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Franco Battiato e il passaggio in Medio Oriente della mia generazione

La mia generazione, nata al’alba degli anni ’70, deve alla musica di Franco Battiato (1945-2021) gli occhi per guardare con privilegio il Medio Oriente. La colonna sonora del mio primo giorno delle elementari fu L’era del cinghiale bianco, che impazzava da una radio libera all’altra. Il maestro siciliano, per quella bizzarra capigliatura, mi faceva sorridere quando la domenica pomeriggio sbucava sul palco di Discoring, la trasmissione musicale di Gianni Boncompagni.

SGUARDI PRIVILEGIATI SUL MEDIO ORIENTE

La mia infanzia, a livello mediatico, è stata segnata dalle bombe che cadevano su Beirut e gli schizzi di sangue della faida tra israeliani e palestinesi. Con il tempo il canzoniere di Franco Battiato ha accorciato le distanze tra me e i miei coetanei di allora, finiti in disgrazia nel Medio Oriente turbolento: bambini, orfani di guerra, cresciuti sotto i lampi dei bombardamenti, a cui era stato sottratto il diritto allo studio per essere allevati con elmetti e fucili, come se non ci fosse via d’uscita dall’odio.

La musica di Battiato si è rivelata un varco provilegiato per quelli come me, i cui studi linguistici di impronta europeista non agevolavano il contatto con l’emisfero arabo. Brani come Da Oriente ad Occidente, Pasqua Etiopie, L’Egitto prima delle sabbie, Arabian Song, E ti vengo a cercare, sono state pure illuminazioni.
Meditazioni musicali che mi hanno fatto volare, prima di inserirle nella lista del mio giro del mondo, nella Teheran delle contraddizioni della rivoluzione di Khomeini, nella Gerusalemme crocevia di religioni e culture milleniare, nel Cairo del passaggio controverso del potere da Sadat a Mubarak.

BATTIATO, COLONNA SONORA TRA VIAGGIO E IMMAGINAZIONE

Le canzoni più filo-orientali di Battiato sono state la colonna sonora della mia lettura di Persepolis, graphic novel della fumettista iraniana Marjane Satrapi, o del mio viaggio verso Istanbul, su un autobus che dai Balcani mi catapultò sotto una delle porte che si aprivano sul Medio Oriente.
In quel ferragosto del 2009 in Turchia c’erano 1.400 chilometri che mi separavano dall’Iraq. Eppure la cover di Battiato di Fogh in Nakhal, canzone tradizione irachena udita nei pressi del Gran Bazar di Istanbul, cancellò improvvisamente le distanze e profetizzò ciò che avrei vissuto pochi anni dopo a Ground Zero: io e una studentessa irachena in una preghiera laica per le vittime dell’11 settembre.
L’opera di Battiato, complessa e multiforme tra filosofia, meditazione, religione, spiritualità e musica, ha il merito di aver abbattuto tanti muri, inclusi quelli dei malefici pregiudizi, senza cui la mia generazione non avrebbe fatto il suo passaggio in Medio Oriente: oggi la sua scomparsa, sotto le bombe del nuovo millennio tra Israele e Palestina, sembra chiudere il cerchio di una pace che tarda ad arrivare, anzi che forse mai arriverà.

NON C’E’ ADDIO PER UN UN ESSERE DEL COSMO

Agli altri l’affanno di etichettare Franco Battiato e la sua opera. Il ricordo della mia intervista a Milano una quindicina d’anni fa mi costringono a fare altro: lasciare galleggiare le sensazioni di quei momenti, come se davanti a me nel camerino ci fosse stato un essere del cosmo passato sulla terra, la cui generosità e spiritualità hanno reso la sua opera uno dei più grandi lasciti artistici in Italia.

E ti vengo a cercare

Anche solo per vederti o parlare

Perché ho bisogno della tua presenza

Per capire meglio la mia essenza.

Immigrato di Checco Zalone affossa il pop di Laura Pausini

Non è una beffa. Immigrato di Checco Zalone ha vinto il David di Donatello come miglior canzone originale, destando scalpore tra tutti i fricchettoni del pop che davano per scontato la vittoria di Laura Pausini. Cosa c’è di scandaloso? E’ la volta buona in cui ironia e riflessione cantate nel film Tolo Tolo soppiantano il solito canzoniere, con tutto il rispetto per una grande artista come la Pausini.

LA TRAVOLGENTE “FIGHT FOR YOU” E LA PAUSINI SENZA OSCAR

L’Oscar mancato della Pausini il 25 aprile scorso mi ha ricordato quello del film Pinocchio di Benigni nel 2002, scartato alla candidatura come miglior film straniero. Non tutte le strade del marketing cine-musicale spianano la strada all’ambita statuetta: Io sì (Seen) era accoppiata al film di Ponti junior con donna Sophia.
Niente Oscar per il pop anti-razzista della Pausini, sconfitta a Hollywood dalla rivoluzionaria H.E.R. che aveva mitragliato in puro stile R&B i colpi mortali della travolgente Fight For You.


IL DAVID DI DONATELLO A ZALONE

Il David di Donatello a Immigrato resta una bella sorpresa da parte dell’Accademia del Cinema Italiano presediuta da Piera Detassis. “La solita cricca di sinistra che premia i soliti, no questo era il foglietto se perdevo – ha commentato a caldo il vincitore – Grazie all’accademia per il riconoscimento meritocratico.”
Il polverone che si è alzato sui social per la seconda sconfitta della nostra regina del pop lascia il tempo che trova. Il podio a Zalone ha portato una ventata di freschezza su uno dei palchi più prestigiosi in Italia. Inoltre, una vetrina ambita come il David di Donatello, attraverso lo sguardo su cinema e dintorni, ha il compito di essere anche lo specchio sociale del Belpaese e dei suoi umori.
Seen, scritta in inglese da Diane Warren e poi tradotta in italiano dalla Pausini, è troppo d’oltreoceano e manca di quella “profonda italianità” che invece Immigrato di Zalone sprigiona.

All’uscita del supermercato

Ti ho incontrato

(“il carrello lo porto io”)

Al distributore di benzina

(“metto io, metto io”)

Monetina

NELL’ITALIA MULTIETNICA DI ZALONE

Non sono forse i primi versi della canzone di Zalone già una polaroid autentica dell’Italia dei nostri tempi? L’umorismo tagliente sega i luoghi comuni, limando gli spigoli surreali di “Poi la sera la sorpresa a casa Al mio ritorno Ti ritrovo senza permesso nel soggiorno Ma mia moglie non è spaventata” in amarezza, dolore, riflessione:

Immigrato

quanti spiccioli ti avrò già dato

Immigrato

mi prosciughi tutto il fatturato

Checco Zalone ha fatto centro con un testo dissacrante che viene messo in bocca al razzista di media levatura. Tra versi e ritornello “apparentemente” scanzonati emerge invece un’arguta meditazione sull’Italia multietnica del nuovo millennio.
Tra le righe si legge la noiosa assuefazione dell’instinto di sopravvivenza del Belpaese tra pregiudizi e polemiche per niente costruttive.
Alla fine del gioco resta sempre la scorciatoia del fare a scaricabarili con il rischio e un prezzo alto da pagare: finire in un vicolo cieco.

Immigrato

Chi ha lasciato il porto spalancato?

Immigrato

Ma non ti avevano rimpatriato?

Colapesce e Dimartino “vincitori morali” del Festival di Sanremo ai tempi del Covid

Antonio (in arte Dimartino) è cresciuto a Palermo e chissà se l’ho incrociato una quindicina d’anni fa, durante la mia estate a Mondello, dalle vecchiette che friggevano panelle a poca distanza dalla celebre spiaggia custode dei segni delle riprese gattopardiane.

Antonio aveva acceso una fiaccola in memoria dei giudici Falcone e Borsellino cantando in giro per la sua Sicilia insieme ai Famelika, ex compagni di viaggio, un brano a me particolarmente caro, Giovà, scoperto proprio durante quell’estate palermitana.
La canzone, che vi consiglio di ascoltare, sventolava in sordina la bandiera di protesta contro Cosa Nostra, omaggiando il cantastorie siculo Giova ucciso dalla mafia nel 1962.

Lorenzo (in arte Colapesce) è cresciuto a Solarino, ad una ventina di chilometri da Siracusa e come nome d’arte ha scelto quello di un’antica leggenda siciliana e delle gesta del figlio di un pescatore rimasto sott’acqua per non far sprofondare l’isola.

Pochi giorni prima del Natale 2009 mi capitò per sbaglio tra le mani la mitica Merry Christmas Darling dei Carpenter nella cover trasfigurata da una band siracusana, gli Albanopower. Su questa giostra strampalata di indie, new wave e pop c’era salito anche Lorenzo, il futuro Colapesce nel progetto da solista.

Colapesce e Dimartino, proprio in questi giorni Disco di platino per la loro canzone sanremese Musica leggerissima, hanno unito storie personali e artistiche della loro magica isola Trinakria.

Lorenzo e Antonio sono vincitori morali del Festival di Sanremo ai tempi del Covid prima ancora che a decretarlo fosse il Premio Lucio Dalla o il termometro della febbre musicale. Lo sono fin dall’esibizione della prima sera, in cui i baffetti alla Alan Sorrenti di Lorenzo ci hanno catapultati nella freschezza sperimentale degli anni ’70 e tra le elaborazioni melodiche degli anni ’80 di cui è cosparsa Musica leggerissima.

Per non parlare del bellissimo video, un fiume in piena di citazioni cinematografiche tra la poesia visiva di Fellini, il surrealismo di Buñuel infarcito del film beatlesiano di Magical Mistery Tour e l’introspettività di Bergman. Eppure la canzone Musica leggerissima è solo in apparenza il tormentone che ha contagiato i social e farà da colonna sonora alla prossima estate, perché nasconde la drammaticità di questo tempo covizzato sotto le ascelle dello slogan “andrà tutto bene”.

Colapesce e Dimartino hanno vinto Sanremo 2021 perché ci hanno fatto saltellare e ballare con leggerezza sugli assilli amletici del tunnel della pandemia come l’antimilitarismo di “Se bastasse un concerto per far nascere un fiore Tra i palazzi distrutti dalle bombe nemiche”, il precipizio della morte “Per non cadere dentro al buco nero Che sta ad un passo da noi, da noi”, la fede che vacilla “I tamburi annunciano un temporale Il maestro è andato via” o sugli squilibri del tempo della vita che corre veloce “Diventare adulti sarebbe un crescendo Di violini e guai”. Come hanno ribadito Lorenzo e Antonio:

La mortalità è un concetto oggettivo. Tutti vediamo i nostri corpi sparire, disintegrarsi, diventare altro.

Colapesce e Di Martino sono i nuovi outsider della Sicilia, figli della dea Giuni Russo e benedetti dallo Zeus dell’isola di Trinakria Franco Battiato, del quale ci hanno regalato l’emozionante cover Povera patria, dito nella piaga dell’Italia ammalata ancora dei corsi e ricorsi storici e “schiacciata dagli abusi del potere di gente infame, che non sa cos’è il pudore”.

A San Valentino verso casa di Mimì Bertè

Quando acquistai la prima casa, mi sentii fin dal primo momento “vicino mancato di Mimì Bertè”. Distavo in linea d’aria una manciata di chilometri dall’ultima abitazione della grande interprete. Un anno dopo il trasloco, mi misi in auto e cercai quelle mura a Cardano al Campo, in provincia di Varese, che l’avevano custodita fino all’ultimo giorno.

Mentre mi avvicinavo allo stabile, mi tornarono in mente le parole di Matteo, agente immobiliare e primo amico della zona: “La casa è lo specchio dell’anima delle persone.” In realtà, io e Matteo stringemmo amicizia proprio su questa riflessione e lo sforzo di guardare oltre la corteccia della professione.
Quella stradina a Cardano e quella casa – non avevano niente a che fare con la residenza di una diva – mi fecero ritrovare la persona, la semplicità, la bellezza di donna del Sud, lontana dal personaggio Mia Martini costruito dai discografici di allora.

Le mura della casa a Cardano trasudavano di antidivismo, perché Mimì Bertè aveva battagliato da donna emancipata anche contro i pregiudizi che ammazzano la personalità e il maschilismo avvelato ai vertici dell’industria discografica italiana negli Anni di Piombo.
Chi ha seguito con passione e costanza i suoi passi musicali, sostenendola anche con l’acquisto dei dischi nel corso del tempo, non può accontentarsi di una fiction televisiva o delle dichiarazioni audaci dell’attrice protagonista, a proposito dei “no clamorosi” di chi non è voluto comparire: “Voglio credere sia stato tutto un atto d’amore di Mimì, che abbia scelto lei che facesse parte del suo film solo chi le voleva veramente bene.”

Nessuno dovrebbe avere l’arroganza di farsi portavoce dell’intimità di Mimì. Oggi, nel giorno di San Valentino, Festa degli Innamorati, vado in direzione della sua casa, perché Mimì Bertè è stata innamorata anche dell’amore e dei sogni.
L’immaginazione mi farà vedere danzare, tenendosi per mano su un balcone di Cardano al Campo, l’interprete e l’autore che le scrisse questa canzone:

“E non finisce mica il cielo
Anche se manchi tu,
Sarà dolore o è sempre cielo
Fin dove vedo.”

Mimì Bertè resta un angelo libero e questo lo sanno bene tutti coloro che credono ancora nel potere strabiliante dell’immaginazione.

Sudafrica on the road: African Cream Music, la mia colonna sonora sulle orme della libertà

Quando Alex Agulnik fondò l’etichetta discografica indipendente African Cream Music, era consapevole che la musica restava una scorciatoia per arrivare diritti al cuore della storia di un Paese. Negli oltre 3 mila chilometri on the road in Sudafrica alcuni album fondamentali pubblicati dalla label con sede a Johannesburg hanno fatto da colonna sonora al mio viaggio.

Il sorriso di Nelson Mandela che illumina la copertina del doppio cd The Winds of Change altro non è che l’apripista di un viaggio musicale nel viaggio. Questa è la mia compilation preferita perché, grazie ad una selezione certosina, ci sono le tappe dei cambiamenti del Sufadrica che marciò verso la libertà, schiacciando il letame della politica che aveva alimentato l’Apartheid: Windows of Change di MacMillann, Asimbonanga di Johnny Clegg, Papa Stop the War di Chicco o Power of Africa di Chaka Chaka sono gemme che cospargono di letteratura le sonorità sudafricane.

Non posso che associare il mio vagabondaggio sudafricano a queste canzoni, ai loro vezzi letterari, a quella loro forza di essere cartoline da spedire senza francobollo con gli slogan che cicatrizzano le ferite di una terra: Freedom Songs, Voice from Mother Africa o Songs and Stories of Africa sono compilation che mettono a tacere il silenzio e l’omertà che hanno aperto buchi e trasfori nelle nostre coscienze.

Attraversando la provincia del Mpumalanga che mi porta tra le braccia del Parco Nazionale del Kruger, l’ascolto dell’album Singabantu di Skipper Shabalala mi ricorda che gli immigrati di altri stati confinanti hanno dato una nuova linfa alle sonorità sudafricane, che spesso sfuggono agli odiosi turisti distratti e attratti dai luoghi comuni.

 

Non importa se sei ricco o povero, dobbiamo essere uniti per essere una nazione compatta. Siamo tutti essere umani. (Skipper Shabalala)

Quel concerto di Paul McCartney insieme a Fabrizio Frizzi

Il 19 febbraio 1993 al Forum di Assago io e Fabrizio Frizzi sembravamo il fratello minore insieme al maggiore venuti a spartirsi il concerto di Paul McCartney. Avevamo due cose in comune: la montatura degli occhiali e la passione sfrenata per i Beatles.

Io ero arrivato a Milano da Napoli, dopo una litigata furibonda con mio padre, non ancora ventenne. Lui aveva superato da un pezzo la trentina e aveva accanto la sua Rita. Lei mi sorrideva, con Frizzi attaccai bottone e gli dissi che i miei compagni di liceo notavano una somiglianza tra me e lui. Parlammo delle canzoni di McCartney, dei Beatles, mi disse che la sua preferita era Penny Lane.

In quella mezz’ora, prima l’inizio del concerto di Macca, Frizzi mi apparve improvvisamente come un fratello maggiore che ti faceva venire voglia di aprirti senza timore di essere giudicato. Rassicurò le mie perplessità da neo studente universitario senza né arte né parte con una sagace riflessione: “Le passioni sane vanno alimentate perché ci aiutano a far venire fuori il meglio di noi stessi”.

Al termine del concerto con il suo bon ton Fabrizio Frizzi mi consigliò di accorciare i capelli se volevo assomigliargli di più. Ci stringemmo la mano e poi lui scomparve lungo un corridio del Forum tenendo per mano Rita Dalla Chiesa.
Stasera ho tirato fuori dal mio archivio il biglietto di quel concerto memorabile. Glielo dedico dopo venticinque anni esatti insieme a questa bella fiaba che tanti anni fa lesse in chiusura di una trasmissione televisiva:

Le quattro candele, bruciando, si consumavano lentamente.
Il luogo era talmente silenzioso, che si poteva ascoltare la loro conversazione.

La prima diceva:
“IO SONO LA PACE, ma gli uomini non mi vogliono:
penso proprio che non mi resti altro da fare che spegnermi!”
Così fu e, a poco a poco, la candela si lasciò spegnere completamente.

La seconda disse:
“IO SONO LA FEDE purtroppo non servo a nulla.
Gli uomini non ne vogliono sapere di me, non ha senso che io resti accesa”.
Appena ebbe terminato di parlare, una leggera brezza soffiò su di lei e la spense.

Triste triste, la terza candela a sua volta disse:
“IO SONO L’AMORE non ho la forza per continuare a rimanere accesa.
Gli uomini non mi considerano e non comprendono la mia importanza.
Troppe volte preferiscono odiare!”
E senza attendere oltre, la candela si lasciò spegnere.

…Un bimbo in quel momento entrò nella stanza e vide le tre candele spente.
“Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese, io ho paura del buio!”
E così dicendo scoppiò in lacrime.

Allora la quarta candela, impietositasi disse:
“Non temere, non piangere: finchè io sarò accesa, potremo sempre riaccendere le altre tre candele:
IO SONO LA SPERANZA”

Con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime, il bimbo prese la candela della speranza e riaccese tutte le altre.

CHE NON SI SPENGA MAI LA SPERANZA DENTRO IL NOSTRO CUORE…

…e che ciascuno di noi possa essere lo strumento, come quel bimbo, capace in ogni momento di riaccendere con la sua Speranza,

la FEDE, la PACE e l’AMORE.

La grande lezione di Nick Cave, esploratore sofisticato di dolore e sofferenza

Abbiamo un debito nei confronti di Nick Cave per averci ricordato che dolore e sofferenza sono un cosa seria e possono starci, senza pregiudizi, in un gomitolo di canzoni. La musica è specchio della nostra vita, delle notre scelte, di fallimenti e vittorie e i gusti personali ne sono latitanza da ciò che non ci appartiene, o meglio da ciò che ci illudiamo non ci tocchi.

Quando ero ragazzo Nick Cave & i Bad Seeds erano roba da “Dark”, quei ragazzetti vestiti di nero da cui negli oratori di perferia dicevano di stare alla larga.
Lì non ascoltavano il gospel ma il Gen Rosso, la band cattolica nata prima delle turbolenze sessantottine, il cui canzoniere era diametralmente opposto a quei “brutti ceffi vestiti di nero”.

Nick Cave ci ha ricordato, durante l’ultimo meraviglioso concerto di Milano, che dolore e sofferenza non hanno né colore politico né religioso perché appartengono all’esistenza umana. Nick aveva capito che per esplorarli non bastavano più la rabbia del rock o l’idiosincrasia del punk.
Un stupratore, un condannato a morte o un assassino non vanno raccontati più tra bagni di sangue splatter, piuttosto visti dal di dentro con l’occhio dell’anima del poeta.

Osservare Nick Cave per oltre due ore avvolto tra il suo pubblico, nella continua ricerca del contatto che riscrive lo psicodramma collettivo e misura gli stati d’animo sulla falsariga di un ritiro spirituale nella fuga dalla porta del tempo, ci convince che la poesia contemporanea giace nella parola che si fa performance, nella teatralità che scuote la musica.

Abbiamo un debito nei confronti di Nick Cave per averci ricordato che i poeti sono sul cammino di noi mutilati dalla merda spalata dalla globalizzazione.

C’è sempre dolore intorno. Questa è una cosa su cui puoi giurare nella vita: ci sarà sempre un eccesso di dolore. (Nick Cave)

Se incontrate Greta Menchi raccontatele chi era Claudio Villa 

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rosario_pipolo_blog_2Se incontrate Greta Menchi, la YouTuber che ha scatenato la sommossa sui social per essere finita nella giuria degli esperti del 67° Festival di Sanremo, raccontatele chi era Claudio Villa.

Il suo temperamento da ribelle fece del romano Claudio Pica “il reuccio della canzone Italiana”. Da ugola possente tra le strofe di quelle canzoni accompagnò la risalita dei nostri nonni negli anni del Secondo dopoguerra, tra gli affanni della ripresa dell’Italia ferita ed umiliata dal fascismo.

Se incontrate Greta Menchi, raccontatele che ai tempi di Claudio Villa il successo non era fatto delle bolle di sapone di milioni di “mi piace” ma dal percorso di sacrifici che accompagnavano il talento passo dopo passo per fare del canto un mestiere. Figuratevi poi per il figlio di una casalinga e di un vetturino della Roma popolare e trasteverina, lontana dai piani alti di via Veneto.

Se incontrate Greta Menchi, raccontatele che il “reuccio” Claudio Villa battagliò perché al Festival di Sanremo sparissero quelle maledette schedine, antenate del diabolico televoto dei giorni nostri, che mischiarono il galoppo con gli interessi dell’industria discografica.

Se incontrate Greta Menchi, raccontatele che Claudio Villa si infuriò quando il Festival di Sanremo fu invaso dal playback e i cantanti sembravano pupazzi di cartone doppiati dalla loro stessa voce. Fu guerra a viso aperto per far tornare l’orchestra sul palco dell’Ariston. La ebbe vinta e oggi gli riconosciamo il merito.

Se incontrate Greta Menchi, raccontatele che fino all’ultimo minuto, in giacca da camera, Claudio Villa guardò in TV il suo amato Festival di Sanremo. Il 7 febbraio di trent’anni fa, prima che Morandi-Tozzi-Ruggeri fossero proclamati vincitori del Festival di Sanremo del 1987, Pippo Baudo ci diede la notizia triste. Da casa intonammo “Buongiorno tristezza” e forse Sanremo fece un grande errore: avrebbe dovuto togliere con l’ascia del legno dal palco dell’Ariston e rivestire il feretro del signor Claudio Villa.

Se incontrate Greta Menchi, raccontatele che non appartengo alla generazione di Claudio Villa, ai tempi ero uno sbarbatello di terza media. Ho cercato la memoria delle mie radici nell’Italia “povera ma bella” dei miei nonni, quella vissuta al cinema grazie ai Risi, agli Steno, ai Monicelli, ai De Sica, ai Visconti.

Se incontrate Greta Menchi, raccontatele chi era Claudio Villa, senza vezzi nostalgici in bianco e nero, ma con un pugno che tiene stretto il tempo della vita, senza la tachicardia del voyeurismo volgare dell’età dei social network.

Last Christmas e il pop controverso di George Michael

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rosario_pipolo_blog_2La canzone beffa, “Last Christmas”, l’inno natalizio dietro cui si è nascosta un’intera generazione, alla deriva sulla zattera dei pirotecnici e vuoti anni ’80. Era scritto subdolamente nei versi di questo 45 giri da milioni di copie vendute che la vita di George Michael si sarebbe fermata sulle note di “l’ultimo Natale”. In questo perfido anno bisestile che si è portato via Bowie, Prince , Coehen, la stessa sorte è toccata anche a George all’età di 53 anni nel pomeriggio del 25 dicembre di Natale. Le fonti ufficiali parlano di infarto, ma i dubbi restano sulla scomparsa improvvisa del musicista britannico.

Il pop di George Michael ha cavalcato onde fatte di alti e bassi, addolcendo una generazione troppo distante dal rock graffiante e ribelle degli anni ’70 per ammettere che bisognava accontentarsi, che gli incentivi musicali andassero presi con le pinze.
I Wham furono pop disimpegnato nell’Inghilterra Thatcheriana che non voleva ribelli tra i piedi e la conservatrice Lady di Ferro si accorse che al numero 10 di Downing Street persino la servitù se ne sbatteva degli impolverati canti natalizi londinesi pur di canticchiare “Last Christmas, I gave you my heart but the very next day, you gave it away”.

Il canzoniere dei Wham galoppò classifiche di tutto il mondo, ma la voce di George Michael fece battere il cuore agli dei con due esibizioni che hanno scritto due pagine di storia della musica live: Don’t Let the Sun Going Down On Me con Elton John nel 1991 e Somebody to Love con i Queen nel 1992.

Geroge Michael si reinventò tra scivoloni di dance pop e soul bianco all’alba degli anni ’90, alla ricerca di una maturità musicale offuscata dalla vita privata: la morte del compagno a causa dell’AIDS, la depressione, il silenzio, il coming out arrivato soltanto alla fine del decennio. Ribadì in diverse circostanze: “Definisco la mia sessualità nei termini delle persone che amo”.

I legionari del pop oggi lo rimpiangono non tanto per la coralità di “Last Christmas”, quanto perché fecendo due conti in tasca hanno visto che anche la musica disimpegnata politicamente può spalleggiare ribellione: contro le dittature dei discografici, contro il patimento del vivere per apparire, contro chi impone l’ascolto della ragione e non del cuore per capirci qualcosa in più della vita.

Apostolo di questa ribellione controversa  è stato George Michael, morto prematuramente tra le braccia dell’Inghilterra post-Brexit frantumata in pezzi.