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Battiato, canzoni

I miei viaggi in Europa tra le canzoni di Franco Battiato

Nei 32 anni di viaggi che mi hanno fatto toccare 60 Paesi e 5 continenti le canzoni di Franco Battiato hanno ispirato la scelta di alcune destinazioni o ne sono state colonna sonora. In entrambi i casi i versi e la musica del genio siciliano mi hanno accompagnato nelle esplorazioni da vagabondo, contribuendo a lasciarmi addosso le atmosfere e l’identità di ciascun posto. Cominciamo dall’Europa.

BERLINO

A Berlino ci sono arrivato a quasi vent’anni dalla caduta del Muro, ma per fortuna ai tempi Alexander Platz custodiva ancora il fascino di crocevia tra la Germania dell’Est e quella dell’Ovest. Alloggiavo a Berlino Est in uno stabile che, fino alla caduta della cortina di ferro, era stato ex prigione. Credo di aver consumato Giubbe Rosse, primo album dal vivo di Battiato del 1989 contenente l’omonima canzone. In realtà Alexander Platz era stata regalata alla grande Milva per l’album prodotto dallo stesso Battiato “Milva e dintorni”.

La bidella ritornava dalla scuola un po’ più presto per aiutarmi
“Ti vedo stanca
Hai le borse sotto gli occhi
Come ti trovi
A Berlino Est?”Alexander Platz
Auf Wiedersehen
C’era la neve
Faccio quattro passi a piedi
Fino alla frontiera
“Vengo con te”

VARSAVIA

In Polonia in realtà c’ero andato per un reportage e avevo chiesto di intervistare quella generazione di anziani che avevano visto la loro Varsavia rasa al suolo dalle bombe. Mi portarono nel quartiere Praga, l’unica zona della capitale polacca che era stata risparmiata. Durante la chiacchierata mi balenavano in mente i versi di Radio Varsavia, celebre brano antimilitarista di Battiato del 1982.
Appartiene ad uno dei vinili che ho consumato di più, L’Arca di Noé. Lo guardavo nelle vetrine dei negozi tra gli addobbi natalizi. Il disco, infatti, era uscito a ridosso del Natale del 1982 e io non arrivavo in altezza alla gonnella di mia madre.

E i cittadini attoniti
Fingevano di non capire niente
Per aiutare i disertori
E chi scappava in occidente
Radio Varsavia
L’ultimo appello è da dimenticare
Radio Varsavia
L’ultimo appello è da dimenticare.

BELFAST

L’Irlanda del Nord è stata per me una destinazione della memoria alla ricerca di testimonianze e luoghi della guerra sanguinaria tra cattolici e protestanti. L’arrivo a Belfast e la lunga camminata tra i murales di Falls Road mi aveva riportato ai rumori delle bombe sentiti in tv, agli anni sanguinari della repressione thatcheriana, alle battaglie dell’attivista e rivoluzionario Bob Sands. Ecco che ad accompagnarmi c’è stata un’immagine dal brano di Battiato Voglio vederti danzare, sempre estratta dal vinile di L’Arca di Noé del 1982.

Nell’Irlanda del nord
Nelle balere estive
Coppie di anziani che ballano
Al ritmo di sette ottavi…

TIRANA E SOFIA

La stessa canzone l’ho ritrovata in Albania, una delle tappe del mio on the road mozzafiato del 2009 dei Balcani. Un’alba a Durazzo segnò l’arrivo in questa zolla di terra dell’ex Jugoslavia, ma fu passeggiando nella vecchia Tirana che sbucò di nuovo Franco Battiato.

E Radio Tirana trasmette
Musiche balcaniche mentre
Danzatori bulgari
A piedi nudi sui bracieri ardenti.

La seconda parte della strofa si conficcò in testa a Sofia, che mi regalò un momento emozionante: il silenzio dei bulgari per commemorare i loro caduti in guerra e questo falò di preghiere che si elevavano verso il cielo della Bulgaria.

ALBANIA

Mentre ero su un autobus sgangherato che mi portava dall’Albania verso il Montenegro, stralunato tra i paesaggi dell’entroterra albanese, ecco che spuntò Strade dell’Est, una gemma del disco del 1979 L’era del cinghiale bianco. Ricordo quando Battiato venne a presentarlo in una puntata del programma di Boncompagni Discoring.

Carichi i treni che dall’Albania
Portano tanti stranieri in Siberia
Tappeti antichi, mercanti indiani
Mettono su case tra Russia e Cina
Strade dell’Est

LISBONA

Prima della della traversata in Sudamerica, il mio vagabondaggio in Portogallo vi ha spianato la strada. Lisbona mi è rimasta nel cuore, vi ho ritrovato molto della Napoli dell’infanzia. La colonna sonora dei giorni trascorsi nella capitale portoghese è stata sicuramente il suono del fado di Amália Rodrigues e Mariza, passato e futuro della tradizione musicale locale.
Tuttavia, proprio mentre sgranocchiavo un dolcetto nel quartiere di Belem, spuntò la canzone di Battiato Segunda-Feira, tratta dal disco L’imboscata del 1996 e scritta a quattro mani con il filosofo Manlio Sgalambro.

Ti porto con me
Segunda-feira de Lisboa
Nel mio antico mare
Nell’Acqua Occidentale
Nel Mediterraneo
Affollato di navi
E corpi d’ignudi nuotatori.

Io sono quello che odia il lunedì così come Mafalda di Quino detesta la minestra, con la stessa intensità se vogliamo dircela tutto. La coppia Battiato-Sgalambro con il suo tocco filosofico ha captato questo stato d’animo che appartiene a ciascuno di noi. La lingua portoghese lo denuncia bene con il termine “lunedì” che letteralmente si traduce come “secondo giorno”, ovvero secondo dopo la domenica, “segunda-feira” appunto.

Segunda-feira de Lisboa
Che nome d’incanto
Qui da noi è lunedì
Soltanto.

Sudafrica on the road: African Cream Music, la mia colonna sonora sulle orme della libertà

Quando Alex Agulnik fondò l’etichetta discografica indipendente African Cream Music, era consapevole che la musica restava una scorciatoia per arrivare diritti al cuore della storia di un Paese. Negli oltre 3 mila chilometri on the road in Sudafrica alcuni album fondamentali pubblicati dalla label con sede a Johannesburg hanno fatto da colonna sonora al mio viaggio.

Il sorriso di Nelson Mandela che illumina la copertina del doppio cd The Winds of Change altro non è che l’apripista di un viaggio musicale nel viaggio. Questa è la mia compilation preferita perché, grazie ad una selezione certosina, ci sono le tappe dei cambiamenti del Sufadrica che marciò verso la libertà, schiacciando il letame della politica che aveva alimentato l’Apartheid: Windows of Change di MacMillann, Asimbonanga di Johnny Clegg, Papa Stop the War di Chicco o Power of Africa di Chaka Chaka sono gemme che cospargono di letteratura le sonorità sudafricane.

Non posso che associare il mio vagabondaggio sudafricano a queste canzoni, ai loro vezzi letterari, a quella loro forza di essere cartoline da spedire senza francobollo con gli slogan che cicatrizzano le ferite di una terra: Freedom Songs, Voice from Mother Africa o Songs and Stories of Africa sono compilation che mettono a tacere il silenzio e l’omertà che hanno aperto buchi e trasfori nelle nostre coscienze.

Attraversando la provincia del Mpumalanga che mi porta tra le braccia del Parco Nazionale del Kruger, l’ascolto dell’album Singabantu di Skipper Shabalala mi ricorda che gli immigrati di altri stati confinanti hanno dato una nuova linfa alle sonorità sudafricane, che spesso sfuggono agli odiosi turisti distratti e attratti dai luoghi comuni.

 

Non importa se sei ricco o povero, dobbiamo essere uniti per essere una nazione compatta. Siamo tutti essere umani. (Skipper Shabalala)

Da Franco Battiato a Mina, perché i loro compleanni ci appartengono

Rosario PipoloLe canzoni non solo ci fanno stare bene ma sanno essere per una minoranza di noi incisioni sulla vita per le scelte future. Per questo motivo i compleanni di chi ce le ha donate, vanno festeggiati.
Non si tratta però dell’odioso fanatismo che fa di ogni fan che si rispetti il cortigiano immaginario del proprio beniamino, piuttosto dell’incosciente leggerezza che lega la vita, la nostra appunto, a certe canzoni e di conseguenza alle voci che le hanno vendemmiate per noi.

Pensando a due compleanni speciali in questo marzo, le 70 candeline di Franco Battiato e le 75 di Mina Mazzini, mi chiedo se dopotutto bastano canzoni per arrogarci il diritto di sedere da commensale al tavolo dell’illustre festeggiato. Non sono complici un mucchietto di ricordi, messi in castigo all’angolo, a dare una sostanza a quelle voci?

Mi capitò con Battiato in un auditorium milanese: dopo l’esecuzione di Povera Patria mi alzai in piedi e lui sorridendo mi disse: “Assiettete”. In camerino, mangiucchiando della frutta insieme, ripercorsi con Battiato la via Etnea sperimentale che illuminò gli orizzonti perduti delle mie conoscenze musicali.

Per Mina mi capitò in una cucina alla periferia di Napoli nei pomeriggi dell’infanzia: mamma terminava le faccende domestiche e mi raccontava della signora Mazzini, di professione cantante, trasferita a Lugano per tornare a vivere la quotidianità lontana dalll’invadenza dei riflettori. Insomma, per farla breve, nel mio immaginario Mina è rimasta l’amica di mia madre che, tra lavoro di casalinga e la professione di mamma per Massimiliano e Benedetta, si chiudeva in sala di registrazione e incideva canzoni.

Il fanatismo tanto decantato, che alimenta il personaggio e lo mitizza, prima o dopo appassisce. Resta in soffitta impolverato tra ricordi e vecchi brani. Accade il contrario quando le voci di quelle canzoni prendono la forma di persone, cresciute accanto a noi nella loro fragilità e umanità.
Perciò crescendo, avvertiamo la necessità di entrare in contatto con loro. Non è fanaticismo feticista. Questo tratto lo colse mia cugina Elena, quando anni fa mi fece trovare una dedica di Mina, incorniciata come se fosse uno specchietto della mia vita.

Abbiamo il diritto di essere accanto a loro quando soffiano sulle candeline perché, nell’ultima fiammella accesa sulla torta, ci sono i quattro angoli del cielo della nostra vita.
Le canzoni non si liquefano come su Spotify ma, dopo essere stati appiccicati come bottoni su un pentagramma, si muovono con la leggerezza di una libellula. Finiscono per assopirsi su una brandina al vinile, avvolta da una copertina su cui era disegnato, ad insaputa nostra, ciò che avremmo voluto dal nostro futuro.

Oggi sono io, anche grazie a voi due. Buon compleanno, Battiato. Buon compleanno, Mina.

Fottuto “cuore” ci porti via Mango, gran bella voce della musica italiana

pino_mango_saremo

Rosario PipoloLa notizia di Mango stroncato da un infarto mi è apparsa come uno scherzo di cattivo gusto. Non volevo crederci. Forse ha ragione Enrico Ruggeri a tuonare dalla sua pagina Facebook: “Ora leggo belle frasi da giornalisti che non andavano da anni a un suo concerto, radio che non passavano le sue nuove canzoni e discografici che non avevano più voglia di investire su di lui”. Parto proprio da questo misto di dolore e rabbia.

Giuseppe Mango, una delle vocalità più interessanti del panorama musicale italiano, è rimasto l’outsider per eccellenza al tempo in cui la musica si è liquefatta e Lei verrà, che fece fare un botto di soldi ai potenti della Fonit Cetra, conserva nel suo isolamento musicale i canoni della ballata pop che si veste di world music.

Ho conosciuto Mango al Festival di Sanremo del 2007. Ci incrociammo per strada e mi restò impressa questa sua dichiarazione: “Devo molto al palco dell’Ariston. Penso che chi faccia il mio mestiere debba tenersi alla larga da ogni forma di snobismo”. In questo Mango aveva proprio la veracità dei lucani che sanno apprezzare le occasioni della vita. Mango si era portato con sé la Basilicata, proprio in quella vocalità capace di smuovere i sassi di Matera per fare della sperimentazione il punto di congiuntura con la voce che si fa strumento.

Detesto i famigerati “coccodrilli”, che fanno a volte di noi giornalisti, allevati nello spettacolo, dei viscidi avvoltoi. Lo tiravi fuori appena giungeva in redazione la triste notizia e ti affidavi a parole surgelate piuttosto che a riflessioni postume. Nel caso di Pino Mango il “coccodrillo” è stato utile a tutta quella ciurma, a cui Ruggeri in parte faceva riferimento, che lo ha dimenticato strada facendo.

Pino Mango non ha bisogno del rimorso post-mortem che scatta tra gli addetti ai lavori. Le dimenticanze si pagano e a caro prezzo. Perciò è giusto che le sue canzoni ora stiano alla larga dalle penne avvelenate dei giornalisti, dai microfoni delle radio distratte o dagli elogi funebri dei discografici che prima o poi ti lasciano crepare nella fossa dei leoni.

Le canzoni passano in eredità al pubblico che lo ha amato, che ha colto la spiritualità dietro la sua maniera di fare il musica, che ha legato gioie e dolori del privato ai versi di Mediterraneo, Oro, La rondine o agli atti di generosità come Io nascerò per la Goggi.

E pensare che Pino Mango il suo testamento lo aveva filato nei versi di questa poesiola musicata: “Nella mia città c’è una casa bianca con un glicine in fiore che sale, sale, sale su. Sulla mia città c’è un cielo grande che ti spalanca il cuore e non ti delude mai”. Ed è proprio in direzione di tale città che ricomincia il suo nuovo viaggio. Ci mancherà.

Quelli che…il sabato prima di Pasqua si svegliano senza Enzo Jannacci

Rosario PipoloOgni volta che sbucavo in camerino, mi ripeteva con il suo tono ironico e scanzonato che ero “una persecuzione”. Che cosa ci avrei fatto mai con quelle firme di Enzo Jannacci spiaccicate su vecchi 45giri e cd? Niente, mi sarei messo ad osservare la traiettoria dell’inchiostro, le curve, le microscopiche sbavature della penna che filtravano la consistenza del suo essere artista.

Enzo Jannacci è morto ieri in tarda sera, all’ombra di un Venerdì Santo. Milano resta davvero sola. Si sentiranno più soli quelli che come me sono venuti a cercar fortuna nella città che lo ha allevato ed ha fatto da sfondo alle sue storie. Jannacci, il medico chirurgo che sotto il camice aveva l’estro di un giullare, il cuore di un jazzista, l’anima del cantautore, ha cantato gli ultimi e i dimenticati, i poveri ed emarginati Lo ha fatto senza prendersi mai troppo sul serio. Quelli che come “Vincenzina” andavano in fabbrica, quelli che portavano “le scarp da tennis”. Jannacci le aveva sfilate zitto zitto alla borghesia invaghita che aveva rinchiuso la terra ambrosiana nel sogno fasullo della Milano da bere.

Le canzoni di Enzo Jannacci, da “Quelli che…” a “Vengo anch’io. No, tu no”, hanno investito la nostra anima della tipica teatralità che non puoi condividere con una persona qualunque. Devi sottrarla al torpore della massa e ficcarla nell’immaginario di chi continuerà a sognare da solo, attraverso le storie di Milano, diluite nel suo repertorio che recupera anche la bellezza e la magia del dialetto. Grazie ai fotoromanzi musicati di Jannacci abbiamo abbattuto gli stereotipi e avvistato lo stupore in certi angoli nascosti di questi luoghi, i suoi. E persino Rogoredo, sfinita nel tanfo della periferia, resta l’angolo popolare che dalla crudele realtà metropolitana gioca a nascondino nei versi dell’omonima canzone.

Se dobbiamo dire addio a Enzo Jannacci, facciamolo pure con una certezza: da oggi, ad un passo dalla Pasqua, assieme a Giorgio Gaber canterà le storie di noi umani al popolo di angeli, che forse ha perso da un pezzo le contraddizioni strampalate dell’umanità. Per fortuna, non siamo tutti uguali e pochi di noi hanno la fortuna di potersi incontrare nei versi di quella canzone: “Son s’cioppaa… son scoppiato dal ridere ma che pena vederti, fare finta di piangere. Son s’cioppaa, tu che neghi le Marlboro, tu che adesso hai capito come nascono i comici”. Abbiamo imparato la lezione di “come nascono i comici”, proprio quando ci ostinavamo a stare lontano dai nostri simili.

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Addio a Donna Summer che si porta via il sorriso della ragazza occhialuta

Vorrei aver fatto un brutto sogno. Mi sveglio e la regina della Disco si è dissolta dietro il sipario. Donna Summer ha perso la battaglia contro una brutta malattia che l’ha portata via a 63 anni. Speravamo di rivederla dal vivo, con quel suo charme e quell’energia black. Non glielo toglie nessuno il trono di Lady of the Night, come si intitolava una celebre canzone, perché le sue hit continueranno a smuovere le chiappe e le gambe di tante altre generazioni.

Me la ricordo nel piccolo televisore in bianco e nero che avevamo in cucina al tramonto degli anni ’70: sorriso raggiante, voce suadente, bucava lo schermo. E nonostante quelli della mia età fossero condannati ad ascoltare canzoncine per bambini, a me Donna Summer piaceva da matti.
Quando scoprii il significato della parola “razzismo”, mi sembrava tutto così assurdo perché per me gli uomini e le donne di colore avevano le voci più belle del mondo.

Donna Summer ha accompagnato casualmente un recente viaggio on the road. Mentre solcavo in auto la pianura padana con l’andamento di un lumacone, chiesi a bruciapelo alla mia compagna di viaggio: “Sei felice?”. E lei replicò: “Sì”. Prendemmo la rincorsa su una canzone della Summer che usciva dall’autoradio e fuggimmo via verso casa.
Adesso che la regina della Disco se n’è andata, forse si è portata via anche il sorriso della ragazza occhialuta. Le canzoni di Donna Summer continueranno a svolazzare dal mio autoradio così come quello sguardo disciolto in un paio di occhiali  costeggerà la mia vita per sempre.

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Non è fottuta nostalgia: Addio a Lucio Dalla, nelle tue canzoni la vita mia

Mamma, non si fa così. E’ morto Lucio Dalla. Era la voce che cantava, mentre tu facevi le faccende domestiche nei bei pomeriggi della fine degli anni ’70. Non è fottuta nostalgia, no. Sono le canzoni che ci accomunano, sono le “Storie di casa mia” a tornare vive attraverso le sue canzoni.

Avevamo il mangianastri che ti aveva regalato papà per fidanzamento, ma io volevo il vinile. La solita storia, la solita cresta sulla tua spesa. Andai a comprare un disco di Dalla sotto etichetta RCA in un negozietto di periferia. Spiegai al titolare che non avevo abbastanza soldi e me lo mise da parte.

Mamma, ricordi quanto odiassi il cappello di lana che mi infilavi tutte le mattine prima di andare a scuola? Poi un bel dì decisi che mi calzava a pennello, perché lo avevo visto sul capo di Dalla. Attraverso i suoi brani ho imparato ad osservare le storie di periferia, quelle che nascono e finiscono nella quotidianità, che fosse un sogno collettivo come Piazza Grande; una preghiera blasfema come 4/3/1943; un visionario disincanto come La notte dei miracoli; l’amore di Anna e Marco che premia i diversi; lo stupore per ciò che sarà di Felicità; la potenza della lirica fuori dai luoghi d’èlite di Caruso.
Ho trovato le radici della mia laicità imparando a memoria Se io fossi un angelo; ho imparato a suonare la chitarra con gli accordi di L’anno che verrà; i miei 30 giorni di servizio militare sono finiti sulle note di Ciao.

L’ho conosciuto e incontrato così tante volte che, autografando i miei dischi, cambiò la dedica da “A Rosario” in a “A Rosario, amico mio”. Disse bonariamente che ero stato uno sfaccendato a buttare i miei risparmi per comprare i suoi dischi. Il ricordo più bello che mi lega a Lucio risale ad una sera d’inverno, al termine di una conferenza da Feltrinelli a Milano. Restai a parlottare con lui e la poetessa Alda Merini. Mi convinsi che si poteva essere grandi rimanendo piccoli.

A distanza di tempo, riesco ancora a sentirmi ciò che sono, perchè in tutti i miei traslochi c’erano gli album di Lucio Dalla a ricordarmelo. Sono felice di saper leggere l’italiano perchè senza il filtro di una traduzione posso arrivare nell’anima del suo canzoniere.

Addio a Whitney Houston, la mia stella del pop-soul su un’audiocassetta TDK 60

La mia è stata la generazione dell’audiocassetta, quella che in fronte aveva la scritta: “Press to play on tape!”. Sbuffavo al liceo, mi annoiavo da morire alle lezioni di latino e greco, ma in compenso barattavo cassette. E su quella TDK da 60 minuti ci finirono alcuni pezzi di Whitney Houston. Tra me e me pensai che le festicciole fatte in casa negli anni ’60 – come quelle che mi raccontava mia madre – potessero ripetersi con queste canzoncine pop infestate di soul: provai a fare un lento su “All at Once”, immaginando che l’America nera, che mi avevano rivenduto sui manuali di storia di seconda mano, si stemperasse in questa voce davvero bella, romantica e sensuale.

Quel lento non andò come speravo, perché non ci fu il bacio agognato. Tutta colpa mia, fui imbranato quanto Ricky Cunnigham nella prima puntata del telefilm Happy Days. Eppure le canzoni di Whitney Houston me le portai nel mio primo viaggio all’estero, al di là della Manica. Ci ritrovammo noi, un gruppo di adolescenti romantici, ad ascoltare la principessa scalza del pop-soul in un parco della contea del Kent. Alcuni bulletti inglesi si sparavano ad alto volume musica elettronica e noi rispondemmo con toni diversi. Mettemmo le mani avanti con il vocione della Huston che cantava: “I Wanna Dance with You”. E pensare che fino ad allora mi vergognavo, perché volevano convincermi che quella fosse soltanto robetta da ragazzine mielose.

La mia generazione fu accusata dai ripetenti sessantottini di non avere un repertorio di canzoni impegnate, perché i grandi cantautori se l’erano giocata tutta nei Seventies. A noi rimanevano soltanto briciole e degli avanzi non sapevamo che farcene. Attraverso il repertorio di Whitney Houston stendemmo al sole del Soul i nostri sogni, teneri e irrinunciabili. In questa domenica di febbraio la sua scomparsa ha lo stesso valore di quella di Amy Winehouse per la generazione Y. La vita privata si arrugginisce, ma la storia musicale no, anche se di mezzo ci sono infiltrazioni pop di una voce nera indimenticabile.

Addio a Whitney Houston, stella della black music che ha illuminato gli Ottanta

Addio Amy Jade: prendi la valigia e portati via…

Amy Jade, prendi la valigia e scappa senza il Winehouse. Adesso è di troppo, non ti servirà più. Portati via l’odore del catrame che respiravi passeggiando sulle sponde del Tamigi, le cover dei chitarristi ambulanti sotto le metropolitane londinesi, le lacrime amare dei tuoi, tappate in una bottiglietta come quella che facevi galleggiare nelle estati sul mare di Brighton.
Amy Jade prendi la valigia e scappa spedita, come quando correvi incontro a tuo padre, che ti faceva salire sul suo taxi e ti incoronava reginetta delle vie del tuo quartiere. Portati via lo humor yiddish, le filastrocche cantate in coro a scuola, le foto ingiallite degli ebrei emigrati in Gran Bretagna, quelle smisurate preghiere sussurrate al vento, che non ti hanno mai convinta da quale parte stesse Dio.
Amy Jade prendi la valigia e scappa con l’ultimo gorgheggio che hai innalzato al cielo. Portati via i pomeriggi a “rappare” assieme ai tuoi compagni di merenda, il piercing che scandalizzò i bacchettoni della Sylvia Young Theater School, le canzoni soul che ascoltavi per i fatti tuoi, anche quando il mondo girava da tutt’altra parte.
Amy Jade prendi la valigia e scappa dal patetico piagnisteo riservato alle “anime fragili”. Portati via le 27 candeline che ogni volta riaccenderemo con le tue canzoni, perché d’ora in poi “non occorrerà più fingere”. Svestendoti, ti sentirai leggera come una piuma. Potrai finalmente vagare tra le nuvole. Sono le stesse che contavi da bambina a Southgate.
Amy Jade prendi la valigia, scappa senza quel maledetto ritaglio di giornale del Guardian che recita così: Amy Winehouse, who has been found dead at the age of 27, the cause not immediately clear”. Fanculo, a quel maledetto sabato.

Ringo Starr a Milano e Roma: Io scassinavo salvadanai per i tuoi dischi!

Sono una minoranza gli adolescenti che si fanno travolgere dalla musica fuori dal proprio tempo. Mi sentivo parte di questo branco ristretto quando alla fine degli anni ’80 me ne andavo nei paesotti di provincia a cercare i tuoi dischi, caro Richard. Una volta girando a Liverpool – ero ancora minorenne e lasciai i miei in preda alle palpitazioni – nei posti in cui sei cresciuto, mi sono detto: cosa avevamo in comune? Anche tu eriun ragazzotto di periferia e non penso che, picchiando forte sulla tua batteria, avresti mai immaginato di attraversare il mondo.
La casualità, la mia compagna di viaggio prediletta, mi portò allora ad incontrare alcune persone a te particolamente legate, quelle che bussando alla porta di casa tua trovavano il cognome Starkey. Beh, rovistando in un negozietto di anelli poco distante da Penny Lane, mi sono chiesto come facessi ad andarne matto. Quella non era robetta da femminucce? Perlomeno ti sei trovato un buffo nome d’arte, Ringo, che ti confonde con un pistolero del Western.
L’epopea del vecchio West era passata da un pezzo, ma non quella delle navi che trasportavano sogni verso l’oltreoceano. E’ lo stesso tragitto che fanno i sogni incollati alle parole e alle note delle canzoni, formando i piccoli segreti della vita: “Every soul has a secret, give it away or keep it”.
Io l’ho tenuto il mio segreto: quello di aver fatto lo scassinatore di salvadanai per acquistare i tuoi dischi e sentire dal profumo del vinile l’ebbrezza del tempo che non passa mai. Avevo fatto la maturità quando sei venuto in Italia l’ultima volta. Mi dicevano che ero un matto ad assistere ad un concerto alla vigilia della prima partenza per gli Stati Uniti. Che rabbia, quando gli organizzatori fecero saltare la data di Roma!
Sono passati quasi vent’anni, ma resto la “capa tosta” di allora. E con lo spirito di chi si batte affinché la musica sia una gioiosa “festa sociale”, sono sicuro che in questa domenica e lunedì di luglio restituirai a Milano e Roma una carica di energia, mancante in questo momento. Gioco a fare il finto tonto: più invecchi, più assomigli un sacco a Ringo Starr, il batterista del Beatles!