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Sudafrica on the road: noi un pezzo di mondo in un van sulla Garden Route

Ci avevano piazzato in un van senza sapere quali fossero i nostri punti di contatto. L’unica cosa che sapevamo erano le nostre provenienze: Italia, Inghilterra, Olanda, Stati Uniti, Nuova Zelanda e Sudafrica. Quando percorri in lungo e largo la Garden Route, fioriera sudafricana tra Western e Eastern Cape, ti immergi dietro un sipario della natura.

Tra una remata e l’altra in quella canoa lungo uno dei fiumi del Garden Route National Park avevo trovato briciole della storia personale di Gareth, la nostra guida,  infanzia e adolescenza a Port Elizabeth, nonna scozzese, una nuova vita a Città del Capo.
La natura ti fa ritrovare i tuoi simili, perché durante una lunga scarpinata, incantato di fronte a un panorama, ascoltando la voce fragorosa dell’oceano puoi riconoscere chi affronta la quotidianità con quel pizzico di strafottenza e legarti inevitabilmente a lui.

Quei duemila chilometri on the road assieme a  Gareth, Sue, Eddy, Hanne, Bodhi, Lana e Sarah, mi avevano restituito il clima di condivisione tipico dei tempi in cui vai via da casa e ti barcameni in uno stile di vita autonomo.
La casa di Mark a Sedgefield era diventata, nel giro di qualche giorno, il punto di partenza e ritorno dalle nostre scorribande. Mark, nato e cresciuto a Johannesburg, era un perfetto padrone di casa: ospitale, accogliente, capace di preparare ghiottonerie con pochi giochi di prestigio ai fornelli.

Era la sera, dopo cena, sotto le stelle del Western Cape che ci aprivamo sorseggiando un bicchiere di vino, eravamo così lontani geograficamente ma vicini nel nostro modo di essere, frantumando le pareti che, a differenza di tanti, non ci hanno mai sottratti all’essenza di crescere come autentci esploratori della libertà.

Ci sentimmo un pezzetto di mondo, dentro e fuori quel van, guardando diritto negli occhi il crepuscolo oceanico di Jeffreys Bay, sperando che tutto questo non finisse mai. L’ingrata consapevolezza da quarantenne che non avrei rivisto più Gareth, Sue, Eddy, Hanne, Bodhi, Lana e Sarah fece improvviso spazio alla lucida speranza del instancabile viaggiatore: non li avrei dimenticati mai più.

 

Le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone. (J. Steinbeck)

 

Sudafrica on the road: Cartolina da Città del Capo

Non sono arrivato in Sudafrica dopo aver visto foto paesaggistiche su un catalogo turistico o per assecondare mode o tendenze di viaggio popolate da decine e decine di selfie che ammiccano ad organizzare la prossima vacanza qui. La mia prima volta in Africa sarebbe stata qui, in Sudafrica: lo promisi a me stesso sui banchi delle scuole medie quando mi vomitarono addosso il dramma dell’apartheid.

Mi sembra di essere tornato a New Orleans prima dello sfacelo dell’uragano Kathrina. Così mi appare a prima mattina Città del Capo, dopo 10 mila chilometri in volo sul continente africano.  Scivolo su Long Street fino al Waterfront, dove sono ormeggiate le barche.

Cape Town sembra una scorza di terra afro-americana e in quell’imbuto protettivo capeggiato dalla Table Mountain, una delle sette bellezze naturalistiche del mondo, è rinchiuso il piccolo mondo antico del colonialismo europeo. Di inglesi e olandesi ce ne sono a quantità industriale, la memoria evapora e le nuove generazioni venute a godersi la perla sudafricana forse neanche sanno degli orrori dei loro antenati.

A Greenmarket square converso con gli ambulanti dell’atmosfera del mercato, che mi riporta a quello della Duchesca della mia Napoli. Lungo il viale del parco che costeggia il Parlamento mi soffermo ad ascoltare i musicisti da strada e quelle incursioni jazzate che vorrebbero fare di Città del Capo la New Orleans musicale africana.

Il meteo è decisamente dalla mia parte, perché se arrivano i nuvoloni bastardi la Table Mountain te la sei giocata. Salgo in cima in cabinovia, vagabondo da un punto all’altro di questa zolla di parco nazionale. Il panorama è davvero mozzafiato. Da lì intravedo già le spiagge di Camps Bay che fanno di Cape Town l’amaca sull’oceano su cui chiunque vorrebbe crogiolarsi. Butto via le scarpe, al mio fianco c’è una famiglia di colore sudafricana che si gode le onde dell’oceano. Metto i piedi nell’acqua, è ghiacciata, faccio amicizia con i ragazzi: “Veniamo in spiaggia quando possiamo. Ci piacerebbe restare a dormire in una di queste belle case. Roba da ricchi, non certo per noi”.

Il luogo simbolo della Cape Town nera non è di certo Camps Bay, piuttosto il District Six da dove nel ’66 cominciò la deportazione forzata di tutta la gente di colore. Vi giro in lungo e largo per racimolare testimonianze come quella di queste ragazze del quartiere nel selfie con me, i cui genitori appartengono alla generazione che ha vissuto quei giorni drammatici.
La nascita di bar e locali deturpa la memoria  in contrasto con ciò che resta dell’archivio dell’Apartheid: il piccolo District Six Museum nella vecchia chiesa metodista del quartiere.

Il mio primo tramonto in Sudafrica è tra le vecchie case del District Six e il mio viaggio dedicato alla memoria di Nelson e Winnie Mandela parte proprio da questo pezzo di spugna di Città del Capo, che ha assorbito litri e litri di lacrime.

 

Per gli uomini, la libertà nella propria terra è l’apice delle proprie aspirazioni.

(Nelson Mandela)

Prima Comunione

Maggio è il mese delle Prime Comunioni e mi capita ancora di vedere ciurme di bambini per strada vestiti di bianco come degli angioletti. La prima volta che scorsi una bimba vestita di bianco non arrivavo all’altezza della credenza di nonna Lucia.
Anzi dovevo arrampicarmi per fiondarmi in quella foto in bianco e nero della metà degli anni ’50: si trattava di mia madre, nel giorno della sua Prima Comunione, fuori la chiesetta delle suore alla Riviera di Chiaia a Napoli.

Un battito di ali in questa domenica. Incrocio un papà africano che osserva con orgoglio la sua piccola dopo aver ricevuto la Prima Comunione. La ragazzina di colore  lo guarda di sbieco con emozione dall’inginocchiatoio. Scatta la scintilla in me e penso a quanto sia piccolo il mondo, a come una zolla del Continente Nero sia diventato l’anello di congiunzione con i luoghi in cui vivo.

Mi è tornata in mente la piccola Lucrezia che un paio di anni fa, in auto, mi aveva raccontato di aver cominciato il catechismo, solleticando alla madre i ricordi dei trentotto anni della nostra amicizia.
Ho visto lungo il corso della mia vita eserciti di genitori in ansia perché la festa della Prima Comunione dei figli riuscisse alla perfezione, che gli invitati fossero soddisfatti del banchetto, senza tener conto dell’essenzialità del momento.

Dal balcone dei miei quarant’anni e passa oggi ho visto finalmente una madre coraggiosa lottare per la vita attaccata ad un filo di spago, affinché la figlia potesse sentirla vicina, anche se dall’interminabile distanza di un letto.
Da bambino dovevo arrampicarmi su una credenza per vedere mia mamma nel giorno della sua Prima Comunione; da viaggiatore mi è bastato un papà africano e la sua piccola per farmi ritrovare la pelle scura della bellezza di Dio; da uomo con i capelli brizzolati ho riscoperto in Lucrezia e nel cuore di sua madre il segreto dei veri legami che hanno seminato il sentiero della mia vita e per i quali continuerò a combattere in direzione ostinata e contraria, a costo di rimetterci.

Musica nigeriana a palla contro il razzismo che ha ucciso Emmanuel Chidi Namdi

william_onyeabor

Rosario PipoloOggi dall’archivio posso tirar fuori con orgoglio tutti i vinili del nigeriano William Onyeabor. Mi importerà poco della vicina di casa, che si lamenterà della musica a palla per il bimbo che fa la nanna. Sveglieremo il piccolo con questo funky graffiante che viene dall’Africa, per raccontargli dell’Italia razzista, dopo la morte senza scrupoli del giovane Emmanuel Chidi Namdi.

Un ritaglio di cronaca da film dell’orrore che ha indignato la comunità di Fermo, nelle Marche, dove Emmanuel era arrivato insieme alla sua ragazza per fuggire dal terrorismo di Boko Haram. Il trentenne nigeriano è stato ucciso dopo aver difeso la fidanzata da  atti di razzismo. E adesso cosa si fa? Affonderemo la rabbia nella vendetta e nel linciaggio dell’ultrà marchigiano che si è macchiato di sangue?

La giustizia avrà da fare il suo dovere, ma noi dovremmo cominciare ad interrogarci seriamente su quanto le insidie del razzismo si siano infiltrate nei piccoli centri dell’Italietta di provincia. Sono come esplosivi che possono fare danni da un momento all’altro, rompendo gli equilibri di qualsiasi comunità che difende con gli artigli i propri diritti, senza però rinnegare i propri doveri.
Torniamo ad essere razzisti tutti, senza distinzione, ogni qual volta per strada abbassiamo gli occhi di fronte a gesti che minano la sicurezza di chi è arrivato nel nostro Paese, senza più niente alle spalle, solo dolore, ma con il diritto sacrosanto di stringere forte un sogno futuro.

Sembra di essere tornati negli USA degli anni ’60, culla primogenita della segregazione razziale. Quando sono ripartito da Memphis l’anno scorso, mi sono riportato l’urlo I have a dream di Martin Luther King, che l’episodio delle Marche seppellisce sotto il letame.
Oggi torna a suonare William Onyeabor, graffia con il tuo funky ribelle e nigeriano i solchi del mio vinile. L’indignazione passa, l’indifferenza resta.

Italia-Germania 30 anni dopo: Mario Balotelli e il riscatto dell’Africa nella vittoria azzurra

La partita Italia-Germania di ieri sera sarà ricordata come il match del riscatto: da una parte la generazione over 40 che voleva l’attacco nostalgico dei Mondiali di Spagna dell’82; dall’altra la generazione degli over 20, pronta a dare una bella lezione alla Germania della Merkel, che tiene in pugno l’amaro destino della nostra economia.

Eppure il vero riscatto sta nei due goal di Mario Balotelli, l’italiano adottato, figlio di immigrati ghanesi. Trent’anni fa il nazionalismo del Belpaese era tutto lì, nei tiri di Paolo Rossi. Oggi nel 2012 tra le fila della nostra Nazionale c’è un ragazzotto della pelle nera, che è un italiano vero.
Qualche anno fa, in un giro notturno a Brescia, mi ritrovai in mezzo ad una comunità di giovani ghanesi. Pensavo tra me e me agli scherzi bizzarri che fa la storia: una delle città più razziste nei confronti dei meridionali era completamente abitata dagli stranieri. Del resto, basta poco per vomitare la nostra anima razzista, fare di tutta un’erba un fascio.

L’abbraccio di Mario alla mamma Silvia, dopo il passaggio degli azzurri alla finale degli Europei 2012, fotografa una paginetta da romanzo d’appendice, che avrebbe fatto gola a Charles Dickens e agli scrittori vittoriani simili: il bimbo africano abbandonato in un ospedale e affidato ad una coppia di italiani che lo alleva, lo circonda d’amore e gli ricorda che nella vita basta restare se stessi per essere campioni.

Sono tornate tutta una serie di coincidenze, proprio lì nella Varsavia – una delle capitali europee che hanno segnato i miei vagabondaggi – che affila la lama nel laccio che unisce l’Europa dell’Est a quella dell’Ovest. Nell’ultimo giovedì di giugno, in quello stadio, il Belpaese ha ritrovato la sua anima di paese meticcio, riconoscendo all’Africa, che scorre nel sangue di Mario Balotelli, tutto il merito di questa vittoria. E sarebbe bello che a Brescia, ad aspettare Super Mario, si ritrovassero in festa abbracciati bresciani e ghanesi: saremmo tutti più italiani.

  Orgoglio d’Italia

Don Riccardo Seppia e i nuovi mostri: meglio Bocca di Rosa!

Non occorre essere anticlericali fino alle unghie dei piedi per strillare col megafono che don Riccardo Seppia rappresenta il disonore del sacerdozio. Il parroco di Sestri Ponente è accusato di abusi sessuali sui minori, ma peggio ancora si trema dinanzi alla notizia shock: il “don mostro” è anche sieropositivo e potrebbe aver contagiato chissà quali delle sua vittime.
E come per ogni categoria, mettendo da parte il credo religioso, sarebbe un grave errore mortificare il valore di quella ciurma di sacerdoti sparsi per il mondo a donarsi per il bene dell’umanità. Mi riferisco a quelli di frontiera nella aree disagiate delle nostre metropoli; a coloro che sono finiti in Africa devolvendo la vita ad intere comunità; a coloro che sono partiti nei territori di guerra e non sono più tornati. Fa meno cronaca, ma dovremmo tornare a parlarne, a trovare lo spazio adeguato per raccontare storie che non sono poi così banali e controbilanciano quella minoranza mostruosa che ha trasformato “la tonaca” nell’arma diabolica della miseria umana.
Chi fa abuso dei minori dovrebbe essere linciato, ma soprattutto dovrebbe essere subito intercettato da chi spesso fa finta di niente, chiude un occhio, per il bene apparente della comunità. Chi è complice di Don Seppia o chi lo ha protetto dall’alto della gerarchia merita la sua stessa sorte. A chi spetta il giudizio, a seguito della rabbia e del dolore, al tribunale o anche alla stessa comunità?
Più di quaranta anni fa un genovese cantò con la sua chitarra “Bocca di Rosa”, scandalizzando il clero benpensante che scagliava pietre contro le prostitute, ma forse già chinava il capo di fronte ai nuovi mostri. Vorrei tornare tra i vicoli di Genova a cercare quella chitarra. C’è ancora un cantastorie coraggioso che, senza aver letto i vangeli apocrifi, è pronto a difendere l’ultima “puttana” pur di smascherare l’ennesimo “sepolcro imbiancato”?