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Quella volta con Oscar Luigi Scalfaro, Presidente della mia gioventù

Il Presidente della mia infanzia fu il partigiano Sandro Pertini, quella della mia gioventù il costituzionalista Oscar Luigi Scalfaro. Mi conquistò con il primo discorso di fine anno, quello del 31 dicembre del 1992. L’Italia era smarrita sotto il tunnel di Tangentopoli, io attraversavo una svolta personale: da una parte il dolore indefinito per la perdita di mio nonno Pasquale, dall’altra la nuova corsa verso la realizzazione dei miei sogni, che oltrepassavano lo steccato del percorso universitario intrapreso.

Del presidente Scalfaro mi colpì la fiducia che ripose nei giovani in quell’invito deciso e convincente: “Non arrendetevi mai, per nessuna ragione al mondo”. Le sue parole bucarono lo schermo televisivo, mi entrarono dentro, decisi di portarmele appresso. Nonostante i suoi toni accesi a volte prendessero la forma colloquiale di un vecchio monarca, la compostezza e il paternalismo di Scalfaro assomigliavano alla premura che un nonno dovrebbe mantenere con costanza nei riguardi dei nipoti.

Un nonno non ce lo avevo più, ma mi restava un Presidente. Dieci anni fa, proprio in questo periodo, lo conobbi personalmente a Striano, un piccolo paese poco distante da Sarno. Lo avvicinai alla fine del suo intervento e gli sussurrai all’orecchio: “Non mi arrenderò mai, per nessuna ragione al mondo”. Lui mi sorrise e aggiunse: “Quando ti ritroverai senza punti di riferimento, recita gli articoli della costituzione italiana”.

Avevo un cappotto di loden quel giorno. Non era l’abbigliamento consono ad uno della mia età, ma indossarlo mi faceva sentire più vicino alle generazioni che mi avevano precedute. Quando sono partito per Milano, alcuni mesi dopo, ho indossato quel cappotto in mezzo alla nebbia, al gelo. Ogni volta qualcuno tentava di sparare contro i miei sogni, mi ronzavano nel cuore le parole di Oscar Luigi Scalfaro, il Presidente del “non ci sto”, il Presidente che se n’è andato in una fredda mattina di gennaio ed ha attraversato con me una parte della mia gioventù ribelle.

 E’ morto l’ex Presidente Oscar Luigi Scalfaro

 La morte di Scalfaro su Twitter

 Il discorso del non ci sto

Sanremo Giovani 2011, vince il jazz ruffiano di Raphael Gualazzi

Non c’era via di scampo e quest’anno non ci sono state le solite zuffe per portare una nuova proposta dell’Ariston sul podio. Raphael Gualazzi vince con la sua Follia d’amore la 61a edizione del Festival di Sanremo nella categoria dei Giovani. Badiamo bene una delle peggiori annate, perché all’Ariston gli emergenti sono passati ancora una volta in sordina, a volte troppo insipidi, per niente sperimentatori o progressisti, mandati in onda a ridosso della mezzanotte, senza uno spazio adeguato, e per giunta messi in castigo dal televoto.
In balia della melodia di Micaela o di Serena Abrami, la vittoria del timido e pacato Raphael in stile jazzato mette tutti d’accordo, anche se il dubbio assillante rimane: questo swing ruffiano vuole fare il verso a Micheal Bublé? Dovremmo chiederlo a Caterina Caselli, l’ape regina della discografia italiana, che ha arruolato Gualazzi nella scuderia Sugar. La Caselli non ha sbagliato mai un colpo e nessuno ci vieta di pensare che Raphael diventi un fenomeno jazz da esportazione.
Intanto, mentre di questi giovani “invisibili” ci dimenticheremo prima di quello che possiamo pensare, il Televoto tira l’ennesimo colpo basso: Tre colori, l’intensa filastrocca musicata di Tricarico, è fuori dai giochi, nonostante a mio parare faccia parte del tris delle migliori canzoni sanremesi assieme a quelle di Vecchioni e di Emma & i Modà. Facciamocene una ragione, con o senza il faccione buonista di Gianni Morandi, il Festival di Sanremo riflette l’Italia del suo tempo, arruffona quanto basta per ripescare la Anna Tatangelo di turno e tenersi la lagna melodica di Luca Barbarossa. Mettiamola così: le belle canzoni sono quelle che vanno via in fretta dai riflettori dell’Ariston, dall’euforia popolare, ma restano confinate nell’animo di quel pubblico che sa cogliere in flagrante l’emozione di raccontare una storia accennata, come quella della nostra bandiera.

Sanremo 2011 Atto III: Roberto Benigni, il giullare sul cavallo bianco

Lo dimenticheremo presto il Festival di Sanremo di Morandi, anche in questa terza serata che ha ripescato, con il sotterfugio del televoto, la soubrettina del Karaoke Anna Tatangelo e ha confermato l’assenza musicale dei giovani: abbiamo scampato il pericolo di Marco Menechini, clone di Valerio Scanu, e gli osceni Btwins, che sembrano usciti da sotto la gonnella di Antonella Clerici.
Lo dimenticheremo in fretta il Festival di Sanremo di Morandi, in questa terza serata che da festa celebrativa per i 150 anni dell’Unità d’Italia ha trasformato il palco dell’Ariston in una sagra paesana, in cui non si è capito il senso della scaletta delle canzoni. Ancora una volta a farla da padroni di casa sono state le insostituibili Iene, Luca e Paolo, a cui va il nostro apprezzamento per averci ricordato il tempo del teatro-canzone di Giorgio Gaber, quello in cui il sipario divideva la riflessione dalla perfida leggerezza. Se Morandi ha ripreso in mano il microfono per cantare, lo spettatore si è arreso dinanzi alla speranza del miracolo dell’ultimo minuto.
Tuttavia, quando la barca sta per affondare, si ricorre al giullare dispettoso, perché lui sa sempre come trovare la via alternativa per raccontare quello che siamo. Roberto Benigni col tricolore in mano e su un cavallo bianco sembra roba da circo equestre, eppure è lui stesso il figlio bello di quest’Italia, che per fortuna non ha prodotto soltanto mostri. Certo Robertino è stato meno pungente del solito e a qualcuno è apparso come cantastorie di ovvietà. Non è così e la risposta l’ho trovata rovistando nella mia bacheca di Facebook, su cui la mia fedelissima lettrice Maria Rosaria ha postato senza pensarci due volte: “Siamo persone che si emozionano, non persone che si meravigliano dell’ovvio”.
E noi vogliamo emozionarci decifrando la millenaria storia che si nasconde nell’inno di Mameli, impastando l’entusiasmo e la passione che trasformò in eroi quella ciurma di ragazzotti che perirono per amore di patria; ammettendo una buona volta per tutte che la gloria si conquista combattendo per la libertà, con dignità, a testa alta. E pensare che ci sono ancora quattro sciocchi che vogliono convincerci del contrario, che vorrebbero l’Italia separata e ridotta ad un’accozzaglia di langhe federali. Non ci voleva il noioso Festival di Sanremo per non calpestare le nostre radici, ma quel piccolo diavolo di Roberto Begnini, che ha cantato senza avere una grande voce. Basta sussurrare le parole su un motivetto senza musicisti e così si finisce diritti al cuore, perché “se qualche volta la felicità si scorda di noi, noi non dobbiamo dimenticarla la felicità”. E questo mi sembra un atto d’amore.

Sanremo 2011 Atto II: Il soldatino di piombo al Festival della Canzone

Rassegniamoci perché questo è un Festival di Sanremo da dimenticare. Ha deluso persino la categoria Giovani, mandata in onda poco prima della mezzanotte, quando i più insofferenti avevano spento già il televisore da un pezzo: passano il turno, graziati dal fantomatico Televoto, Serena Abrami che fa l’indossatrice per Niccolò Fabi e Raphael Gualazzi con lo swing da faccia da schiaffi che tira un rimbalzo al sound di Bublé.
Svestiamoci di tutto senza tralasciare un particolare: questo è il Festival della Canzone Italiana e non del cantante. E allora se con la dovuta spensieratezza emotiva vogliamo rincorrere un bagliore, stiamo dietro a Tricarico, che nonostante la sua esecuzione traballante, ha azzeccato il brano nel giubileo civico verso l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Tre colori è una filastrocca musicale, ben congeniata, perchè disegna i contorni a matita di piccole storie che sono quelle di ognuno di noi. Ho ripensato a mia madre quando una trentina d’anni fa si presentò regalandomi il libro illustrato del Soldatino di piombo. Attraversando la fiaba di Andersen mi ero illuso che chi indossasse la divisa era una miniatura giocattolo, che poi al momento opportuno sarebbe tornata nel cassetto. Altro che soldatini di piombo, quelli erano stati lì armati di fucili a farsi ammazzare per cucire quei tre colori.
E in uno dei tre della bandiera italiana si intrufola, sotto la ballata d’amore, il grido del professor Roberto Vecchioni: “Per il bastardo che sta sempre al sole, per il vigliacco che nasconde il cuore, per la nostra memoria gettata al vento da questi signori del dolore”. La storia si ripete e noi magari ci accontentiamo di mandarla giù a memoria, come se poi il dovere civico e la coscienza collettiva di un Paese si misurassero con molte frottole che affollano i tanti libri di storia. E qui “Chiamami ancora amore, chiamami per sempre amore” non è la sviolinata ricercata da dedicare a chiunque percorra senza saperlo il nostro cuore in questo momento, ma è il richiamo all’adunata, quella delle coscienze e di una presa di posizione precisa rispetto a tutto il resto, alle oscene banalità che scontornano l’essenza della vita. Cosa ce ne facciamo di un mondo finto, costruito a tavolino tra lacrime da coccodrillo ed euforia virtuale? Cosa ce ne facciamo di un mondo che ha rinunciato consapevolmente al sapore dell’amore? Chi corre troppo in fretta qualcosa se la perderà pure. Sanremo è il Festival della Canzone Italiana e non dei cantanti. Torno a ripeterlo. Così abbiamo l’unica chance di tornare sui nostri passi e accorgerci che dopotutto in qualche canzonetta è ancora nascosto il segreto per riappropriarci della collettività e scrollarci di dosso il nostro miserabile individualismo.

Sanremo 2010, Tony Maiello scippa la vittoria a Nina Zilli

Castellamare di Stabia – la città che ha dato i natali a Raffaele Viviani ed Annibale Ruccello – sale sul podio del Festival di Sanremo con la vittoria di Tony Maiello nella categoria Giovani. Il timido cantante campano, sotto l’ala protettiva della scuderia di Mara Maionchi e le magie del Televoto,ha strappato con il brano Il linguaggio della resa la vittoria a colei che meritava lo scettro: Nina Zilli. Vince la melodia scontata, la canzonetta in puro stile sanremese che non ha niente a che fare con il “fattore X”. Maiello fa solo tenerezza, soprattutto quando il padre si fionda sul palco ad abbracciarlo e la serata si chiude secondo il copione della sceneggiata napoletana. Un 2010 che dimenticheremo in fretta perché quelle che dovevano essere le nuove promesse, si sono rivelate davvero un tonfo, a parte la Zilli con L’uomo che amava le donne e qualche timido accenno traversale tra gli esclusi Romeus e La Fame di Camilla. Il varesino Luca Marino può consolarsi perché sono convinto che la sua sarà il tormentone radiofonico dei prossimi mesi. Antonella Clerici e il suo Festival hanno maltrattato i giovani: io avrei mantenuto il tabù dell’inedito, mettendo in gioco più canzoni e dando più visibilità alla vera linfa dell’Ariston. Diciamocelo francamente: questo è il Sanremo dei Big, ma anche il Festival che si piega sfacciatamente ai ricatti del Televoto. Passano in finale Pupo ed Emanuele Filiberto tra i fischi della platea (che caduta di stile l’intervento di Marcello Lippi in loro difesa!), mentre tornano a casa Enrico Ruggeri (simpatico il duetto con i vecchi Decibel) e Fabrizio Moro. Quale brutta sorpresa ci aspetta dietro l’angolo? Lo sapremo stasera, ma io vorrei chiederlo al francese Bob Sinclair, il dj principe dello show di ieri sera.

Sanremo 2010 atto III: sconce magie da Televoto!

Non ci sto ai giochi di prestigio del Televoto. Che torni in gara Valerio Scanu (corre in aiuto Alessandra Amoroso!) mi può star bene, ma non accetto il rientro indesiderato di Pupo e Emanuele Filiberto, che hanno la canzone peggiore del Festival di Sanremo 2010. Una ventina di anni fa c’erano le cartoline del Totip che facevano balzare in vetta il peggio della musica italiana, e oggi ci risiamo. La terza serata è stata all’insegna del revival – bella la sequenza di immagini in apertura di 60 anni di Festival – ma con il solito ricatto. Io ti canto la vecchia canzone di Sanremo e tu mi fai promuovere il nuovo album, dalla Mannoia a Bennato. Noioso Cocciante, emozionante Carmen Consoli, strepitosa Elisa con il doveroso omaggio a Sergio Endrigo, ingiustamente dimenticato.  E questa nostalgia canaglia ha raggiunto l’apice con il ritorno in gara – tifavo per Nino D’Angelo e Maria Nazionale – di Pupo & il Principe, come se l’esilio dei Savoia dovesse essere cancellato dalla storia e clonarsi in uno stupido motivetto. Toc, toc! E i giovani dove sono finiti? E chi li ha visti che sono usciti dopo la mezzanotte, tanto da sostenere una scelta scandalosa: mandare in onda la registrazione dell’esibizione di Jessica Brando con il pretesto che era minorenne e quella era già ora di nanna. Scusate, ma i giovani non potevano cantare in apertura? Anche ieri sera la Nuova Generazione Sanremo 2010 ha deluso e così la spuntano Tony Maiello e “la virtuale” Jessica, a cui avrei rinunciato volentieri per Romeus e La Fame di Camilla. Lasciamo perdere Nicolas Bonazzi, figlio illegittimo di Massimo di Cataldo. Pardon, ho dimenticato di nominare Antonella Clerici almeno una volta. Basta e avanza.

Sanremo 2010 atto II: la delusione dei giovani

La seconda serata del Festival di Sanremo l’ho vissuta con un presupposto: Antonella Clerici e la sua goffaggine, farcita di carinerie, c’è e dobbiamo farcene una ragione. Assillo galoppante: perchè questa sessantesima edizione non ha una sigla originale (dobbiamo rimpiangere i tempi del Baudismo?) e ieri abbiamo ricorso alla colonna sonora di Forrest Gump? Misteri della direzione artistica. Ieri a farla da madrina di casa è stata la regina Rania di Giordania con la sua eleganza e savoir faire. E le canzoni? Quest’anno c’è una controtendenza. I giovani hanno deluso le aspettative e i brani dei Big sono di gran lunga superiore. C’è stato un gran parlare della categoria Nuova Generazione e poi i primi cinque emergenti li hanno mandati in onda dopo le 23.30, quando “l’abbiocco” poteva essere giustificato. Mandare in radio le loro canzoni da diverso tempo – a parte Luca Marino io non ho mai sentito nessuno – non è una buona giustificazione per liquidarli in così poco tempo. Nina Zilli e Luca Marino hanno passato il turno: la prima ha un brano stuzzicante e riesce a modularlo bene; il secondo si gioca tutto con una ballata vecchio stile molto orecchiabile. Gli altri dimentichiamoli. I Broken Heart College sembrano la copia riuscita male dei Sonohra; Mattia De Luca un clone di Tricarico con manie di un pop acustico; Jacopo Ratini gioca a fare il giovane impegnato scimmiottando lo stile di Simone Cristicchi e Daniele Silvestri. Tra i big sono usciti  i Sonohra (era ora!) e Valerio Scanu, che invece avrei tenuto al posto di Arisa, perché la Pippa non può pretendere di salire sul podio con la solita filastrocca scemotta. Speriamo che i cinque giovani della terza sera diano un senso alla “Nuova Generazione Sanremo 2010”, altrimenti siamo proprio messi male.