestinesi. Con il tempo il canzoniere di Franco Battiato ha accorciato le distanze tra me e i miei coetanei di allora, finiti in disgrazia nel Medio Oriente turbolento: bambini, orfani di guerra, cresciuti sotto i lampi dei bombardamenti, a cui era stato sottratto il diritto allo studio per essere allevati con elmetti e fucili, come se non ci fosse via d’uscita dall’odio.

La musica di Battiato si è rivelata un varco provilegiato per quelli come me, i cui studi linguistici di impronta europeista non agevolavano il contatto con l’emisfero arabo. Brani come Da Oriente ad Occidente, Pasqua Etiopie, L’Egitto prima delle sabbie, Arabian Song, E ti vengo a cercare, sono state pure illuminazioni.
Meditazioni musicali che mi hanno fatto volare, prima di inserirle nella lista del mio giro del mondo, nella Teheran delle contraddizioni della rivoluzione di Khomeini, nella Gerusalemme crocevia di religioni e culture milleniare, nel Cairo del passaggio controverso del potere da Sadat a Mubarak.

BATTIATO, COLONNA SONORA TRA VIAGGIO E IMMAGINAZIONE

Le canzoni più filo-orientali di Battiato sono state la colonna sonora della mia lettura di Persepolis, graphic novel della fumettista iraniana Marjane Satrapi, o del mio viaggio verso Istanbul, su un autobus che dai Balcani mi catapultò sotto una delle porte che si aprivano sul Medio Oriente.
In quel ferragosto del 2009 in Turchia c’erano 1.400 chilometri che mi separavano dall’Iraq. Eppure la cover di Battiato di Fogh in Nakhal, canzone tradizione irachena udita nei pressi del Gran Bazar di Istanbul, cancellò improvvisamente le distanze e profetizzò ciò che avrei vissuto pochi anni dopo a Ground Zero: io e una studentessa irachena in una preghiera laica per le vittime dell’11 settembre.
L’opera di Battiato, complessa e multiforme tra filosofia, meditazione, religione, spiritualità e musica, ha il merito di aver abbattuto tanti muri, inclusi quelli dei malefici pregiudizi, senza cui la mia generazione non avrebbe fatto il suo passaggio in Medio Oriente: oggi la sua scomparsa, sotto le bombe del nuovo millennio tra Israele e Palestina, sembra chiudere il cerchio di una pace che tarda ad arrivare, anzi che forse mai arriverà.

NON C’E’ ADDIO PER UN UN ESSERE DEL COSMO

Agli altri l’affanno di etichettare Franco Battiato e la sua opera. Il ricordo della mia intervista a Milano una quindicina d’anni fa mi costringono a fare altro: lasciare galleggiare le sensazioni di quei momenti, come se davanti a me nel camerino ci fosse stato un essere del cosmo passato sulla terra, la cui generosità e spiritualità hanno reso la sua opera uno dei più grandi lasciti artistici in Italia.

E ti vengo a cercare

Anche solo per vederti o parlare

Perché ho bisogno della tua presenza

Per capire meglio la mia essenza.

L’altra Festa del Lavoro: il 1 maggio di Rosario Livatino, il giudice ragazzino

Nella folla degli slogan del Primo Maggio un amico avvocato mi ha ricordato il giudice Rosario Livatino, lavoratore instancabile ucciso dalla Mafia nel settembre 1990. Il prossimo 9 maggio “il giudice ragazzino” sarà proclamato Beato dalla Chiesa Cattolica. C’è l’altra Festa del Lavoro in questa affermazione di Livatino che dopo trent’anni dalla sua prematura scomparsa è ancora così attuale:

Riformare la giustizia, in senso soggettivo ed oggettivo, è compito non di pochi magistrati, ma di tanti: dello Stato, dei soggetti collettivi, della stessa opinione pubblica.

Recuperare infatti il diritto come riferimento unitario della convivenza collettiva non può essere, in una democrazia moderna, compito di una minoranza.

IL GIUDICE RAGAZZINO

Ai tempi i miei professori al liceo erano affannati a rincorrere i programmi ministeriali e raramente si affrontava con arguzia e intelligenza l’attualità. L’esemplarità di Livatino mi arrivò diritta al cuore al cinema, nel 1994, durante la proiezione del bel film di Alessandro Di Robilant Il giudice ragazzino.
Anni dopo raccolsi in un camerino di teatro la testimonianza di Regina Bianchi, l’attrice eduardiana che nella pellicola interpretò la mamma del Sostituto Procuratore di Agrigento ammazzato da Cosa Nostra: “Un grande esempio per tutti del quale comprenderemo il sacrificio negli anni avvenire”.

L’ALTRA FESTA DEI LAVORATORI

Nella parole della Bianchi si nascondeva una latente profezia. Ci sono voluti trent’anni di storia del nostro Paese, nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, tra contraddizioni e ferite mai rimarginate, compreso il sacrificio di martiri come Falcone, Borsellino, Piersanti Mattarella, per riportare alla luce lo spessore di questo instancabile lavoratore: sia faro in questo Primo Maggio di pandemia non solo per chi opera nella giustizia:

Il Giudice deve offrire di sé stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile; l’immagine di un uomo capace di condannare ma anche di capire; solo così egli potrà essere accettato dalla società: questo e solo questo è il Giudice di ogni tempo.

Rosario Livatino, lontano dai cliché dei giudici che abbondano nelle fiction televisive, ha costruito il suo lavoro di missionario nella giustizia sulle fondamenta di responsabilità, equilibrio, indipendenza.
La sua beatificazione – è il primo giudice beato della Chiesa Cattolica – arriva in un momento storico particolare e rimane un segnale di riflessione anche per chi riduce la santità ad operazione folcloristica:

Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili.

IL PRIMO MAGGIO DEL GIUDICE BEATO

I suoi compaesani hanno fatto la voce grossa per evitare che le spoglie del magistrato ammazzato sulla statale 640 siano spostate dal cimitero di Canicattì nella cattedrale di Agrigento.
Ritengo che la sua città e la sua regione debbano prima di tutto difendere la sobrietà di Livatino, tenendo il suo corpo mortale alla larga da chiunque tenterà di trasformare questa beatificazione in una squallida operazione commerciale e farci un ignobile giro d’affari. La santità di Rosario Livatino era scritta già in una profonda riflessione, che ciascuno di noi dovrebbe trascrivere, non solo chi opera nel campo del diritto:

Decidere è scegliere; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare.

Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio.

Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio.

Quanti se ne erano accorti?

Principe Filippo, un passo indietro please!

Ho messo piede la prima volta a Londra nel 1988, non avevo compiuto ancora 15 anni, per me era come essere arrivato sulla luna. Il Principe Filippo di Edimburgo era già coetaneo di mio nonno.

LE MUG SENZA IL PRINCIPE FILIPPO

Allora la popolarità dei Windsor si misurava con i souvenir in vendita su Oxford Street: le mug, i famosi tazzoni inglesi, erano le più gettonate e i volti più popolari erano la regina Elisabetta, la quasi novantenne Regina Madre e Lady Diana. Del Principe Filippo quasi niente e i turisti, sulla via del ritorno, si sarebbero giocati a sorte una delle “tre mug tutte al femminile.”
Io sono stato più diplomatico, ho dissipato le ultime sterline per regalare a mia madre una piatto da appendere alla parete che ritraeva Big Ben e Buckingham Palace, due icone londinesi, senza far torto a nessun reale.

IL CONSORTE DAL PASSO INDIETRO

Del Principe Filippo non se n’è parlato mai in questi ultimi 99 anni come in queste ore dopo il trapasso o nel ’47 quando il suo sangue greco si mescolò a quello di velluto di una delle dinastie reali più influenti d’Europa.
Non bisogna conoscere a memoria gli ultimi settant’anni di monarchia inglese per sapere che il Principe di Edimburgo sia “il consorte dal passo indietro”. Tuttavia, resta davvero infelice uno dei titoli dei nostri giornali: “Addio al Principe Filippo, ombra discreta della Regina Elisabetta per 70 anni”.

LE OMBRE NON SONO MENO IMPORTANTI DELLA LUCE

Ripeteva Charlotte Brontë, tra le mie scrittrici preferite dell’epoca vittoriana, che le ombre non sono meno importanti della luce”. Filippo sarà stato pure l’ombra di Lilibeth – questo era il soprannome di Sua Maestà appiccicatole dal principe consorte – ma ha saputo difendere fino alla fine il ruolo istituzionale nonostante il cinismo, le gaffe, l’aplomb a tratti altalenante, un lungo matrimonio reale fatto di rose e insidiose spine.
Appartiene a una razza in estinzione il Principe Filippo, che non uscì bene neanche dal pungente film The Queen dell’acuto Frears, interpretato dall’impeccabile James Cromwell. Lo ricorderemo nei libri di storia, lontano dai suoi nipoti e pronipoti schiavizzati da consorti volgari.
La Regina di Elisabetta ha perso “la sua fedele ombra” e il cammino in solitaria sarà faticoso.

Colapesce e Dimartino “vincitori morali” del Festival di Sanremo ai tempi del Covid

Antonio (in arte Dimartino) è cresciuto a Palermo e chissà se l’ho incrociato una quindicina d’anni fa, durante la mia estate a Mondello, dalle vecchiette che friggevano panelle a poca distanza dalla celebre spiaggia custode dei segni delle riprese gattopardiane.

Antonio aveva acceso una fiaccola in memoria dei giudici Falcone e Borsellino cantando in giro per la sua Sicilia insieme ai Famelika, ex compagni di viaggio, un brano a me particolarmente caro, Giovà, scoperto proprio durante quell’estate palermitana.
La canzone, che vi consiglio di ascoltare, sventolava in sordina la bandiera di protesta contro Cosa Nostra, omaggiando il cantastorie siculo Giova ucciso dalla mafia nel 1962.

Lorenzo (in arte Colapesce) è cresciuto a Solarino, ad una ventina di chilometri da Siracusa e come nome d’arte ha scelto quello di un’antica leggenda siciliana e delle gesta del figlio di un pescatore rimasto sott’acqua per non far sprofondare l’isola.

Pochi giorni prima del Natale 2009 mi capitò per sbaglio tra le mani la mitica Merry Christmas Darling dei Carpenter nella cover trasfigurata da una band siracusana, gli Albanopower. Su questa giostra strampalata di indie, new wave e pop c’era salito anche Lorenzo, il futuro Colapesce nel progetto da solista.

Colapesce e Dimartino, proprio in questi giorni Disco di platino per la loro canzone sanremese Musica leggerissima, hanno unito storie personali e artistiche della loro magica isola Trinakria.

Lorenzo e Antonio sono vincitori morali del Festival di Sanremo ai tempi del Covid prima ancora che a decretarlo fosse il Premio Lucio Dalla o il termometro della febbre musicale. Lo sono fin dall’esibizione della prima sera, in cui i baffetti alla Alan Sorrenti di Lorenzo ci hanno catapultati nella freschezza sperimentale degli anni ’70 e tra le elaborazioni melodiche degli anni ’80 di cui è cosparsa Musica leggerissima.

Per non parlare del bellissimo video, un fiume in piena di citazioni cinematografiche tra la poesia visiva di Fellini, il surrealismo di Buñuel infarcito del film beatlesiano di Magical Mistery Tour e l’introspettività di Bergman. Eppure la canzone Musica leggerissima è solo in apparenza il tormentone che ha contagiato i social e farà da colonna sonora alla prossima estate, perché nasconde la drammaticità di questo tempo covizzato sotto le ascelle dello slogan “andrà tutto bene”.

Colapesce e Dimartino hanno vinto Sanremo 2021 perché ci hanno fatto saltellare e ballare con leggerezza sugli assilli amletici del tunnel della pandemia come l’antimilitarismo di “Se bastasse un concerto per far nascere un fiore Tra i palazzi distrutti dalle bombe nemiche”, il precipizio della morte “Per non cadere dentro al buco nero Che sta ad un passo da noi, da noi”, la fede che vacilla “I tamburi annunciano un temporale Il maestro è andato via” o sugli squilibri del tempo della vita che corre veloce “Diventare adulti sarebbe un crescendo Di violini e guai”. Come hanno ribadito Lorenzo e Antonio:

La mortalità è un concetto oggettivo. Tutti vediamo i nostri corpi sparire, disintegrarsi, diventare altro.

Colapesce e Di Martino sono i nuovi outsider della Sicilia, figli della dea Giuni Russo e benedetti dallo Zeus dell’isola di Trinakria Franco Battiato, del quale ci hanno regalato l’emozionante cover Povera patria, dito nella piaga dell’Italia ammalata ancora dei corsi e ricorsi storici e “schiacciata dagli abusi del potere di gente infame, che non sa cos’è il pudore”.

Diego Armando Maradona, tutto in un abbraccio

Dal mio archivio l’edizione speciale dell’Intrepido: maggio 1987, scudetto n.1 del Napoli. Il 31 maggio 2005 ero tra i giornalisti accreditati alla Partita del Cuore a San Siro di Milano. Tra gli ospiti Maradona e di noi della stampa non ne voleva sapere. Passò negli spogliatoi, lo chiamai, pronunciai qualche parola in napoletano: “Diego, a me non puoi dire di no, nel 1984 c’ero anche io tra i bambini fuori dallo stadio San Paolo di Napoli ad aspettarti.”

Diego mi venne incontro, si era commosso, mi abbracciò, gli strappai una dichiarazione per l’articolo, i colleghi di Mediaset ripresero tutta la scena e a mia insaputa ne fecero un servizio tv.
Il giorno dopo l’abbraccio tra me e Maradona finì su Studio Aperto e TG5. Non mi accorsi di niente, la sera in una pizzeria milanese passando da un tavolo all’altro mi ripetevano: “Tu sei amico di Maradona?”. A risolvere il mistero fu la telefonata di mio zio Massimo da Napoli.

Non sono stato mai un giornalista sportivo ma quell’incontro fulmineo mi riportò ad anni indimenticabili della mia vita a Napoli, dove i goal artistici e unici di Maradona insieme a scudetti e trofei per la squadra della mia città si rivelarono un grande riscatto sociale e morale all’ombra del Vesuvio.

Il 25 novembre 2016 ero appena sbarcato a Buenos Aires, anche per mettermi alla ricerca dei suoi luoghi. Mi arrivò la notizia della morte di Fidel Castro. I giochi della vita. Qualche giorno dopo cazzeggiavo nel quartiere La Boca, a pochi passi dal mitico stadio di La Bombonera, casa calcistica del Pibe de Or.
Incrociai un gruppo di piccoli scugnizzi che palleggiavano. Mi chiesero da quale parte d’Italia arrivassi.
Appena pronunciai “Napoli” mi chiesero di Maradona. Gli raccontai allora del mio incontro e di quell’intervista di fretta e furia. Per un attimo ci fu silenzio e poi uno di loro mi battezzò con questo saluto: “Hola, amigo de Diego Armando Maradona”.

Carmine D’Amora, il capotreno Trenitalia che fa la differenza in Campania

I deficit del trasporto ferroviario regionale passano spesso ai doveri della cronaca, dimenticando il personale che può fare la differenza. Chi percorre come me migliaia e migliaia di chilometri in treno all’anno in Italia sa bene che il viaggiatore dell’Alta Velocità è più tutelato rispetto a quello di “serie B” del trenino regionale. Se poi capita l’inconveniente la forbiciata è ancora più ampia.

La Campania finisce spesso sotto l’occhio del ciclone per i disservizi del trasporto ferroviario locale, ma non si parla mai delle risorse che possono far luccicare Trenitalia in un momento di criticità.
Carmine D’Amora, ingegnere meccanico con lode di 27 anni, è un giovane Capotreno Trenitalia di Pompei, alla periferia di Napoli. Se non ci fosse stato lui sul treno metropolitano 26059 Caserta-Napoli Campi Flegrei, il ritorno nella terra in cui sono cresciuto sarebbe stato associato ad un venerdì nero: quante sono le probabilità di ritrovare un pacco dimenticato con documenti importanti?

La polizia ferroviaria di Napoli Centrale si è messa in contatto con Carmine, spiegando l’accaduto. Nel tratto metropolitano tra piazza Garibaldi e Mergellina, a prima mattina, il treno era zeppo di passeggeri e il giovane capotreno ha attraversato i vagoni, riuscendo a recuperare il pacco e tutto il suo contenuto. Non ho mai conosciuto di persona Carmine, perché in realtà la consegna è avvenuta in altre mani. Attraverso i social network mi sono messo alla ricerca di questo “eroe della ferrovia” per ringraziarlo e lui mi ha risposto con umiltà: “Ho fatto semplicemente il mio dovere, tutto qua”.

Aveva scritto un tempo lo scrittore e rivoluzionario cubano José Julián Martí Pérez “Aiutare chi ha bisogno non è solo parte del dovere, ma anche della felicità.” Carmine D’Amora lo ha messo in pratica con l’umiltà di chi è andato oltre il proprio dovere.
Un paio d’anni fa la mia Freccia da Milano per Napoli ritardò di mezz’ora. Fu avvertito il capotreno del locale corrispondente, per pochi minuti non volle aspettarmi e persi l’ultima coincidenza per Caserta via Cancello. Mi pagarono un taxi per raggiungere la destinazione. Questo per dire che non tutte le risorse di un’azienda sono uguali.

Viaggiando in 48 Paesi del mondo ho imparato che sul tuo cammino incrocerai spesso persone disposte ad aiutarti. Basta saperle intercettare. La routine e la frenesia ce lo fanno spesso omettere.
In Carmine ho ritrovato riflesso ciò che ero alla sua età, un ragazzo del Sud energico e pieno di voglia di realizzare tanti piccoli grandi sogni. Spero che questo gesto aiuti il suo datore di lavoro e tutti coloro accecati dal pregiudizio a confermare che il nostro Meridione può essere orgoglioso della generazione Millennials che il capotreno di Pompei rappresenta egregiamente.