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Cartolina dal Canada: Anne of Green Gables, compagna di viaggio

La mia traversata del Canada, tra Ontario e Québec, ha avuto una compagna di viaggio immaginaria: la scrittrice canadese Lucy Maud Montgomery. Non so a quanti questo nome dica qualcosa, ma alla mia generazione il suo ciclo di romanzi “Anna dei tetti verdi” arrivò per vie traverse grazie “Anna dai Capelli Rossi”, anime giapponese che aveva lo zampino di Miyazaki.

In realtà il mio itinerario iniziale prevedeva la tappa finale a CharlotteTown, nell’isola del Principe Edoardo, per mettermi sulle tracce dei luoghi natali e consultare documenti ingialliti della famosa scrittrice. Green Gables, la casa dove visse Lucy Maud ed è ambientato il ciclo di romanzi, è stato il luogo mai raggiunto, la cui fisionomia geografica custodisce la memoria letteraria di un personaggio e della sua autrice.

Ho scritto all’inizio che Lucy Maud è stata  mia “compagna di viaggio” perché non c’è stato tappa in Canada dove non mi fossi fiondato in una libreria dell’usato alla ricerca di una vecchia edizione di “Anne of Green Gables” per il mio archivio.
In realtà la caccia non poteva andare a buon fine, perché la Montgomery riuscì a pubblicare il primo romanzo fuori dai confini canadesi, a Boston nel 1908. A Toronto ho trovato una ristampa locale di una trentina d’anni fa, anche se la cronologia bibliografica  è molto contorta, ho consultato diverse edizioni in Ontario e Québec in lingua inglese e francese.

Pensavo che in Canada il personaggio di Anna Shirley si fosse imposto come una mascotte nazionale, ma accade troppo spesso che la rincorsa al futuro sbiadisca anche la memoria collettiva di un Paese. Alcuni giocattolai mi hanno ripetuto che le “doll di porcellana” di Anne sono roba di altri tempi e i pargoli canadesi non la hanno più incrociata in un programma televisivo per affezionarsene. E pensare che mia nonna Lucia mi fece appassionare alle storie di Il Pentamerone di Basile attraverso la tradizione orale, senza bisogno di un tubo catodico.

George Campbell, parente e nipote della scrittrice di “Anne of Green Gable”, ha pubblicato la prima edizione del romanzo edita nell’isola del Principe Edoardo.  Lo ringrazio pubblicamente per questa copia autografata e questa meravigliosa bambola che custodirò nel mio archivio. Non sono riuscito a conoscerlo personalmente. Questo dono è partito dall’isola del Principe Edoardo mentre ero in volo da Toronto.

Questa special edition del romanzo, edito per la prima volta nell’isola natale della Montgomery, è un’azione concreta per preservare la memoria letteraria della sua prozia e di quel personaggio che tutt’oggi ci fa esclamare con riconoscenza: vogliamo ripetere per l’ennesima volta che l’immaginazione è un talento grazie al quale non siamo costretti a barattare crudelmente l’essenza della nostra esistenza.

 

Nothing is ever really lost to us as long as we remember it.
(Lucy Maud Montgomery)

Addio a Dario Fo, giullare inviato da Dio a teatro

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rosario_pipolo_blog Non nascerà più un altro Dario Fo. Dio ne ha mandato uno in terra e ha scelto di farlo ramificare in Teatro, come una quercia. La vita è fatta di stagionalità, l’esistenza di più vite, di rinascite e mutamenti, evoluzioni e rivoluzioni.

Fo ha sgominato il tempo facendosi maschera; ha scarnificato la letteratura saccheggiando la commedia dell’arte e ricostruendo nel nostro presente le luci e ombre medievali attraverso il “Mistero buffo”, che ci ha fatto guarire dall’alibi disonesto della rassegnazione.

Dario Fo ha celebrato  (San) Francesco come giullare di Dio, noi oggi ne riconosciamo un altro: Fo, giullare di Dio appunto, alla sua maniera di restituire “dignità agli oppressi” o contrastare il Padreterno con delle interrogazioni che hanno reso l’arte del teatro la via paradossale per tentare di capirci qualcosa del mistero della vita.

Da qualche parte sta scritto che “dietro un grande uomo ci sia una grande donna”. Franca Rame  è stata compagna, moglie, confidente, prolungamento del giullare che ha viaggiato nel ‘900 senza subire passivamente gli squilibri degli spostamenti.

Prima di essere Nobel per la Letteratura  è stato legno del palcoscenico da cui germoglia il gramelot e gli stilemi della lingua fatta di mescolanza di dialetti; prima di essere attore e drammaturgo, è stato il sovversivo contro gli atti intimidatori e censori dei poteri forti e occulti della nefasta Prima Repubblica italiana; prima di essere Dario Fo, è stato “Dario e Franca”, quel duo inscindibile che oggi si prenderebbe burla di tutti gli ipocriti che lo piangono.

Mai come stanotte non vorrei essere lontano da Milano, dal corso di Porta Romana in cui ogni sera rincasava e trovava un bocciuolo nelle piantine che gli aveva affidato Franca. Chi ha fatto del teatro una ragione di vita non deve vergognarsi di versare lacrime, perché Dario Fo è stato il faro nel buio che ha smascherato le nostre coscienze, facendoci vedere in quale “merda” mettevamo i piedi.

Negli ultimi ventidue anni della mia vita ho condiviso diversi momenti con lui tra camerini e teatri, chiacchiere che furono schegge di interviste fino all’ultimo brindisi per i 90 anni al Piccolo di Milano, nella penombra del tempietto di Strehler e Grassi.

La prima volta non si scorda mai, in un camerino del teatro Bellini di Napoli, con Franca che si affaccia e bisbiglia: “Dario, Dario, guarda questo giovane napoletano, garbato e preparato, quanto ne sa su di noi”. Dopo l’intervista, si infilano il soprabito, mi prendono sottobraccio e scendiamo insieme le scale del teatro fino all’uscita sul retro.

È un ritaglio della mia vita che ho sempre custodito senza sgualcire  e, nel pieno di questa notte vuota e miseramente silenziosa, ritorna a galla con prepotenza: l’arroganza del memento si porta via con Dario Fo il Teatro che da burattini di legno ci ha trasformato in uomini veri, stessa materia di cui è fatta la coscienza civile.

I nostri cent’anni di solitudine iniziano oggi, senza Gabo!

Disegno di Jaime Molina

Rosario PipoloSul mappamondo non c’è Macondo, ma i luoghi raccontati attraverso la magia del realismo e l’immaginazione fissano una loro geografia. E’ la geografia che schiaffeggia il riverbero del tempo, nonostante tutto. José Arcadio Buendía è troppo impegnato a custodire sogni e illusioni patriarcali per accorgersi che la penna di Gabo ha smesso di sputare inchiostro.

I nostri cent’anni di solitudine cominciano lentamente proprio oggi, in questo venerdì, ai piedi delle tante “croci” su cui, nel secolo scorso, hanno inchiodato i sogni della Colombia e dell’America Latina tutta. L’inchiostro di Gabo ha annerito con poesia e impagno civile il sangue versato dai sudamericani per il proprio riscatto; storie dense e personaggi dalla forte identità hanno mandato al patibolo i “Giuda” che volevano la Colombia culla di mercenari e trafficanti di droga.

Gabo diede il ben servito ai “Pilato” americani che si lavarono le mani mentre i golpisti cileni scelsero il loro “Barabba”. La spada affilata di Gabo fu quella del combattente contro gli orrori della dittatura di Pinochet; il suo manifesto letterario era impregnato di valori del socialismo, fatto passare da tanti per comunismo, vista l’amicizia stretta con Fidel Castro.

Per il mondo è morto un gigante della Letteratura del ‘900. Per gli intellettuali è scomparso un Nobel. Per chi ha passato una vita a leggere i suoi libri, se n’è andato Gabriele Garcìa Marquez.
Per alcuni di noi non è successo nulla di tutto questo, perché i sogni fatti di parole di carta e passione civile non si fermano mai. Perciò oggi saremo a Macondo, con gli occhi puntati al cielo insieme alla famiglia Buendia, per sentirci liberi e orgogliosi di essere sudamericani.

Il cuore batte ancora per Gabo. Semplicemente, grazie.

Io piango: Josè Saramago lo scrittore che volle farsi “blogger”

O lo amavi, o lo detestavi. Non c’erano vie di mezzo. Io sono stato sempre un lettore volubile e scapestrato. Una volta mi è capitato tra le mani Il bagaglio del viaggiatore. L’ho letto con avidità – non perché portasse la firma di Josè Saramago –per la data di pubblicazione: il 1973,  anno della mia nascita. Saramago è scomparso alla veneranda età di 87 anni e a lui devo una cosa, molto prima che mi mettessi lo zaino in spalla per andarmene a zonzo in Europa. Uno spudorato amore per i portoghesi e per la loro terra, che da Porto verso Lisbona, continua a suggerirmi fugaci suggestioni del mio Sud. Quando vado in Portogallo non parlo né in inglese né in italiano, ma in napoletano.  Riesco sempre a farmi capire.
Ho avuto la fortuna di conoscere di persona l’altro grande portoghese, il regista Manoel de Oliveira, ma dello “scrittore scomodo” mi rimane il ricordo di quel libro e, soprattutto, gli interventi da blogger nel marasma della rete. O caderno de Saramago è l’ultimo atto coraggioso del Premio Nobel alla letteratura: un irregolare e poetico diario on line che non risparmia nessuno, neanche il premier italiano Silvio Berlusconi definito “una cosa pericolosamente simile a un essere umano”. Nessuno più di José è riuscito a somministrare una galanteria letteraria su più fronti, dalla poesia al teatro, coinvolgendo a suo fianco i grandi nomi del pianeta, da Chomsky a Pinter, quando c’era da gridare a voce alta.
E’ stato lo scrittore “polemico” per eccellenza, in esilio volontario alla Canarie, ma sempre voce di quel Portogallo che oggi deve riconoscergli un merito: aver innalzato la liricità della lingua portoghese, oggi più di ieri, ad arma di denucia delle balbuzie di questo tempo tenebroso.