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Quante emozioni mi ha lasciato l’incontro con Monica Vitti

Il mio incontro con Monica Vitti nel settembre 1995 diede una sterzata ai miei vent’anni e passa. Dopo quella lunga conferenza stampa al Lido di Venezia confessai a me stesso che avrei intrapreso questo mestiere, anche perché le stesse interviste erano una grande ricompensa nella crescita della vita.

LA MIA MONICA VITTI

Per chi ha preservato il Cinema e la Letteratura dalla gogliardia dei capricci di gioventù, la vita vi ha messo davanti salite e rinunce. Io ho barattato senza rimorsi il destino di un ventenne tra le certezze di provincia per una vita spericolata fatta di nuovi orizzonti in cui vi era riflesso il cinema di cui mi ero nutrito.
La mia Monica Vitti non è stata soltanto la passerella di personaggi cinematografici che mi avevano tenuto compagnia nei pomeriggi d’inverno in cui mi annoiavano tremendamente le versioni di greco e latino. La mia Monica Vitti è stata colei che, quella mattina d’estate, mi accecò di luce tra Alberto Sordi e Giuseppe De Santis, l’ultimo grande alfiere del Neorealismo italiano.

LA SUA GRAFIA E LE LINEE DELLA MIA MANO

Quel che resta dell’incontro, dello scambio di parole dopo l’intervista, di una stretta di mano, è tutto qui, nei segni di una biro blu, in una dedica che per quasi trent’anni è rimasta rinchiusa nel bunker del mio archivio di lavoro. Iniziai a riguardare i segni della sua grafia quandò Monica Vitti si defilò dalla vita pubblica a seguito della malattia.
Ho sempre pensato che l’unico tatuaggio naturale che meriti di appartenerci sia composto dalle linee della mano, alcune delle quali si dice contengano la traiettoria del nostro destino. Nel giorno in cui il cuore di Maria Luisa Ceciarelli ha smesso di battere, accosto alcuni tratti della sua dedica a due linee della mia mano destra. Sotto l’inchiostro c’erano le orme del mio futuro, quello in cui si ridisegna persino la geografia dei legami.

NELLA VITA DEGLI ALTRI

I social media hanno acceso l’arroganza in tanti di poter entrare nella vita degli altri in qualsiasi momento. Monica Vitti e suoi personaggi appartengono alla razza estinta che bussava alla porta della tua vita prima di entrare a farne parte. Al tavolo della mia vita privata vedo sedute alcune persone volate nel cosmo dell’eternità né per legame familiare né per imposizione altrui. E’ una sorta di incantesimo che porta la firma della vita, inspiegabile forma di libertà di amare e lasciarci amare a modo nostro, a qualsiasi prezzo, in una direzione ostinata e contraria alla chiassosa volgarità del nostro tempo.

Inspiegabile, può decifrare questo rebus dell’esistenza umana chi ha avuto il privilegio di viverlo, fuori dal coro. Buon riposo, Maria Luisa. Buon risveglio nell’eternità, Monica.

Milva mi appartiene: la prima intervista non si scorda mai

Ho un legame speciale con Milva, all’anagrafe Maria Ilva Biolcati, per chi l’ha amata semplicemente la Pantera di Goro. A febbraio del 1994, dopo un lungo colloquio al Quotidiano Il Golfo di Ischia, il compianto direttore Domenico Di Meglio mi disse: “Pipolo, mi piaci. Sei dei nostri. Riferiscono che le interviste sono il tuo forte. Chi vorresti incontrare per il primo articolo?”.

MILVA AL TEATRO DIANA DI NAPOLI

La mia scelta cadde sulla grande attrice e cantante, scomparsa oggi all’età di 81 anni. Mi fissarono l’intervista con Milva il 15 febbraio, prima dello spettacolo, ai tempi in cartellone al teatro Diana di Napoli. Arrivai al Vomero con largo anticipo con la 127 bianca di papà, ma in via Luca Giordano nel tardo pomeriggio era quasi un miraggio trovare un buco. La parcheggiai di sbieco e lasciai un postit specificando che ero in teatro per l’intervista, sperando nella clemenza dei vigili.
Mi tremavano le gambe, avevo taccuino e penna, il fidato registratore a cassette, regalo dei miei nonni a battesimo della nuova avventura lavorativa. Entrai nel camerino, Milva si stava truccando, mi fece sedere accanto a lei ed escalmò: “Un giovane giornalista! Sono felice di essere tornata a Napoli, una città che sa sempre stupirti. Voi napoletani siete delle persone speciali“.

La dedica di Milva dopo l’intervista nel febbraio del 1994

LEZIONE TRA TEATRO E MUSICA

Milva mi mise subito ad agio e, a distanza di anni, devo dire che non fu frettolosa perché ero “un giornalista alle prime armi”. Si dilungò con piacere e la nostra conversazione fu per me una lezione tra teatro e musica: il rapporto speciale con il suo pigmalione Giorgio Strehler, il teatro di Brecht nelle sfaccettature di lente privilegiata dell’esistenza umana, la svolta musicale con il disco dedicatole da Ennio Morricone, il flirt cantautoriale e sperimentale con Franco Battiato, il successo all’estero in Francia e Germania, il desiderio musicale di un disco tutto dedicato a Napoli (nel 1997 avrebbe pubblicato Mia bella Napoli).
Mi innamorai di Milva durante quell’incontro e ancora oggi sono convinto che Maria Ilva sia la donna che ogni uomo desidererebbe al suo fianco: intelligente, elegante, guerriera, appassionata, rispettosa della memoria, emancipata lontana dai cliché, senza peli sulla lingua, in difesa dei diritti e concreta all’occorrenza nelle battaglie civili.
Quella notte sotto il ticchettio di una macchina da scrivere Lettera 35 buttai giù l’intervista, che fu pubblicata il 18 febbraio 1994. Ricordo l’emozione di leggerla nelle edicole campane, la prima copia la regalai a mio padre.

IL REGALO DI MILVA A MILANO: PRESENTARMI ALDA MERINI

Dieci anni dopo ho ritrovato Milva a Milano in occasione dello spettacolo emozionante Milva canta Merini. Nel 2004, dietro le quinte del Filodrammatici, Milva mi ha accompagnato in camerino da Alda Merini, presentandomi alla poetessa in questo modo: “Alda, ho conosciuto questo giovane giornalista a Napoli diversi anni fa. Si è trasferito a Milano. Lo sai che ho tenuto a battesimo i suoi esordi?”.
Ricorderò Milva, oltre che per il suo temperamento artistico, per l’essenza di donna speciale, che oggi mi fa ritrovare queste sue parole:

Ritengo che proprio questa speciale combinazione di capacità, versatilità e passione sia stato il mio dono più prezioso e memorabile al pubblico e alla musica che ho interpretato e per quello voglio essere ricordata.

Festa del Papà: La bici senza rotelle

Nel luglio del 1980, in un viale di Paestum, mio padre mi insegnò ad andare in bici senza rotelle. E’ un ricordo nitido che mi balena in mente con prepotenza in occasione della Festa del Papà, la prima senza di lui.

Mi sembra di rivivere in questo 19 marzo quel pomeriggio in cui mi lasciò andare da solo: non potevo girarmi, altrimenti perdevo l’equilibrio. Sentivo comunque che il suo sguardo mi accompagnava, proprio come oggi, mentre sbirciavo i villeggianti ai lati della strada.

Oggi su quella stessa strada ritrovo tutti coloro che ci hanno dato supporto negli ultimi anni della malattia di mio padre. L’articolo, pubblicato stamattina su Linkiesta.it, è dedicato a chi fa della Salute un diritto di tutti.

Scuola di vita e teatro con Luigi De Filippo in quindici anni di camerino

Nel 1984 mia madre, che aveva una particolare adorazione per Eduardo, Peppino e Titina, mi regalò un biglietto per lo spettacolo Non è vero ma ci credo di Peppino De Filippo. Ci andai con la classe delle medie al teatro Diana di Napoli. Fu la prima volta che vidi sul palco Luigi De Filippo e non immaginavo di certo che anni dopo sarei tornato come giornalista in quei camerini ad intervistarlo.

In realtà con Luigi è accaduto qualcosa di diverso rispetto agli altri attori teatrali incontrati sul mio cammino. Tra il 1987 e il 1992, negli anni in cui da adolescente vagavo da abusivo nei camerini teatrali con un mangianastri fregato a mia sorella, ho conversato ogni stagione teatrale con l’ultimo erede dei De Filippo.

Al termine dello spettacolo mi appostavo davanti al suo camerino come un cane fedele che scodinzola e aspetta che il padrone gli dia un osso. Attraverso lo specchio mi riconosceva e puntualmente ripeteva: “Stai ccà ‘nata vota. Assiettete”. Prendevo la seggiola, mi sedevo accanto a lui, azionavo il mangianastri e lo ascoltavo mentre si struccava.
Luigi De Filippo aveva la stessa sagoma di mio nonno Pasquale, per giunta baffuto con lui, e mi trattava ogni volta con lo stessa attenzione di un nonno verso il nipotino che con devozione ha una voglia matta di raccogliere memorie per crescere. Poi arrivava uno dei suoi attori preferiti in compagnia, il garbato Oscarino Di Maio – indimenticabile in una messa in scena di fine anni ’80 di La lettera di Mammà – che mi faceva sentire come uno di famiglia.

Riascoltare oggi sui nastri del mio archivio alcuni frammenti delle nostre conversazioni di allora mi commuove profondamente e non per quell’alone romantico di noi testardi pronti a fare del teatro l’unica scuola di vita.
Gli occhi severi ed entusiasti di Luigi De Filippo hanno accompagnato la mia crescita perché il teatro, quello fatto di sacrifici e anche di “umiliazioni” come gli aveva insegnato suo padre Peppino, resta l’unico impermeabile per sottrarsi alle piogge acide che avvelenano chi guarda al futuro facendo della memoria un gomitolo di cartapesta.

L’ultima volta che incontrai Luigi De Filippo fu a Roma nel ’98 per una ripresa di L’amico di Papà. Quella volta non ero “l’abusivo del camerino” ma un giornalista accreditato. In quell’occasione Luigi mi ricordò che l’universatilità della napoletanità, ereditata dal palcoscenico di nonno Scarpetta e papà Peppino, era il valore che la mia generazione doveva difendere a denti stretti affinché Napoli non perdesse lo scettro di culla del teatro.
Si infilò il soprabito, mi diede un pizzicotto, entrò in un’auto e scomparve come un puntino su via Nazionale.

 

Senza la tradizione teatrale che la mia famiglia ha costruito nel tempo non sarei quello che sono diventato. Luigi De Filippo (1930-2018)

Quel concerto di Paul McCartney insieme a Fabrizio Frizzi

Il 19 febbraio 1993 al Forum di Assago io e Fabrizio Frizzi sembravamo il fratello minore insieme al maggiore venuti a spartirsi il concerto di Paul McCartney. Avevamo due cose in comune: la montatura degli occhiali e la passione sfrenata per i Beatles.

Io ero arrivato a Milano da Napoli, dopo una litigata furibonda con mio padre, non ancora ventenne. Lui aveva superato da un pezzo la trentina e aveva accanto la sua Rita. Lei mi sorrideva, con Frizzi attaccai bottone e gli dissi che i miei compagni di liceo notavano una somiglianza tra me e lui. Parlammo delle canzoni di McCartney, dei Beatles, mi disse che la sua preferita era Penny Lane.

In quella mezz’ora, prima l’inizio del concerto di Macca, Frizzi mi apparve improvvisamente come un fratello maggiore che ti faceva venire voglia di aprirti senza timore di essere giudicato. Rassicurò le mie perplessità da neo studente universitario senza né arte né parte con una sagace riflessione: “Le passioni sane vanno alimentate perché ci aiutano a far venire fuori il meglio di noi stessi”.

Al termine del concerto con il suo bon ton Fabrizio Frizzi mi consigliò di accorciare i capelli se volevo assomigliargli di più. Ci stringemmo la mano e poi lui scomparve lungo un corridio del Forum tenendo per mano Rita Dalla Chiesa.
Stasera ho tirato fuori dal mio archivio il biglietto di quel concerto memorabile. Glielo dedico dopo venticinque anni esatti insieme a questa bella fiaba che tanti anni fa lesse in chiusura di una trasmissione televisiva:

Le quattro candele, bruciando, si consumavano lentamente.
Il luogo era talmente silenzioso, che si poteva ascoltare la loro conversazione.

La prima diceva:
“IO SONO LA PACE, ma gli uomini non mi vogliono:
penso proprio che non mi resti altro da fare che spegnermi!”
Così fu e, a poco a poco, la candela si lasciò spegnere completamente.

La seconda disse:
“IO SONO LA FEDE purtroppo non servo a nulla.
Gli uomini non ne vogliono sapere di me, non ha senso che io resti accesa”.
Appena ebbe terminato di parlare, una leggera brezza soffiò su di lei e la spense.

Triste triste, la terza candela a sua volta disse:
“IO SONO L’AMORE non ho la forza per continuare a rimanere accesa.
Gli uomini non mi considerano e non comprendono la mia importanza.
Troppe volte preferiscono odiare!”
E senza attendere oltre, la candela si lasciò spegnere.

…Un bimbo in quel momento entrò nella stanza e vide le tre candele spente.
“Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese, io ho paura del buio!”
E così dicendo scoppiò in lacrime.

Allora la quarta candela, impietositasi disse:
“Non temere, non piangere: finchè io sarò accesa, potremo sempre riaccendere le altre tre candele:
IO SONO LA SPERANZA”

Con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime, il bimbo prese la candela della speranza e riaccese tutte le altre.

CHE NON SI SPENGA MAI LA SPERANZA DENTRO IL NOSTRO CUORE…

…e che ciascuno di noi possa essere lo strumento, come quel bimbo, capace in ogni momento di riaccendere con la sua Speranza,

la FEDE, la PACE e l’AMORE.

Pioggia di ricordi nel 19 marzo: i papà per l’eternità

Negli anni dall’infanzia mi ricordavo della Festa del Papà perché a scuola avevo già imparato a memoria la poesia che gli avrei dato il 19 marzo. Oggi mi basta aprire la finestra dei social network per sentirmi bagnato da una pioggia di ricordi condivisi tra migliaia di foto e messaggi dedicati al proprio papà.

In realtà oggi ad aver catturato la mia attenzione sono stati i pensieri dedicati ai papà che non ci sono più, una valanga rispetto all’altra sponda di chi invece ha la fortuna di averlo ancora. Riflettevo su quanto l’estensione di questa ricorrenza al di là della vita facesse della paternità un cardine in qualsiasi angolo temporale perché, come scriveva Elis Râpeanu, “per tenere un bambino in braccio ti basta solo l’amore, per allevarlo ti serve molto di più, per essere suo padre, ti deve dare qualcosa anche Dio.”

In realtà non ho mai chiesto a mio padre in quale istante dedicasse un pensiero al suo il 19 marzo, negli anni successivi alla sua perdita, e né lui mai me ne parlava. Tuttavia, i ricordi si sbadigliano all’improvviso e si ricongiungono a noi al di là della festa.
C’è un 19 marzo che germoglia in noi tutte le volte che ancheggiamo nell’hula hoop della vita: prima di essere papà, siamo stati figli. Nessuno potrà scipparci il privilegio di essere stati figli finché avremo un papà da ricordare, il nostro.

I was once like you are now, and I know that it’s not easy,
To be calm when you’ve found something going on
But take your time, think a lot,
Why, think of everything you’ve got
For you will still be here tomorrow, but your dreams may not…

Cartolina d’estate: insieme a Luca sulla collina di Posillipo

Rosario PipoloSapevo che ti avrei trovato qui. Luca, sei proprio un milanese dal cuore napoletano: niente Navigli, niente Darsena, ma la cima della collina di Posillipo. Aspetta che mi siedo più vicino così riesci a sentire questo mio farfugliare.

Te lo avevo raccontato una volta e forse è accaduto negli stessi anni in cui hai vissuto nella mia Napoli. Nonno Pasquale mi portò qui da bimbo indicandomi questo posto come finestra spalancata su uno scorcio della città, lontano dalla solita cartolina con il Vesuvio intascata da chi vorrebbe questa Napoli culla del chiasso.
Proprio questa immensa terrazza, che affaccia sul parco sommerso della Gaiola, è il luogo più appropriato per appartarsi con i pensieri della propria anima.

Posillipo non appartiene ai napoletani radical chic, soffocati dalla goffaggine della loro finta signorilità, ma a Dio. Luca, non ridere: dai tempi dell’infanzia sono convinto che Dio non sa nuotare.  Secondo te se il Padreterno fosse stato un abile nuotatore, avrebbe lasciato annegare pescatori e marinai che da questo golfo non sono più tornati?

Pure nonno Pasquale assecondava, ridendo sotto i baffi, la mia stralunata idea. Dio usa la collina di Posillipo come materassino per galleggiare in acqua e puntualmente torna qui, lasciandoci innamorare.
Luca, la senti questa brezza che ci accarezza ora? Sembra la mano di Dio, ci libera, ci fa sentire più leggeri. Basta davvero una manciata d’amore per seppellire il dolore, per zittire il tamburo di latta della solitudine.

Mi sono convinto che ad arrugginirci in fretta sui nostri posti di lavoro è il maledetto muro alzato tra una scrivania e l’altra e cementato dalle banalità che spopolano alle macchinette del caffè. Per fortuna io e te ci siamo spartiti un capo donna capace di ricordarci che soltanto la nostra umanità può valorizzare i successi e i fallimenti nel lavoro di tutti i giorni.

Perciò Luca, anche tra colleghi, non dovremmo vergognarci di ripeterlo. Sono ritornato a Napoli d’estate non per farfugliare questi pensieri bizzarri, bensì per dirti che ti ho voluto bene.
Luca, pianto un fiore qui così la prossima volta sapremo quale sarà il punto esatto dove rincontrarci, qui sulla collina di Posillipo.

A ripetizione di teatro da Regina Bianchi, l’ultima grande Filumena Marturano

Rosario PipoloNel 1988 mi presentai in camerino a fine spettacolo. Avevo un piccolo registratore a cassette. Regina Bianchi mi rimproverò: “Guagliò, vai a giocare con quelli dell’età tua. Che ce fai a sentì ‘na vecchia comme me?”. L’attrice era della stessa generazione di mia nonna Lucia. Le dissi che non mi interessava quello che facevano i miei coetanei. A quindici anni volevo capire da lei di che materia fosse fatto il teatro.
Regina cominciò a struccarsi. Il mio sguardo incrociava il suo attraverso lo specchio di un teatro alla periferia di Napoli, mentre mi accennava all’incontro con il palcoscenico e all’esperienza con Eduardo. Alla fine di questa breve lezione, precisò: “Guagliò, il teatro è sacrificio costante e quotidiano. E’ come la vita. Finché non lo avvertirai sulla tua pelle, non capirai mai questo mestiere”.

Ogni stagione teatrale capitava che la incontrassi, puntualmente alla fine dello spettacolo. Mi ricordo una volta la sua assistente: “Signò, c’è quel ragazzino con gli occhiali. Ve lo ricordate?”. E lei, dopo avermi riconosciuto, ripeteva: “E tu ccà nata vota staje”. Regina Bianchi aveva capito che il mio “toc toc” alla porta del camerino assomigliava alla voglia di prendere ripetizioni di teatro. Si trasformò in un piccolo rito e una volta aggiunse: “Mi sento una nonna che racconta il teatro al nipote incuriosito”.

Per diversi anni la persi di vista. La incrociai a metà degli anni Novanta. Lei non lo riconobbe quel giovane giornalista, che fu annunciato per una breve intervista. Le chiesi della severità di Eduardo De Filippo e dell’aneddoto che circolava tra noi addetti ai lavori: pare che Eduardo l’avesse buttata fuori dalla compagnia perché, dopo una rappresentazione di Filumena Marturano, chiamata dal pubblico che la acclamava, avesse fatto un passo in avanti per prendersi gli applausi. Secondo il rigido protocollo, non avrebbe dovuto commettere questa gaffe perché sarebbe toccato al capocomico, Eduardo in questo caso, prenderla per mano e condurla verso il pubblico.

Regina Bianchi fu molto diplomatica e replicò: “Crede pure agli aneddoti?”. Cambiò discorso. Io per smorzare i toni, le rivelai chi fossi. Sorrise e si ricordò. Anzi, mi chiese anche di mia nonna Lucia,  perché una volta aveva apprezzato un suo maglione all’uncinetto che indossavo. Quando avvertì il mio dolore – l’avevo persa da pochi mesi – mi diede una lunga carezza. Mi guardò con lo stesso sguardo della sua Filumena Marturano, come a voler dire che “io la soddisfazione di piangere l’avevo potuta avere perché il bene lo avevo conosciuto”.
L’accompagnai all’auto, tenendola sottobraccio. Quella fu l’ultima volta che la vidi. Scomparve nel buio l’attrice Regina Bianchi, che con il suo stile recitativo sobrio e interiore aveva dato voce all’anima di Napoli,  e riapparve la sagoma di donna Regina D’Antigny. Adesso il sipario è calato, per sempre. Per me no, che ho avuto la fortuna di prendere qualche ripetizione di teatro da lei.

  E’ morta Regina Bianchi, grandissima del teatro napoletano.

Diario di compleanno: Il bimbo “pirata” e i 50 anni della cassiera della Standa

Rosario PipoloAlla fine degli anni Settanta aprirono una piccola Standa, nel centro storico del mio paese. Mentre fuori il territorio metteva i tappi alle orecchie per non sentire i colpi roventi della criminalità di allora, io in quel supermercato capii come guidare il carrello e mi vantavo di riconoscere i prodotti della spesa di mamma attraverso i colori delle confezioni. Quando imparai a leggere, mi divertivo a decifrare le etichette ad alta voce e spesso attiravo l’attenzione di un gruppo di ragazze carine che lavoravano lì.

Ce ne era una che mi colpiva. Era spesso al reparto cosmetici. Mentre allestiva la vetrinetta, riuscivo a strapparle un sorriso. Ai tempi mi sentivo un bimbo occhialuto e per giunta “pirata”: Il Prof. Marcello Gaipa mi aveva piazzato un benda sull’occhio sinistro e quella era l’unica via di salvezza per il mio occhio pigro. Tornando alla ragazza della Standa, una volta all’uscita da scuola, la trovai alla cassa. Avevo il broncio. A scuola non avevo trovato nessuna damigella per il ballo di Carnevale. La cassiera della Standa mi chiese se avessi la fidanzata. Ed io, indicandole l’occhio bendato, le feci segno come a dire chi mi avrebbe mai preso conciato in quella maniera. Prese una manciata di caramelle e la mise nel palmo della mia mano, smaltendo tanta tenerezza in un filo di voce rassicurante: “Quando toglierai la benda, il tuo occhio guarirà e tornerai ad essere il bambino più bello del mondo”.

Le caramelle finirono e la Standa, a ridosso della vecchia piazza San Pietro, chiuse i battenti quando mi tolsero la benda. Volevo farmi vedere dalla cassiera, ma lei non c’era più. Infilando la mano nel grembiule trovai una caramella, l’ultima, che non avevo mai scartato.
Oggi la ragazza della Standa compie 50 anni. L’ho ritrovata nella notte del suo compleanno e le restituisco l’ultima caramella che ho conservato in tutti questi anni, regalandole questo aneddoto da libro Cuore. A quel tempo ero un cucciolo addomesticato, oggi sono un randagio vagabondo che però non ha mai strappato le pagine del suo diario. Non conoscevo il nome della cassiera della Standa, ma visto che a volte il destino ci mette del suo per farci ritrovare le persone che hanno sfiorato la nostra infanzia, nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, posso scegliere liberamente e legittimamente come chiamarla: Buon compleanno, zia.

Addio a Mariangela Melato. In un camerino mi diede una gran bella lezione…

Mariangela Melato

Rosario PipoloLa prima volta che la incontrai in camerino, tremavo come una foglia. Accadde al teatro Diana di Napoli. E non perché fossi un giovane alle prese con le prime interviste, ma perché Mariangela Melato a teatro mi confermava sempre la stessa impressione: in quel corpo trovavo l’eleganza di un cigno che avvolgeva la sensibilità, la semplicità, l’intelligenza, l’ironia di una donna autentica ed indipendente.

Il camerino era illuminato. Mi mise ad agio. Chiacchierammo. Non parlammo di cinema, solo di teatro. Teatro, tanto teatro. L’audiocassetta terminò e il registratore smise di girare. Stavo per cambiare nastro. Lei mi fermò con la coda dell’occhio e disse: “Continuiamo noi due. Questi aggeggi danno un tono troppo meccanico agli incontri.” La Melato diede una gran bella lezione ad uno sbarbatello come me. Trasformare un’intervista in un incontro arricchiva l’intervistato, offrendogli il grande privilegio di intravedere l’altra prospettiva di un attore.

Fino a quel momento Mariangela Melato era stata per me la sottoproletaria Fiore in Mimì Metallurgico di cui mi ero infatuato, attraverso un piccolo televisore in bianco e nero in cucina, attaccato alla gonnella di mia madre. Dopo quell’intervista – pardon, incontro – Mariangela Melato si rivelò l’unica donna del palcoscenico italiano a vestire la nudità delle generazioni degli Anni di Piombo e del Riflusso in Italia. I suoi personaggi memorabili, al cinema, in televisione o a teatro, ci hanno aiutato a difenderci dalla mediocrità della quotidianità.

Mariangela Melato se n’è andata proprio in un momento storico in cui la mediocrità è all’ordine del giorno. Soprattutto quella più insidiosa, con cui a volte ci troviamo gomito a gomito nella routine, quella che trapela dalle persone mediocri, di cui dobbiamo imparare a disfarci nella vita privata e lavorativa.
E sono proprio le donne anti-dive alla Melato a restituire al teatro l’inossidabile funzione di depuratore dell’intelletto, del pensiero, dell’anima. Joan Baez disse: “Non si può scegliere il modo di morire e nemmeno il giorno. Si può decidere soltanto come vivere”. Mariangela Melato ha vissuto nel teatro e per il teatro.

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