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Diario di viaggio nella Londra di Get Back dei Beatles

Trent’anni prima della mini serie Get Back di Peter Jackson, che in questi giorni sta riportando in rete l’ondata emotiva della Beatles-mania, mi sono fiondato al numero 3 di Savile Row a Londra. Provai a fare la prima bravata da maggiorenne, salire sul mitico tetto dove John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr si erano esibiti per l’ultima volta, l’ex edificio della Apple, con le session tratte dall’album del divorzio Let it Be.

GET BACK E NOI FAN DI UN’ALTRA GENERAZIONE

Di quella mattina dei primi di agosto del 1991 resta questa foto scattata con la mia prima macchina fotografica a rullino. In realtà la strada del quartiere di Westminster, dove c’ero arrivato con una mappa beatlesiana acquistata a Liverpool l’anno prima, era stranamente desolata. Non riuscii a farmi aprire la porta d’ingresso dello stabile e la mia impresa non fu compiuta.
Oggi questa pagina da diario di viaggio mi sollettica una riflessione. Io appartengo alla generazione nata tre anni dopo lo scioglimento dei Beatles e che ha messo piede in Inghilterra la prima volta nel 1988. Fatevi due conti, non era passato soto i nostri piedi un tappeto così lungo dalla pubblicazione dell’atto finale Let it Be. In tanti della mia generazione hanno ottenuto il patentino di fan non per l’iscrizione a questo o all’altro club, ma perché hanno cercato e dato fisicità ad una band musicale e alla sua storia.

FISICITA’ IN QUEL LEGAME CON I BEATLES

Barcamenarsi a fare la cresta sulla spesa alla mamma per acquistare i dischi, correre ad un concerto di Paul McCartney, rincorrere Yoko Ono alla prima mostra in Italia dedicata a John Lennon, centellinare da minorenne ogni luogo natale in un viaggio da Bath a Liverpool in un treno inglese, bere una birra al Cavern in compagnia del primo manager che li portò ad Amburgo, fare un sit in nell’angolo di Central Park più vicino alla casa newyorkese di John e Yoko, entrare abusivamente negli studi di registrazione di Abbey Road, non sono stati atti di feticismo o follie di un ragazzotto di periferia. Sono stati piuttosto il tentativo sincero di dare fisicità a questo legame, approfondendolo, facendone un tassello di una vita, marinando noiose lezioni di greco e latino per tradurre e ritagliare le canzoni dei Beatles come facevo con i sonetti di Shakespeare: li lasciavo in anonimato sotto i banchi delle ragazze che mi piacevano per non apparire uno sfrontato romantico.

LET IT BE DI LINDSAY-HOGG SEME DI GET BACK DI JACKSON

Mi fa pena spulciare nei corridoi social commenti da bar triti e ritriti – da Yoko Ono ancora vista come la stregaccia cattiva alle idiote stroncature della discografia solista di un Beatles da parte dei mendicanti della bacheche facebookiane senza né arte né parte.
Surfando sull’onda emotiva dello straming disneyano di Get Back di Jackson, mi tornano in mente le sequenze rubate del documentario Let it Be di Lindsay-Hogg.
Nel 1990 mi rassegnai a vederlo pubblicato in VHS (le vecchie videocassette per i nativi digitali) dopo gli altri film dei Beatles o reperirlo nelle teche RAI che all’epoca lo aveva trasmesso. Nel ’94 mi fece un gran regalo un vicino di casa della famiglia londinese presso cui alloggiavo a Ealing Broadway. Tirò fuori dalla soffitta una videocassetta del fratello maggiore dove era registrato il documentario del 1969 con l’apparizione dei Beatles sul tetto di Savile Row.


IL MIO GET BACK

Un quarto d’ora prima della fine di Let it Be il nastro si attorcigliò nel videoregistratore e noi restammo a bocca asciutta. Nonostante la visione incompleta, il mio Get Back resta rannicchiato in quel pomeriggio londinese tra gli abbai del cane, la moquette puzzolente e l’afternoon tea servito dalla signora con dei biscotti fatti a mano in una casetta della working class.
Da allora “Whisper words of wisdom, let it be” da slogan McCartyano diventò per me stile di vita.

La mia traversata del 2018 sciolta in 30 anni di viaggi all’estero

Il passaggio verso l’anno nuovo l’ho vissuto con totale estraneità nei confronti del rituale brindisi. Pensavo fossero i rimasugli dell’ultimo viaggio in India, in realtà con il toc toc di questo 2018 ha bussato alla porta della mia vita una ricorrenza speciale: 30 anni di viaggi all’estero a budget ridotto.

Per un adolescente della mia generazione sbarcare in Inghilterra alla fine degli anni ’80 era come mettere il piede sulla luna. I costi erano esorbitanti anche per una vacanza studio e questa non era una concessione per un figlio di un operaio e una casalinga, a meno che non si scegliesse di andarci alla pari.
A distanza di anni sorrido ripensando alla ciurma di professori in paese che si affannavano per spedire i pargoli oltre Manica, ammalati della tipica illusione provinciale per cui l’Inghilterra glieli avrebbe restituiti tutti anglofoni in un paio di settimane. Si presero una gran bella fregatura a non tenerli sotto gli ombrelloni del litorale domitio.

Nell’estate del 1988 l’Inghilterra diventò inconsapevolmente l’isola che mi fece viaggiatore e, nelle estati successive, girarla in lungo e largo segnò i punti cardinali della mia crescita, lontana anni luce dai tempi in cui i viaggi possono stritolarsi in un’accozzaglia di selfie.

Londra si trasformò nel mio ombelico del mondo, determinando scelte future, in cui studi e passioni lavorati ad un uncinetto avrebbero tracciato lo stile di vita di un viaggiatore.
Non avevo compiuto ancora quindici anni, quando da una cabina di Westminster telefonai mamma a carico del destinatario per dirle che avevo mollato il gruppo, ero da solo alla ricerca della casa di Charles Dickens, lo scrittore vittoriano che ci accomunava nella letture.

Con quel gesto audace e incosciente feci del viaggio l’arma per esplorare me stesso e il mondo che mi circondava: sputai in faccia al timido bullismo di cui potevano essere vittime quelli della mia età nei viaggi di gruppo all’estero e staccarmi dal branco si rivelò una scelta di vita.

Rivedermi adolescente a piedi nudi sulle strisce pedonali di Abbey Road a Londra, oltre a farmi ritrovare il beatlesiano che da sempre è in me, è l’occasione per essere riconoscente a questi 30 anni di viaggi: mi hanno dato la forza per non abbassare mai la guardia e dire no a tutti coloro che avrebbero voluto farmi indossare le proprie scarpe per entrare nelle tribù matriarcali e patriarcali che mortificano il sano individualismo.

Al ritorno da ogni viaggio pensavo che gli altri fossero cambiati. In realtà ero io ad essere cambiato, rimanendo me stesso, ed oggi con i capelli brizzolati riconosco di aver avuto dalla vita la sfera di cristallo: era il mappamondo regalatomi da mia madre in un’epifania dell’infanzia, su cui erano segnati i 46 Paesi stranieri che hanno raggomitolato la mia anima di sognatore ribelle negli ultimi trent’anni.

 

Chi dice che è impossibile non dovrebbe disturbare chi ce la sta facendo. (Albert Einstein)

Diario di viaggio: i lividi di Londra che il turista mai vedrà

Rosario PipoloTornare a Londra dopo un’assenza lunga di 15 anni mi ha lasciato una provocazione: i social network sono la piazza urlata dagli esperti di viaggio che, il più delle volte, non hanno nel proprio bagaglio quella “storicità da viaggiatore” che ti permette di fissare i cambiamenti di una città.

La mia Londra del 1988, quella che diede una sterzata alla mia adolescenza, non esiste più così come quella vissuta quasi senza interruzioni fino all’anno della laurea. Non è la scoperta dell’acqua calda, piuttosto l’amara consapevolezza che anche un melting point metropolitano fatto di aristocrazia, eleganza, anarchia può subire via via le minacce dell’omologazione.

La globalizzazione ha le sue colpe tanto che basta immischiarsi lungo OxFord Street tra le solite vetrine che troveremmo in qualsiasi altra città. Londra è ancora sorprendente per le contraddizioni, tra il folcloristico conservatorismo della presa di corrente all’inglese e l’agevolazione ad indossare l’abito che meglio sa esprimere la tua personalità; tra la sporcizia che ammanta le strade del centro e quel tanfo di disinfettante che respiri in una scarpinata notturna lungo Marylebone Road; tra il taglio colonialista di quella vecchia “baldracca” della Sterlina e il crocevia meticcio che la rende capitale europea della multietnicità.

Per la maggior parte degli italiani Londra è rimasta recintata tra Piccadily Circus e Coven Garden; per tanti turisti si è fatta infinocchiare nel covo del mercatino di Candem Town, svenduto agli asiatici; per i piazzisti dei social network la culla della nightlife europea che sa nascondere i propri lividi. I lividi restano e non mi convinse del contrario neanche la canzoncina di Paul McCartney, che nel 1988 trasformai in colonna sonora del mio viaggio metropolitano londinese.

Mi staccai dal gruppo all’insaputa dei miei, spezzai le gambe ai 15 anni di ragazzotto di provincia.  A Londra cominciai ad alzarmi in volo senza perdere di vista quei lividi.

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Londra saluta Margaret Thatcher e dimentica gli angeli caduti in volo

Rosario Pipolo“Oggi siamo tutti thatcheriani”. Le parole di Davi Cameron, nel giorno in cui Londra ha dato l’ultimo saluto a Margaret Thatcher, sono inesatte. Non è così e lo sanno bene il volto pallido della storia britannica, sulla coda del ‘900, così come i minatori che hanno organizzato una festa folk dall’altra parte del Paese. Mentre il feretro della Lady di Ferro si muoveva lento verso St. Paul, ripensavo ad un altro funerale affollato, quello di Lady Diana Spencer, la principessa amata dal popolo e osteggiata da Buckingham Palace.
Quella era la fine di una favola da fotoromanzo popolare con la regina coronata, che non sapeva se abbassare il capo dinanzi al passaggio del feretro. Qui si trattava di un capo di Stato, di un ex ministro che aveva tenuto in pugno, dal 1979 al 1990, il destino della Gran Bretagna. Persino il Big Ben si è ammutolito. Non accadeva dai tempi dell’addio a furor di popolo a Winston Churchil.

Troppa scena per dare solennità al momento, per restituire smalto ai nuovi rampolli del partito Conservatore, per fare uscire dallo zoo della politica d’oltremanica le scimmiette come Tony Blair, che fecero crogiolare i progressisti sulle gambe del thatcherismo. “Oggi non siamo tutti thatcheriani”, ribadirei, aggiungendo però che la Sinistra blairiana lo è stata quando non sapeva più che pesci prendere.

La regina Elisabetta in testa, era lì nel silenzio tombale che ha trasformato la ciurma dei capi di Stato invitati come un set di manichini da vetrina. La verità spetta di diritto alla voce delle nostre coscienze. Quando la bara è uscita da St. Paul avvolta dalla bandiera, mi sono convinto che in quella cassa di legno pregiato non c’era Margaret Thatcher. C’erano tutti i corpi e gli spettri dei morti sotto il suo regime tra tensioni sociali, aggressività colonialista e vecchi rancori tenuti a marcire in Irlanda. Non ho più visto la folla che salutava Lady di Ferro, ma le urla di donne, uomini e bambini che si sono visti strappare un caro dalla loro famiglia, negli anni in cui quel pugno di ferro sfigurò il volto della Gran Bretagna, privandolo di umanità e facendolo a pezzetti nella più grande macelleria sociale.

Maggie riposa e basta. Se esiste una giustizia divina, la pace spetta agli angeli spediti all’inferno durante il tuo regime.

paul mccartney e nancy shevell: il terzo matrimonio non seppellisce il dolore

Nell’estate del 1991 mi presentai al Marylebone Register Office di Londra, e richiesi una copia del certificato di matrimonio di Paul McCartney e Linda Eastman. Gli addetti mi guardarono stupiti quando si accorsero che si trattava dell’ex-Beatles. La spuntai e quella bravata di un ragazzotto incuriosì qualche anno dopo Red Ronnie. Mi invitò ad una sua trasmissione e lo mostrai per la prima volta in pubblico.

Col passare del tempo mi sono reso conto di non aver vissuto il documento come un cimelio, ma come il sigillo di una gran bella storia d’amore. Persino quando ascoltavo i primi album da solista di McCartney respiravo l’affiatamento della coppia. La mia visione infantile della fiaba d’amore si era trasferita in una casa di campagna inglese, dove il marito e la moglie condividevano amore, famiglia, passione per la vita e per il proprio lavoro. Ne ebbi conferma quando li vidi assieme sul palco la prima volta il 24 ottobre del 1989.

E’ complicato capire il dolore per la vedovanza, per la perdita della compagna di una vita. Nonostante il muro di vetro mediatico, abbiamo percepito il disorientamento dell’ex Beatles dopo la scomparsa prematura di Linda. Tuttavia, si fatica a guardare lo scatto di Paul McCartney invecchiato dopo la celebrazione del  terzo matrimonio con la ricca ereditiera Nancy Shevell, nello stesso posto dove si unì alla prima e adorata moglie. La mia non è né la sindrome di possessività del passato né l’attacco di panico nostalgico che potrebbe tornare riascoltando dal vivo  My Love. McCartney dovrebbe ricantarla il prossimo 27 novembre nella tappa italiana del suo tour al Forum di Assago.

E’ piuttosto il tentativo spicciolo di capire quale sia l’ultima strada da percorrere per un comune mortale o una rock star nell’amaro tragitto della vedovanza: seppellire sotto terra il dolore o restare da soli per condividerlo con il resto dei proprio giorni?

 Macca sposa Nancy

  McCartney in Italia: due date a Novembre

 Paul e Linda, Just married!

 

Addio Amy Jade: prendi la valigia e portati via…

Amy Jade, prendi la valigia e scappa senza il Winehouse. Adesso è di troppo, non ti servirà più. Portati via l’odore del catrame che respiravi passeggiando sulle sponde del Tamigi, le cover dei chitarristi ambulanti sotto le metropolitane londinesi, le lacrime amare dei tuoi, tappate in una bottiglietta come quella che facevi galleggiare nelle estati sul mare di Brighton.
Amy Jade prendi la valigia e scappa spedita, come quando correvi incontro a tuo padre, che ti faceva salire sul suo taxi e ti incoronava reginetta delle vie del tuo quartiere. Portati via lo humor yiddish, le filastrocche cantate in coro a scuola, le foto ingiallite degli ebrei emigrati in Gran Bretagna, quelle smisurate preghiere sussurrate al vento, che non ti hanno mai convinta da quale parte stesse Dio.
Amy Jade prendi la valigia e scappa con l’ultimo gorgheggio che hai innalzato al cielo. Portati via i pomeriggi a “rappare” assieme ai tuoi compagni di merenda, il piercing che scandalizzò i bacchettoni della Sylvia Young Theater School, le canzoni soul che ascoltavi per i fatti tuoi, anche quando il mondo girava da tutt’altra parte.
Amy Jade prendi la valigia e scappa dal patetico piagnisteo riservato alle “anime fragili”. Portati via le 27 candeline che ogni volta riaccenderemo con le tue canzoni, perché d’ora in poi “non occorrerà più fingere”. Svestendoti, ti sentirai leggera come una piuma. Potrai finalmente vagare tra le nuvole. Sono le stesse che contavi da bambina a Southgate.
Amy Jade prendi la valigia, scappa senza quel maledetto ritaglio di giornale del Guardian che recita così: Amy Winehouse, who has been found dead at the age of 27, the cause not immediately clear”. Fanculo, a quel maledetto sabato.

Quanto ce ne frega del matrimonio di William e Kate?

Ho tirato fuori dall’armadio lo smoking. Forse lo riutilizzerò il prossimo 29 aprile per imbucarmi al matrimonio di William e Kate. Del resto, sono recidivo: la prima volta che ho messo piede nell’ Abbazia di Westminster mi sono infiltrato, perché, nella mia ottica sovversiva da adolescente, era impensabile pagare l’ingresso per una Chiesa. All’epoca, volevo rendere omaggio ad Elisabetta I, sovrana piena di contraddizioni, grazie a cui mi ero potuto cibare di testi teatrali pregnanti.
Tornando al Principe felice e alla consorte, a parte i souvenir kitch che affollano Londra così come il gossip ridicolo che invade il web, mi sono chiesto quanto ce ne importi davvero di questo matrimonio reale. Nel cuore delle nuove generazioni la monarchia anglossassone non rappresenta neanche più il ridicolo accessorio ingombrante, che continua a costare agli inglesi sudore e fatica. E non ci vuole mica un film di Ken Loach per svelare l’amara verità? Il fumo negli occhi delle nozze di William e Kate non cancellerà i problemi sociali ed economici che stanno divorando la Gran Bretagna, isola infelice dilaniata dai litigi da cortile dei Laburisti e Conservatori.
L’iconografia di Buckingham Palace è finita nell’ultimo gesto che ha decapitato per sempre gli intrighi di corte: la regina Elisabetta che china il capo al passaggio del feretro di Lady Diana Spencer, l’ultima principessa, l’ultima “Rosa d’Inghilterra” che aveva imbarazzato gli Anglicani per l’oltraggioso imparentamento con i Musulmani. Paradossalmente sarà proprio il fantasma di Diana a vagare sulle nozze più attese dell’anno, perché in tanti cercheranno di trovare nel matrimonio di William e Kate quello della principessa ribelle con l’ingessato erede al trono Carlo.
Quel 29 luglio del 1981 ero incollato anche io alla tv per seguire l’evento. Ero in vacanza a Paestum. Presi per mano Benedetta, la mia fidanzatina, le preposi una cerimonia improvvisata tra le cassette di bibite del deposito del nonno: Io ne avevo 8 e lei 5. Le posi sul capo uno scialle velato fregato a mia madre e usai come anello quello che apriva le lattine di Coca-Cola. Io e Benedetta fingemmo di essere Carlo e Diana e, appena la diretta televisiva terminò, sognammo che quella carrozza arrivasse da Londra a Paestum per portarci via. Non so se oggi il matrimonio di William e Kate ispirerebbe una coppia di bambini come è successo a noi. Non credo, perché dopo tutto i futuri reali sembrano una coppia di bambolotti destinati a finire sulle bancarelle dei giocattolai.
Nel caso non usassi lo smoking per le nozze londinesi, sapete cosa vi dico: mi rimetterò alla ricerca di Benedetta per dirle che trenta anni fa avevamo visto lungo. Del matrimonio del 29 aprile non ce ne frega niente, perché da allora i principi e le principesse vivono fuori dai palazzi.