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Addio a Carlo Maria Martini, il Gesuita che avremmo voluto Papa

Il polacco Karol Wojtyla si era dimostrato un bravo talent scout e ci vide lungo nello sguardo algido di quel Gesuita, che sarebbe stato l’unico e legittimo successore. Carlo Maria Martini, l’Arcivescovo emerito di Milano, si è spento qualche ora fa a Gallarate, a pochi chilometri da Varese, dove da diversi anni combatteva contro il Parkinson. I non credenti hanno apprezzato il temperamento sobrio del filosofo, la sua apertura al dialogo verso le altre religioni; i fedeli invece l’integrità spirituale del padre Gesuita.

Carlo Maria Martini è stato capace di allenare una comunità, all’ombra del pontificato di Giovanni Paolo II, proteggendola dal conservatorismo che ha affossato la Chiesa, remando per mandare alla deriva il passato, guardando agli errori, simili ai peggiori scheletri nell’armadio, con le lenti del riformista. Battendo il pugno per affermare che “Dio non è cattolico”, il padre spirituale che era in lui ha ceduto il passo all’insuperabile biblista. Carlo Maria Martini aveva tenuto vigile lo sguardo sul futuro e sui cambi di stagione, fu sentinella mentre Milano usciva a fatica dal tunnel degli Anni di Piombo per finire affogata nell’ingordigia della movida degli yuppies e del rampantismo del tempo avvenire. Non lo aveva fatto però con lo scettro del sovrano despota, ma con l’intelligenza e la spiritualità che sanno fare di un Gesuita un principe e un essere davvero speciale.

Carlo Maria Martini è stato il Papa mancato, il Pontefice che alcuni di noi avrebbero voluto incrociare. E’ inutile girarci intorno, se non fosse stato per la feroce malattia, sarebbe arrivato a Roma con l’appoggio sacrosanto del Padreterno. E la manciata dei voti che ha fatto sogghignare i conservatori con l’elezione di Ratzinger, nella virata più a destra rispetto alle previsioni ottimiste, avrebbe consegnato la Chiesa nelle uniche mani che potevano tracciare la linea di continuità con il pontificato di Giovanni Paolo II.

Nel dicembre del 1998, in un gelido pomeriggio, lasciai in un angolo del Duomo di Milano un biglietto per lui. Quando tornai a Napoli, dopo una notte di treno, trovai una lettera che proveniva da Milano. C’era scritto pressappoco così: “Abbiamo trovato il suo biglietto nella Cattedrale. Il Cardinal Martini ha apprezzato le sue belle parole. Lui è vicino ai giovani. Rosario, non perda mai la speranza.” La conservai nella tasca del jeans e una settimana dopo risalii sullo stesso treno Espresso per tornare a cercare fortuna in una città che non era mia. Carlo Maria Martini, il Gesuita dalle ampie vedute, ha chiuso gli occhi a pochi metri da dove abito oggi. Di lui mi resta qualche goccia dell’ inchiostro che incoraggiò un ragazzotto del Sud a difendere valori e sogni dai paladini del cinismo.

  Habemus Papam vicino a Martini: Il gesuita moderato argentino…

Il ricordo: Su e giù in ascensore con Tonino Guerra

Nel periodo dell’università chiesi il rimborso di un biglietto del cinema. Mi avevano tagliato i titoli di coda. Lo reputavo una mancanza di rispetto per tutti coloro che avevano contributo alla realizzazione del film. Il nome di Tonino Guerra non è un uno spasimo emotivo temporaneo da piazzista social, ma un’anagrafica dei titoli di testa delle pellicole, che hanno decisamente segnato la mia vita.
Più di venti anni fa, ero in ascensore all’Excelsior del lido di Venezia. Ero di corsa per una conferenza stampa. L’ascensore iniziò a fare su e giù. L’anziano signore che mi stava accanto, mi rimproverò con ironia: “Non guardare l’orologio. Godiamoci questo bel momento. Questo sali scendi mi riporta ai luna park della mia Romagna”. Non lo avevo riconosciuto. Poco dopo mi resi conto che l’uomo baffuto fosse Tonino, la penna poetica intinta nel cinema.

Tonino Guerra è riapparso sporadicamente negli anni avvenire: alla cena degli ottanta anni di Michelangelo Antonioni ero imbambolato ad osservare il regista semiparalizzato. Mi chiedevo: “Dov’è finito Tonino? Se si alzasse per abbracciarlo, lo libererebbe con la sua poesia dalle sbarre che lo rendono detenuto in un corpo malato”.
Pensavo a Tonino Guerra tutte le volte che volevo fuggire a Sant’Arcangelo di Romagna, perché lì Leo (de Bernardinis) aveva avvolto un festival di teatro con la spiritualità monastica che ci voleva per riabilitar la scena italiana.
Pensai a Tonino Guerra quando misi in piede un omaggio girovago a Federico Fellini, ma non ci fu l’occasione per farlo salire sul carrozzone.

Mi vien voglia di tornare su una giostra e guardare la vita da lassù. E’ tutta un’altra cosa, non ci sono prospettive prestabilite. Forse era proprio quello che voleva dire Tonino Guerra al giovanotto sconosciuto in ascensore. Il giovanotto sconosciuto ero io.
E da quel giorno non fu più un nome e cognome dei titoli di testa del cinema della mia vita, ma il signore che mi fece fare il primo passo per diventare attento osservatore della realtà e allontanarmi dalle distrazioni che ci privano delle vere bellezze della vita.

Happy Birthday, Radio DeeJay: Che “cacarella” sotto quella notte…

Mia madre era seriamente preoccupata nel 1983. Andò dalla maestra Iole e le confessò le mie stranezze, perlomeno per un bambino di dieci anni. Appena tornato da scuola, mi fiondavo davanti al televisore a guardare i video musicali, proposti da DeeJay Television su Italia 1. Niente cartoni animati insomma, se non quelli infiltrati in sequenze epocali come The Wall dei Pink Floyd. Al mondo di Radio DeeJay ci sono arrivato per vie traverse, infilandomi nel tubo catodico.

Radio DeeJay festeggia oggi 30 anni: e chi lo immaginava che mi sarei ritrovato al brindisi per la mega festa al Forum di Assago con Linus, Albertino, Jovanotti, Fiorello, Gerry Scotti, Claudio Cecchetto e tanti altri. C’è un episodio bizzarro che mi riporta dalle parti di Linus & compagnia bella e ancora mi fa venire la “cacarella” sotto.
Nella prima metà degli anni Novanta finii, alla guida della mia Panda, in una via desolata alla periferia di Napoli. Mi ero perso e non sapevo più come venirne fuori. Niente navigatore, niente cellulare.

Ero sintonizzato su Radio DeeJay. Poco distante mi accorsi che si era appostata un’altra auto. Ebbi paura. Alzai il volume dell’autoradio al massimo, sperando che qualcuno mi notasse. Il tizio uscì dalla macchina e si accostò: “Ehi, anche tu di notte su Radio DeeJay? Hai alzato il volume e pensavo ti servisse aiuto”. Scoppiai a ridere e gli confessai che me la stavo facendo addosso dalla paura, perché temevo volesse rapinarmi. Insomma, in mezzo ad una campagna sperduta, alzo il volume dell’autoradio per difendermi e guarda chi spunta: un fan scatenato di Radio DeeJay. Mi mostrò l’adesivo appiccicato sul cruscotto che gli era arrivato da Milano poco tempo prima.

Ai tempi leggevo sporadicamente Dylan Dog e forse le troppe storie dell’indagatore dell’incubo mi avevano dato alla testa. Tuttavia, penso pure che Radio DeeJay mi abbia sottratto agli incubi nostalgici, senza farmi perdere la rotta del mio presente, quello che va oltre una semplice canzone e si svela dietro l’energia di un disc jokey. Per questo le devo qualcosa!

 Buon compleanno, Radio Deejay!

Abitare nel tempo: l’arredatore ritrovato

C’è il sole, tutti a mare ed io invece faccio il solito stravagante. Finisco in un delizioso negozio di arredamento e lo ritrovo tutto per me. Mi tuffo su un lettone rotondo in esposizione e giocherello con l’iPad, senza accorgermi di essere in vetrina. Insomma, desto la curiosità dei passanti, che pensano sia rimasto prigioniero in una domenica pomeriggio sulla soglia della calda stagione.
Invece no, ci sono capitato di proposito per ritagliare una pagina del mio diario: quell’estate di trenta anni fa e passa in cui mamma e papà mi portarono a scegliere la cameretta. Osservando i due titolari di Abitare nel Tempo di Assago che guidavano una giovane coppia nella scelta del proprio arredo, mi è tornata alla mente quella scena e ho pensato: adesso che siamo diventati tutti “pazzamente ikeizzati”, se fossi nato in questi anni mi sarei trovato immerso nel marasma dell’Ikea a scegliere il lettino e l’armadio. Insomma, è finita l’epoca della consultazione e presi dalla voglia matta del low cost a tutti i costi ce ne sbattiamo del resto. Ormai si va per l’omologazione e in molte della case che vado mi ritrovo la solita libreria Billy.
Senza togliere nulla al design svedese, forse dovremmo tornare ad affacciarsi dai mobilieri nostrani che si sforzano di ritrovare un equilibrio tra qualità e prezzo. Abitare nel tempo mi ha restituito un ricordo, quello di un giovane arredatore partenopeo che diede alla mia cameretta un’impronta che andasse al di là del tempo in cui l’avrei vissuta, lontana dalla crudele filosofia dell’usa e getta. Sarà pure una visione eccessivamente poetica, ma preferisco restare “prigioniero” nell’esposizione di quella vetrina e spacciarmi per l’under 40 anti-Ikea che fa l’impostore e rivaluta un mestiere dimenticato: l’arredatore.

Io odio il lunedì perchè Pasquale Mautone se ne andò senza preavviso!

Stazione di Napoli - Cavalleggeri d'Aosta

Rosario PipoloMafalda, il personaggio a fumetti di Quino, odiava la minestra. Io odio il lunedì e non è mai stata una novità: come è pesante l’inizio della settimana! Questa mattina mi sono svegliato e ho visto che il 9 novembre cade di lunedì, proprio come diciassette anni fa. Quel lunedì non avevo impegni, non erano iniziati neanche i corsi all’università. L’unico appuntamento in agenda era imparare a declinare il dolore. Mi recai in un ospedale nel centro di Napoli e lui era disteso lì: immobile, non respirava, il viso pallido. Me ne andai, fiondandomi diritto in viale Cavalleggeri d’Aosta. Ero disperato. Chedevo a chiunque del quartiere se avesse visto passare un signore sulla settantina, capelli brizzolati, occhialuto, baffi. All’edicola sotto casa dissi che si trattava dell’uomo che tutti i giorni intorno alle 10 acquistava il quotidiano Il Mattino; a Pino il salumerie che era il tizio, nonostante l’ipertensione, che non avrebbe mai rinunciato ad una manciata di sale; al giocattolaio che era il tipo che tutte le domeniche mi comperava un paio d’occhiali da sole; a don Luigi, il portiere del numero 119 di Cavalleggeri d’Aosta, che era Pasquale Mautone, il condomino del  sesto piano. Nessuno seppe dirmi niente. Salii sopra e la casa era tremendamente vuota. Era vuota la sua poltrona, si era fermato l’orologio a pendolo che aveva scandito il tempo delle sue giornate; persino la stufa non sbuffava più. Fu in quel preciso istante che fui scaraventato a terra dal dolore e, ricordandomi che fosse lunedì, mi balzò in mente una sua riflessione: “Detestavo il lunedì. Svegliarmi con il terrore che non avrei venduto neanche un maglione.  Caricare sull’auto il bancone e avere a che fare con i clienti”. Corsi alla stazione della metropolitana di Napoli – Cavalleggeri d’Aosta. Mi risollevai quando sentii il fischio di una locomotiva e mi ricordai di quando mi portava a guardare  i treni: “Nonno – gli ripetevo – Voglio crescere adesso. Voglio partire su quel treno e vedere dove finiscono i binari”.  Ho percorso migliaia e migliaia di chilometri su quei binari. E non bisognava fare il ferroviere per capire che il dolore per la perdita di una persona speciale ti resta tatuato tutta la vita.