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L’estate di nonna Luigina, “mondina” centenaria tra gli angeli sopra Valduggia

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rosario_pipolo_blogMi era piaciuta fin dal primo momento l’idea di farmi adottare da una bisnonna di 101 anni, per giunta invecchiata tra le risaie del vercellese, in quella zolla di Piemonte che tratteggia tanti miei vagabondaggi a corto raggio.
Mi era piaciuta l’idea di poter raccontare una bresciana, adottata dalla piccola comunità di Valduggia, che aveva attraversato il ‘900 ed era stata mondina nelle risaie, proprio come Silvana Mangano nel film di Riso amaro.

Nonna Luigina era entusiasta di questa visita insolita di un ospite che non le era apparso come un curioso ficcanaso, ma come il giornalista pronto a fare quattro chiacchiere per poter tirar fuori un ritratto e raccogliere spunti di riflessione.
Di questi tempi poi, in cui la centrifuga della vita tritura la lentezza necessaria a farci ricchi con la saggezza degli anziani, questi sono spicchi di vita meritevoli di essere raccontati e condivisi.

Nonna Luigina – aveva già prenotato il parrucchiere in vista del mio arrivo – aveva saputo che era una buona forchetta e, non potendo venire al ristorante, si sarebbe presa la briga di invitare a casa sua uno chef tutto per me, che avrebbe cucinato per il lieto evento. La situazione mi commuoveva al solo pensiero, perché avrei ritrovato una “nonna” che si sarebbe preoccupata per me.

In due occasioni, tra fine maggio e giugno scorso, sono stato costretto a rinviare a causa del maltempo, che tra piogge e temporali ha trasformato il nostro territorio di frontiera in una landa tropicale. Sapevo che la bisnonna di Valduggia mi avrebbe aspettato, anche se alla veneranda età della “mondina centenaria” basta un soffio di vento a scompigliare tutto.

Qualche settimana fa non hanno avuto il coraggio di dirmi che non avrei potuto intervistarla più. Alla trisnipotina Ginevra, la piccola che le sorride accanto in questa foto di compleanno, hanno spiegato che ora nonna Luigina è diventata un folletto o forse una fata.

Io sono un po’ all’antica e credo ancora negli angeli. Un giorno se dovessi finire all’Inferno, avrò un buon motivo per farmi spedire in trasferta temporanea in Paradiso e ritrovare così nonna Luigina per intervistarla.
Fino ad allora però non potrò far altro che ringraziare “la mondina centenaria di Valduggia” per avermi fatto sentire di nuovo nipote, nel tempo scandito dalla solitudine cronica che allunga le distanze nei legami.

Laura non c’è: Io e quella scrivania vuota in un maledetto lunedì

Rosario PipoloLa scrivania di fronte alla mia è vuota. Il pc è spento. Le penne, un pennarello e un taglierino sono al solito posto. E’ lunedì e l’umore non è dei migliori. Oggi dalla finestra entra con invadenza più luce, perché la sagoma seduta a quella scrivania non c’è. Faccio finta di nente. Aspetto. Sono le 10.30 e penso: “Forse stamattina entrerà in ritardo”. Riavvolgo un flashback. Il mio arrivo in quest’ufficio cinque anni fa e lei lì a spiegarmi, passo dopo passo, l’utilizzo di un nuovo CMS, quegli aggeggio senza cui non potremmo inserire contenuti in rete.

E’ mezzogiorno. Mi guardo intorno. La scrivania è ancora vuota. Ripenso alle piccole confidenze condivise, quelle private, che andavano oltre la corteccia dell’essere colleghi di lavoro, e ai nostri caratteri diametralmente opposti: lei riservata, di poche parole; io chiassoso e chiacchierone. E’ ora di pranzo. Mi invitano a mangiare ed io rispondo alla sua maniera: “Oggi, salto”.  Dopo quaranta minuti cambio idea e scendo giù a mangiare un boccone. In fila al self-service, mi vengono in mente le volte che mi aiutava a scegliere i piatti giusti per la dieta. Tutta fatica inutile. Il weekend successivo sarei finito in bici nelle cempagne piacentine e non avrei resistito alle ghiottonerie della cucina emiliana.

Sono le tre passate. Mi frego di proposito tutte le penne dalla sua scrivania con la speranza che lei, al ritorno da una riunione, se ne accorga ed esclami: “Vorrei sapere perché in questo ufficio le mie biro fiiniscono sempre su un’altra scrivania!”. Tutto tace invece. Ripenso a quando mi regalò per i 40 anni una guida turistica sul Po. Sosteneva che era atipico per un napoletano amare il fiume che accarezzava la sua Piacenza, il territorio dove spesso fuggo alla ricerca di vecchie memorie legate alla pittura naif di Ligabue e ai castelli musicali di Verdi.

Sono quasi le sei. La scrivania è ancora vuota. Tiro fuori l’iPod, lascio scivolare via “Born to Run” che lei adorava. La voce di Bruce Springsteen, avendo tolto gli auricolari, affoga nel silenzio.
Sorrido al pensiero dei guru delle università di business e dei loro sermoni per il bene di ogni grande azienda che si rispetti: sul posto di lavoro vince la competizione sfrenata, contano i numeri, niente sentimentalismi e umanisti o filosofi dietro le scrivanie.
Io piuttosto resto dall’altra parte della barricata. Preferisco il volo degli aquiloni, che sanno muoversi anche a bassa quota, senza perdere di vista i dettagli. E’ l’unica scorciatoia per avvistare il valore di un legame vissuto su un posto di lavoro, per tornare ad essere più umani e autentici, liberandoci da quella prigionia del business che ci vorrebbe tutti omologati.

Manca un quarto alle sette. La scrivania è vuota perché Laura ha semplicemente cambiato lavoro. Rimetto le penne al suo posto. Spengo il mio pc e la luce. Per il resto lascio fare a Guccini con una canzone: Laura e l’Emilia-Romagna restano un pezzetto della mia vita.

Diario di scuola: l’immensità e il prof. di matematica Nello Altavilla in corso Buenos Aires a Milano

Rosario PipoloPasseggiando a tarda sera su corso Buenos Aires a Milano mi ronzava in mente il ritornello de “L’immensità”,  la celebre canzone scritta da Don Backy ed ispirata da una traversata a notte fonda nel corso milanese. Dopo aver canticchiato per alcuni metri “Io son sicuro che in questa grande immensità qualcuno pensa un poco a me e non mi scorderà” mi ritrovo faccia a faccia con un signore settantenne.

Lo riconosco. E’ il professore Nello Altavilla, che nel 1987 mi di disse:  “La matematica non è il tuo mestiere ma mi hanno detto che in italiano vai forte”. Accadde in una scuola media alla periferia di Napoli. Tante generazioni lo hanno avuto come docente di matematica. Nonostante per me fosse un supplente, è rimasto vivo il suo ricordo tra le pagine del mio diario scolastico. Finiamo a mangiare una pizza insieme, ci insoliamo dagli altri commensali.

Il prof. Altavilla trova terreno fertile di fronte a sé – non si accorge del reporter che c’è oltre la corteccia dell’ex allievo tra ricordi scolastici mescolati a quelli dei suoi studi. Li ariamo insieme e germogliano i sogni della generazione degli anni ’50 del secolo scorso, da studente dell’Alessandro Volta di Napoli fino ai giorni in cui andava a caccia di Renato Caccioppoli, il matematico napoletano raccontato magnificamente al cinema da Mario Martone. Il filo della memoria di Altavilla è lucido e il suo umorismo, che evoca quello dell’Alberto Sordi intervistato, colora la nostra conversazione. La memoria di Altavilla raccoglie ciò che ne era della provincia di un tempo, della semplicità perduta, dove anche la goffaggine e la “spavalderia dei vitelloni felliniani” erano in sintonia con quelle del Belpaese in bianco e nero.

Giungo ad una conclusione: la scuola ai tempi in cui ero allievo sedimentava legami speciali tra docenti e alunni. Nonostante sia passata tanta acqua sotto i ponti, troppa forse, il professore veterano fila la lana della confidenzialità con uno dei suoi tanti allievi. Questo per dire che, se ognuno di noi trovasse il coraggio di andare a far visita ad un ex professore in pensione, regaleremmo al nostro interlocutore la gioia di chi non vuole essere trascurato.

Il professore Nello Altavilla non si era accorto di essere finito in un’intervista. E forse un giorno ci ritroveremo a fare una passeggiata sottobraccio, a notte fonda, in corso Buenos Aires a Milano, canticchiando L’immensità. “Sì, io lo so tutta la vita sempre solo non sarò” metterà nero su bianco il legame tra un professore di matematica e un alunno “preso in prestito” in un’altra classe, che in fin dei conti non avevano smesso mai di volersi bene.

Il voltafaccia ai tempi di Facebook

Rosario PipoloIl voltafaccia su Facebook è una ricorrenza di questi tempi. Una volta accadeva in strada, oggi nei vicoli dei social network. Quello più subdolo non riguarda la persona con cui abbiamo tagliato i ponti, ma il contorno. Si tratta di coloro che si intrattenevano a parlare con noi, sull’amaca dei sorrisi compiaciuti, delle pacche sulla spalla, della battuta facile, del “vediamoci più spesso”.

Poi ecco che arriva il primo taglio. Una volta lo notavamo per strada, perché il voltafaccia avveniva con gradualità: prima facevano finta di non vederci, poi fingevano di parlare al cellullare guardando avanti e, infine, passavano alla scelta più drastica, come a dire “chi ti hai mai visto prima”. Con l’avvento dei social network, Facebook ha dettato le nuove regole del voltafaccia, che corrispondono all’ eliminazione dagli amici.
Quelli più “quaquaraquà” però ci arrivano gradualmente con delle fasi intermedie. Basta giocherellare con i tasti della privacy e oscurare la bacheca a pezzetti. La maggior parte anticipa la censura di status e foto con un’altra azione: rendere invisibile la lista degli amici. Insomma, al massimo ci sarà concesso di capire quali siano quelli rimasti in comune.

Quale miglior pretesto per dare una bella sforbiciata alla nostra lista di contatti facebookiani? A parte il gusto di far numero, è inutile avere tanti nomi appesi, di cui magari non ricordiamo neanche il viso. Del resto, come accade in ambito culinario”, il “contorno” non è un piatto indispensabile e se ne può fare a meno, a qualsiasi pietanza appartengano le verdure grigliate.
Le azioni sui social network non fanno rumore, perchè abitano nello spazio invisibile della nullità. Ha valore il rumore dei passi che sentiamo dietro la porta, prima che si riapra, restituendo ad ogni legame il proprio ruolo e significato.

Graph Search: Professione investigatore con il motore #kazziemazzi di Facebook

Rosario PipoloChissà se quelli di Facebook con il nuovo Graph Search ce la faranno fare addosso. Il motorino social, al momento disponibile per pochi eletti in versione beta, sarà l’aggeggio cool per farsi “kazziemazzi” degli altri. E se community come Badoo già lo temono perché potrebbe essere una scorciatoia per mettersi a caccia dell’anima gemella, noi invece ci chiediamo: chi di noi resisterà alla tentazione di violare la privacy per vestire i panni di un segugio vigile?

Beh, con un po’ di astuzia e manualità, non c’è bisogno di Graph Search per mettersi a caccia di notizie. E a dirla tutta non sono tanto gli status, perlopiù protetti, ma gli album fotografici che restano quelli più vulnerabili. Magari tra giri e lunghi raggiri, passando dall’amico dell’amica, ti trovi in mano quella foto e quel commento datato, capaci di metterti la pulce nell’orecchio: verità di mesi prima che diventano improvvisamente bugie surgelate. Adesso con il nuovo motore social messo a punto da Mark e compagni sarà più facile avere una planimetria della popolazione faisbucchese – neologismo troppo kitch? – soprattutto di quella parte di utenti che si sbottona fino alle mutande.

Da una parte ci sono le rassicurazioni in merito alla privacy perché nell’occhio del ciclone ci saranno solo i contenuti pubblici, dall’altra le vecchie volpi social che storcono il naso. Il modo per spostare muri di gomma si trova prima o poi, perché dopotutto nella piazza di Facebook “chi cerca, trova”. Tuttavia, anche quando finiremo per essere vittime dell’autolesionismo investigativo, Graph Search sarà l’ennesimo buco nell’acqua per ciò che riguarda il valore dei legami. Mica la sintonia e il plusvalore di un legame di coppia o d’amicizia si riduce al numero dei “like in comune” o di una manciata di foto condivise, in puro stile esibizionista?
I più miopi sguazzeranno nelle acque torbide del motore #kazziemazzi, illudendosi di riscattare legami scaduti da tempo. Rinunceranno per l’ennesima volta all’unica affinità che solo la realtà può restituirci: quella del tempo che non abbiamo svenduto pur di stare assieme.

Diario di viaggio: Il tesoro di Sabbioneta nello sguardo di Carolina

Volevo portarmi un souvenir speciale da questo mio ritorno a Sabbioneta, la bomboniera segreta, patrimonio UNESCO, ai confini tra il mantovano, il reggiano e il cremonese. E questa volta il pretesto per tornarci non erano solo lo gnocco fritto e la spalla cotta di Ciano, un buon bicchiere di lambrusco, la rassegna musicale all’interno del magnifico teatro o l’arte che si respira in ogni angolo di strada. La scusa erano alcuni legami che vi avevo lasciato, sospesi come quelli dei viandanti di una volta e che racchiudono il vero significato degli spostamenti di un viaggiatore.

Ho ritrovato la memoria impavida della comunità sabbionetana nel viso beato di Carolina, 85 anni portati splendidamente. Ero faccia a faccia con lei, poco prima di partire, ad un tavolo del bar Ducale. Mentre l’anziana signora voleva convincermi che i movimenti lentissimi degli arti la rendevano una figurante di una pellicola sbiadita del secolo scorso, io invece pensavo esattamente il contrario.
La sua lucidità, che scivolava in quel filino di voce, mi ha riportato ai tempi in cui noi giovani trascorrevamo più tempo con gli anziani, prima che l’invasione delle “badanti” li rendesse apparentemente rottami da museo. Sabbioneta non è “un paese per vecchi”, ma ha un tesoro che va oltre l’arte e le pagine di storia lasciate da Vespasiano Gonzaga: sono gli anziani, colonna portante di una comunità, perché se non fosse stato per il loro coraggio, noi oggi non staremmo qui a parlarne.

La gioventù dovrebbe trasformare la fretta dello sciupare il presente nella disponibilità a scambiare quattro chiacchiere con loro, a sedimentare nei racconti dei nonni la memoria civile che rende qualsiasi paese davvero libero. Negli occhi luminosi di Carolina ho scoperto l’ultimo segreto della Sabbioneta del secolo scorso, quello in cui bastavano i legami affettivi a rendere gli uomini felici.
Stringendole la mano, prima di partire, mi sono ricordato dell’ultima volta in cui lo ha fatto mia nonna Lucia. Da allora non mi sono più voltato indietro, perché sapevo che non l’avrei più trovata.
Eppure, nei miei vagabondaggi, mi capita sempre l’occasione di rivederla accanto a me, come è accaduto a Sabbioneta dopo l’incontro con Carolina, 85 anni portati splendidamente bene, protagonista del film più bello che sia stato girato nella cittadella della provincia di Mantova: la visione lucida della dignità di chi ha vissuto la vita per la famiglia.

 Sabbioneta